venerdì 30 gennaio 2009

Pietro Ichino risponde a Donata Gottardi

Rispondo analiticamente alle osservazioni critiche e agli interrogativi sul “progetto per la transizione a un sistema di flexsecurity”, proposti da Donata Gottardi nel documento distribuito ai membri della Consulta del Lavoro e del Welfare del Pd in preparazione della sessione del 4 febbraio prossimo. In che senso parliamo di “dualismo” del nostro mercato del lavoro e tessuto produttivo?
Essenzialmente nel senso della distinzione tra lavoratori stabili, a tempo indeterminato, da una parte, e, dall’altra, lavoratori a termine, precari, in posizione di sostanziale dipendenza economica dall’azienda, quale che sia la qualificazione formale del loro rapporto, e aspiranti-lavoratori.
In questa divisione, come consideriamo i lavoratori “in somministrazione”?
Propongo di considerare stabili i lavoratori dipendenti dall’agenzia fornitrice a tempo indeterminato (che vengano utilizzati sia per una sequenza di “missioni” a termine, sia per rapporti di staff leasing), precari quelli assunti soltanto per la singola missione, in tutto e per tutto equiparabili ai lavoratori a termine dipendenti direttamente dall’impresa utilizzatrice.
E come consideriamo gli apprendisti?
Oggi sono dei lavoratori a termine. Secondo il progetto l’apprendistato diventa una clausola eventuale di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (con la conseguenza che se, al termine l’impresa intende licenziare il lavoratore, essa è libera di farlo – salvo che per motivi discriminatori ‑ ma in tal caso deve pagargli la relativa indennità e garantirgli assistenza per la fase di ricerca della nuova occupazione attraverso l’ente a ciò preposto). Questa, però, come tutte quelle che seguono, è soltanto la mia proposta per una sorta di “canovaccio” del disegno di legge, sul quale credo debba svolgersi una vera e propria trattativa politica tra rappresentanti dei lavoratori e delle imprese circa il contenuto del disegno di legge: chiamiamo da qui in poi questa trattativa, per rapidità, “negoziato preliminare”.
Perché esentare dalla nuova disciplina le collaborazioni continuative autonome con retribuzione annua lorda superiore ai 40.000 euro?
È una proposta dettata da considerazioni puramente pragmatiche: al di sopra di un certo livello di reddito si può presumere una forza contrattuale effettiva del lavoratore tale da giustificare una minor protezione inderogabile. Ovviamente, anche la soglia dei 40.000 euro deve essere oggetto di verifica nel negoziato preliminare sul contenuto del disegno di legge: nulla in contrario, da parte mia, ad alzarla a 60.000, per esempio; oppure anche ad alzare la soglia fino al limite minimo delle retribuzioni dirigenziali applicandola anche al lavoro subordinato. Se si opta per quest’ultima soluzione, sarà comunque opportuno fare in modo che anche i dirigenti (per lo meno il low e middle management) possano fruire del nuovo sistema di sicurezza nel mercato.
Che interesse possono avere le piccole imprese, cui oggi non si applica l’articolo 18 St.lav., a scegliere il nuovo regime con il “contratto di transizione”?
Interesse scarso, se non c’è un finanziamento pubblico dell’ente bilaterale o consortile. Per questo il progetto prevede tale finanziamento, nella misura dello 0,5% del monte salari relativo ai nuovi assunti (sui criteri di determinazione di questa misura rinvio alla relazione introduttiva al disegno di legge). Si calcola che, nel caso estremo (e sicuramente non probabile, almeno nei primi anni di applicazione della nuova legge) in cui tutti i 3 milioni di dipendenti di piccole imprese fossero interessati da “contratti di transizione” al nuovo regime, il costo aggiuntivo per l’Erario ammonterebbe a circa 500 milioni.
Se le piccole imprese non saranno coinvolte, di quale superamento di dualismo stiamo parlando?
Il finanziamento pubblico di cui si è detto costituirà un incentivo rilevante alla stipulazione del “contratto di transizione” anche nel settore delle piccole imprese. Il che significa anche nuovi spazi di azione del sindacato in un settore nel quale oggi la sua presenza è molto debole. Non dimentichiamo, comunque, che le imprese con meno di 16 dipendenti costituiscono, sì, una larga maggioranza nel nostro tessuto produttivo rispetto al numero totale delle imprese; ma i loro dipendenti costituiscono soltanto un terzo del totale nel settore privato: circa due terzi dipendono da imprese alle quali l’articolo 18 si applica (intorno ai 6 milioni).
Perché proprio dal Partito democratico dovrebbe provenire la riproposizione del superamento della tutela forte contro i licenziamenti, dopo il suo accantonamento per mancanza di interesse da parte delle stesse imprese e del Governo di destra?
Questa iniziativa spetta a noi per due motivi di grande rilievo: 1) perché essa costituisce il passaggio indispensabile per superare il dualismo tra protetti e precari di cui si è detto all’inizio; 2) perché nel nostro programma elettorale abbiamo indicato in modo molto netto l’obiettivo di “combattere la precarietà del lavoro in tutte le sue forme, contrastare l’ingiustizia dell’esclusione di milioni di lavoratori dalla protezione della sicurezza del lavoro e del reddito, assumendo come modello quello della migliore flexicurity europea; questo significa coniugare il massimo possibile di flessibilità e adattabilità delle strutture produttive con la libertà delle scelte di vita e con il massimo possibile di eguaglianza di opportunità, di sicurezza e benessere per tutti i lavoratori, nessuno escluso” (manifesto “Per dare valore al lavoro”, 14 marzo 2008). Che il Governo Berlusconi non abbia interesse a questo obiettivo è soltanto una conferma del fatto che questa iniziativa non ha alcun carattere di cedimento a istanze di destra. Quanto all’interesse delle imprese, questo dipende dal buon equilibrio di tutti gli elementi del progetto, che va verificato mediante il negoziato preliminare di cui si è detto all’inizio.
Abbiamo dimenticato la grande manifestazione di Roma del 23 marzo 2003 contro le modifiche dell’articolo 18 proposte allora dal Governo Berlusconi?
Quell’iniziativa del Governo Berlusconi mirava soltanto a depotenziare l’articolo 18. Questo progetto si propone invece la transizione a un modello di protezione che tutti – sinistra estrema compresa – riconoscono come il migliore al mondo per la sicurezza dell’impiego e del reddito: quello che nei documenti dell’Oecd è indicato come il “modello danese”.
Le riforme dovrebbero semplificare, ma non uniformare o massificare. Siamo in un mondo sempre più complesso, con esigenze multiformi, non solo provenienti dalle imprese, ma anche dalle lavoratrici e dai lavoratori. Una regola uguale per tutti, mi pare un principio non adatto al ‘mondo liquido’.
Concordo pienamente. Proprio per questo preferisco non usare l’espressione “contratto unico”. Il senso della riforma proposta non è quello di imporre un modello unico rigido di rapporto di lavoro, ma di promuovere uno standard minimo di protezione della stabilità per tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica, lasciando che in quel “guscio” universale si collochino rapporti dei tipi più vari: dal part-time al job-sharing, dal lavoro in staff leasing al tele-lavoro dipendente, dall’apprendistato (come fase iniziale di un rapporto di lavoro ordinario) al praticantato professionale, e chi più ne ha più ne metta.
Si dovrebbe finalmente riflettere anche sul “contratto di attività”, proposto ormai un bel po’ di anni fa in Francia, ma che richiede una revisione complessiva del sistema di Welfare.
Giusto; ma anche questo mi sembra che possa e debba essere fatto rientrare nel “guscio” universale, se non vogliamo creare una nuova forma di precariato.
La contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i rapporti. Ma questo, immagino, solo prendendo a riferimento la contribuzione nel rapporto tra lavoro subordinato e quella nel lavoro a progetto (e vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Di nuovo mi chiedo: e l’apprendistato? E il lavoro domestico? E potrei continuare.
Giusta osservazione tecnica: sarà bene inserire nel disegno di legge una disposizione che faccia salvi i regimi speciali.
Perché parlare di “modello danese”, dal momento che ci separano da quel Paese dimensione territoriale, efficacia dei servizi, cultura del lavoro e della società.
Le dimensioni medie di una Regione italiana, che è l’istituzione pubblica competente per il collocamento, l’orientamento e la formazione professionale, non sono diverse da quelle della Danimarca. Il progetto, peraltro, affida totalmente all’autonomia collettiva (“contratto di transizione”) la scelta delle dimensioni territoriali dell’ente gestore dei servizi stessi. Quanto all’efficienza ed efficacia di questi servizi, il progetto punta sulla creazione ex novo di strutture moderne, pungolate da un forte incentivo economico (qui a pagare, se i periodi di disoccupazione si allungano oltre il necessario, non è più Pantalone), proprio con l’idea che esse si dotino fin da subito del know-how più avanzato. Quanto, infine, alla cultura civile e del lavoro, chi ha progetti ulteriori per farla maturare li proponga: sarà certo possibile coniugarli utilmente con questo di cui stiamo discutendo.
Basterebbe forse anche solo decidersi ad applicare la normativa che già abbiamo e che fonda le sue origini nelle riforme del primo governo Prodi, come nel caso dell’obbligo di accettare proposte di formazione e di lavoro.
Qui la mia risposta è, nettamente, “no, non basterebbe”: i nostri servizi pubblici attuali di collocamento, orientamento e formazione professionale sono troppo lontani dallo standard di efficienza minimo necessario perché su di essi possa incardinarsi credibilmente un processo di transizione verso il modello nord-europeo. Ed è ormai da più di un quarto di secolo che diciamo che occorre riqualificarli, e versiamo per questo fiumi di denaro pubblico, oltre che fiumi di inchiostro, con risultati troppo modesti. Rinvio, per il resto alla mia risposta – l’ultima in questo documento ‑ alla tesi analoga sostenuta da Luigi Mariucci.
Gli enti bilaterali, possono essere un utile strumento, ma è evidente che tanto più piccolo è l’ambito (settoriale) di riferimento, tanto minori possono essere le risorse a disposizione.
Poiché l’eventuale inefficienza dovuta a errore di dimensionamento grava sui bilanci delle imprese, si può supporre che queste faranno bene i loro conti nel determinare l’area di competenza di ciascun ente gestore. Non è male, peraltro, nella logica del try and go cui l’intero progetto si ispira, che anche su questo terreno si confrontino scelte diverse, in modo che i risultati possano essere confrontati.
SULLA RIFORMA DEL LICENZIAMENTO PER ESIGENZE DEL DATORE DI LAVORO
Se esiste la scorciatoia del pagamento di una indennità, già prequantificata, perché il datore di lavoro dovrebbe dichiarare che il licenziamento ha natura disciplinare, quando effettivamente ce l’ha?
Perché, se la mancanza grave del lavoratore può essere dimostrata, questo consente all’impresa di risparmiare per intero il firing cost proprio del licenziamento di natura economico-organizzativa (preavviso, indennità di licenziamento e scatto della tariffa bonus/malus nel contributo per il finanziamento dell’ente bilaterale o consortile). Non è poco. Inoltre perché il licenziamento disciplinare ha una finalità essenziale di deterrenza nei confronti dei possibili comportamenti scorretti futuri di altri dipendenti, che andrebbe in parte perduta se la natura sanzionatoria del provvedimento venisse occultata.
Dove si applicherà il nuovo sistema di protezione, vedremo ridursi in maniera esponenziale la conflittualità in giudizio per licenziamento individuale. Forse é questo l’obiettivo, data l’incombenza della recessione e della crisi occupazionale. Ma mi pare una risposta ‘strana’ nel momento ‘sbagliato’.
Non è affatto “il momento sbagliato”, per questa riforma: al contrario, è il momento migliore per farla. Infatti: a) per i lavoratori attualmente in organico, se essi non scelgono di aderire al nuovo regime, non cambia nulla della disciplina del licenziamento: non vi è dunque alcun pericolo che la riforma faciliti il loro licenziamento per crisi dell’impresa; b) viceversa, per i lavoratori che aspirano a entrare o rientrare al lavoro, la situazione di crisi rende difficilissimo l’accesso a un posto di lavoro a tempo indeterminato, nel vecchio regime; c) in questa situazione di crisi, quindi di marcata incertezza circa la situazione futura a breve e medio termine, le imprese che assumono sono molto più disposte a farlo a tempo indeterminato se si offre loro la possibilità di applicare ai nuovi assunti il nuovo regime, piuttosto che se le si costringe a operare nel vecchio. Per riassumere: resta la vecchia tutela rigida contro il licenziamento per l’insider che altrimenti vedrebbe aumentare il rischio di perdere il posto, ma si offre, con il nuovo regime, una prospettiva molto migliore per l’outsider che rischia altrimenti disoccupazione più lunga o precarietà. In altre parole, nella situazione attuale la promozione dei “contratti di transizione” costituisce, dal punto di vista macro-economico, una misura marcatamente anticiclica.
Per i licenziamenti disciplinari nel nuovo regime il progetto prevede che al giudice, quando abbia dato ragione alla persona licenziata, sia riservata la scelta tra la sanzione più grave che coniuga reintegrazione e risarcimento economico, oppure la sola reintegrazione, oppure il solo risarcimento. In realtà, dunque, il progetto depotenzia in qualche misura l’articolo 18 non solo nel caso di motivo oggettivo di licenziamento, ma anche nel caso di motivo soggettivo: ne siamo consci? È questo che vogliamo?
Come è detto nella relazione introduttiva al disegno di legge, questa disposizione è presa di peso dal progetto di legge n. 6835/2000, presentato alla Camera dai deputati Treu, Fantozzi, Salvati, Lombardi e numerosi altri del Gruppo dell’Ulivo il 3 marzo 2000: il riferimento è, in particolare, all’articolo 2 di quel progetto. Non si tratta, dunque, di nulla di demoniaco. Questa disposizione non fa che allineare il nostro ordinamento, per questo aspetto (e limitatamente al licenziamento disciplinare), a quello tedesco, che è pur sempre uno dei più protettivi del mondo.
Perché escludere dal nuovo sistema di protezione sul mercato del lavoro coloro che sono stati licenziati per motivi disciplinari (e il cui licenziamento non sia stato impugnato o sia stato ritenuto valido dal giudice)?
Perché il “contratto di ricollocazione”, sul quale si impernia la garanzia di sicurezza del lavoratore nel nuovo regime, costa abbastanza caro al sistema delle imprese, soprattutto a causa del trattamento di disoccupazione; e offrirlo a chi è stato licenziato per sua colpa sarebbe un premio indebito. L’osservazione critica, comunque, può essere accolta parzialmente, prevedendo che il lavoratore in questo caso abbia accesso ai soli servizi di riqualificazione e ricollocazione al lavoro, fruendo per il resto soltanto del trattamento di disoccupazione ordinaria a carico dell’Inps, secondo il vecchio regime generale.
Mi pare manchi nella proposta un collegamento con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Non manca: v. il sesto comma dell’articolo 7 del disegno di legge: “Il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti nell’ambito della stessa provincia, quando il numero dei licenziamenti per motivi economici od organizzativi sia superiore a 4 nell’arco di 120 giorni, è tenuto ad applicare la procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e amministrativa prevista dalla disciplina comunitaria della materia”.
Sotto il profilo comunitario: il Parlamento europeo – che non è a maggioranza di sinistra, come è noto – rifiuta l’idea che si possa scambiare minore flessibilità in entrata con maggiore flessibilità in uscita. Proprio questo scambio, invece, sembra essere l’essenza del progetto.
Non è così: il progetto non scambia affatto la maggiore flessibilità in uscita con una “minore flessibilità in entrata” (quest’ultima resta sostanzialmente immutata: la disciplina dei contratti a termine attiene all’uscita e non all’entrata), bensì scambia la maggiore flessibilità in uscita con un dispositivo di sicurezza ispirato ai migliori modelli nord-europei.
Il varco del lavoro autonomo e delle libere professioni (bastando l’iscrizione all’albo) potrebbe diventare di nuovo un’autostrada per mantenere il dualismo.
Francamente, questo non mi sembra un rischio serio. Se lo fosse, comunque, la strada maestra per contrastarlo consisterebbe in un robusto sfrondamento della giungla degli albi e ordini istituiti nel corso dell’ultimo mezzo secolo: a questo sarei fortemente favorevole.
Pietro Ichino dal sito http://www.pietroichino.it/?p=1509

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