lunedì 24 novembre 2008

Intervista a Pietro Ichino

a cura di Alessandra Puato pubblicata sul Corriere Economia del 24.11.2008
Una sorta di baratto con le aziende: per i nuovi rapporti che si costituiranno d’ora in avanti, esenzione dall’articolo 18 sui licenziamenti per motivi economici in cambio dei sussidi alla disoccupazione per i lavoratori, a carico delle imprese; ma assunzione a tempo indeterminato per tutti. È questa l’idea di Pietro Ichino, giuslavorista, parlamentare del Pd. Se ne sta discutendo, in questi giorni, all’interno del Partito Democratico. Anche qui, come nell’ipotesi di Michele Tiraboschi, si punta sugli enti bilaterali, gli enti di costituzione volontaria, regionali, fra industria e sindacato. Ma l’intervento richiesto è solo quello delle imprese, senza Stato.
Ichino la considera una proposta «necessaria, urgente e più radicale» dell’inattuato progetto sulle tutele del Libro Bianco del 2001 di Marco Biagi, la parte non recepita dalla legge Biagi. «Noi puntiamo sull’idea di affidare l’intervento di sostegno alla disoccupazione agli enti bilaterali, di cui le imprese abbiano la gestione tecnica e i sindacati il controllo — dice Ichino —. Chiediamo che le imprese finanzino per intero il processo e abbiano, in cambio, più flessibilità: cioè la possibilità di attuare licenziamenti per motivi economici e organizzativi in modo snello».
Propone di abrogare l’articolo 18?
«No: di applicarlo soltanto nei casi di licenziamento disciplinare e contro quelli discriminatori, non ai processi di aggiustamento industriale».
E sono tutti d’accordo nel Pd?
«Per ora, è ciò a cui sta lavorando un gruppo di parlamentari. C’è una bozza, sulla quale si sta discutendo. Spero che diventi la proposta del Pd nella conferenza programmatica del febbraio prossimo».
I lavoratori precari saranno i più colpiti dalla crisi? Si rischia lo scollamento padri-figli?
«Sì e lo si osserva già. Quando il lavoro non c’è, i primi a essere lasciati a casa, senza un soldo di indennizzo, sono loro. Penso che entro l’anno saranno in decine di migliaia a perdere il posto. È necessario estendere il trattamento di disoccupazione: sia per correggere la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori regolari, e sanare il divario generazionale, sia per contrastare il calo dei consumi».
Manca la copertura, dice il governo. Si parla di un intervento Stato-aziende.
«Il progetto a cui stiamo lavorando accolla l’intero costo alle imprese disponibili: il nuovo regime si applicherà là dove verrà contrattata col sindacato l’istituzione dell’ente bilaterale regionale capace di garantire ai disoccupati gli standard di trattamento di cui ho detto sopra, con i servizi di riqualificazione e ricollocazione del lavoratore. Si chiede alle imprese di farsi carico del costo sociale, offrendo in cambio un nuovo modello di rapporti di lavoro; quelle che rifiuteranno l’accordo sulla flexicurity potranno tenersene fuori, quelle che accetteranno avranno maggiore flessibilità ma se ne accolleranno il costo sociale».
Quanto costerebbe alle imprese?
«Con un trattamento alla danese, che parte dal 90% dell’ultima retribuzione e scende al 60% in quattro anni, basterebbe un aumento conributivo dello 0,5% delle retribuzioni lorde, con un meccanismo di bonus-malus: l’imprenditore che licenzia di più, vede lievitare i propri contributi. Occorre però anche il controllo del comportamento del lavoratore sul mercato. Il sussidio può indurre a rallentare o cessare la ricerca di un nuovo posto; per questo occorre affidare la gestione dell’indennizzo e dei servizi di riqualificazione e ricollocazione a chi ha il know-how ed è fortemente incentivato a farli funzionare bene, per ridurre il costo complessivo del sistema».
Oggi viene assunto solo un lavoratore temporaneo su quattro, dice l’Isfol.
«Con il nostro sistema, salvo poche eccezioni, dove scatterà la flexicurity tutti i nuovi rapporti di lavoro saranno a tempo indeterminato. Poiché il nuovo regime si applicherà soltanto ai rapporti che si costituiranno da quel momento in poi, all’inizio ci saranno solo assunzioni, e ci sarà il tempo e l’accumulo di risorse per organizzare le strutture».
E i precari di oggi?
«Avranno comunque bisogno di un sostegno, ma temo che sarà meno efficiente».
Qui di seguito è riportata una bozza della stessa intervista, più completa ma più lunga, che ha dovuto poi essere ridotta nella forma riportata sopra.
Ritiene che i lavoratori precari, in particolare i contratti a termine, saranno i più colpiti dalla crisi?
Non è cosa opinabile: la si osserva già direttamente. Quando il lavoro non c’è, i primi a essere lasciati a casa, senza una lira di indennizzo e senza trattamento di disoccupazione, sono proprio loro. Sono i paria, quelli che portano tutto il peso della flessibilità che serve alle imprese.
Quanti stanno perdendo il posto?
Questo ancora è un dato di cui non disponiamo. Ma penso che saranno entro l’anno decine di migliaia.
Ritiene necessaria, e possibile, un’estensione del trattamento di disoccupazione a questi lavoratori?
Sì. È necessaria sia come misura sociale, per correggere la grave disparità di trattamento rispetto ai “regolari”, sia come misura anticiclica, per contrastare il calo dei consumi in questa fase di recessione. Ma questa estensione è resa difficile da un difetto grave del nostro sistema, che finora non è stato affrontato seriamente.
Quale?
Se manca il controllo sul comportamento del lavoratore nel mercato, i trattamenti di disoccupazione possono avere effetti indesiderabili e costare molto più di quel che dovrebbero.
Spieghi meglio.
Il sussidio può indurre il disoccupato a rallentare o cessare la ricerca di un nuovo posto di lavoro regolare. Oppure ad occultare il lavoro che effettivamente trova, per poterne cumulare il reddito con il sussidio stesso. I servizi pubblici italiani sono molto indietro, su questo terreno.
Occorrerebbe anche un maggior senso civico da parte di chi gode del trattamento di sostegno.
Proprio così; e infatti alcuni economisti sostengono che i modelli di flexicurity nord-europei non sono praticabili nei Paesi come il nostro nei quali fa difetto la cultura delle regole.
Allora che cosa, concretamente, si può fare da noi per aumentare le tutele ai più deboli?
Il progetto a cui sto lavorando con alcuni colleghi parlamentari, e di cui si sta discutendo in seno al Partito democratico, consiste in questo: affidare la gestione integrata del trattamento di disoccupazione e dei servizi di riqualificazione mirata e ricollocazione del lavoratore che perde il posto a un sistema di enti bilaterali regionali, cogestiti dalle imprese di ciascun settore con le rispettive controparti sindacali. Le imprese ci mettono la capacità gestionale; il sindacato controlla che rigore ed efficienza non si traducano in vessazione ai danni del disoccupato.
Chi paga?
Le imprese: è sensato chiedere loro di farsi carico del costo sociale dell’aggiustamento industriale, offrendo loro in cambio un nuovo rapporto di lavoro a stabilità crescente con l’anzianità di servizio, che consenta comunque più facilmente quell’aggiustamento. È proprio l’idea della flexicurity: coniugare la flessibilità per le imprese con la sicurezza che è data al lavoratore soprattutto da un elevato trattamento di disoccupazione e buoni servizi per ritrovare l’occupazione.
Ma un sistema di questo genere non si crea da un giorno all’altro.
Infatti, l’idea è di applicarlo soltanto ai rapporti che si costituiscono da oggi in poi. Così, all’inizio ci saranno soltanto assunzioni; ci sarà il tempo di organizzare bene le nuove strutture; e queste avranno un carico di lavoro che andrà crescendo molto gradualmente.
Avete calcolato quale sarebbe il costo per le imprese di un sistema di questo genere?
Con un trattamento di disoccupazione “alla danese”, che parte dal 90% dell’ultima retribuzione e scende gradualmente al 60% in quattro anni, basterebbe, a regime, un aumento contributivo dello 0,5% delle retribuzioni lorde, con un meccanismo bonus/malus, per cui l’imprenditore che licenzia di più vede lievitare il contributo a proprio carico.
In questo modo, però, resterebbero tagliati fuori i vecchi precari, quelli che perdono il posto oggi.
Per questi si dovrà comunque attivare un sostegno; ma temo che non potrà essere se non una forma di assistenza più rudimentale e meno efficiente.
Quella che lei delinea per il futuro sembrerebbe la seconda “gamba” del Libro bianco di Marco Biagi: quella degli ammortizzatori sociali, appunto, che non è stata poi attuata.
È proprio così. Siamo in grave ritardo. Ma questo è un progetto più radicale di quello del Libro bianco del 2001.
Dei contratti temporanei oggi solo uno su quattro diventa a tempo indeterminato in un anno, dice l’Isfol. Qual è una soluzione praticabile per evitare ai giovani questa trappola del precariato?
Nel nuovo sistema di cui ho parlato prima, salvo poche eccezioni tutti i nuovi rapporti di lavoro dovrebbero essere a tempo indeterminato, ma con una protezione della stabilità che cresce gradualmente nel tempo.
In sostanza, sta proponendo dunque di abrogare l’articolo 18 per i rapporti di lavoro futuri?
No: di applicarlo soltanto nei casi di licenziamento disciplinare e contro quelli discriminatori. Non ai licenziamenti per motivi economici e organizzativi: per questi è migliore il sistema di protezione nord-europeo di cui abbiamo parlato. Da tutti i punti di vista: soprattutto da quello dei lavoratori.
Lei ritiene politicamente praticabile una riforma di questo genere, in un periodo di grave crisi come quello che stiamo attraversando?
La ritengo urgentemente necessaria proprio in un periodo come questo: essa non toccherebbe minimamente chi ha già un rapporto di lavoro stabile, mentre consentirebbe alle imprese che vanno bene di assumere con maggiore larghezza, nonostante la situazione di grave incertezza sul futuro.

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