martedì 31 marzo 2009

E’ possibile riaccendere la speranza?

Note per un dibattito sulla crisi e le prospettive del Partito Democratico di Roberto Fasoli
Le dimissioni di Veltroni evidenziano una situazione di grave difficoltà del Partito Democratico. E’ necessario trovare subito il modo per affrontare la crisi se non vogliamo compromettere un progetto di grandissima importanza. Per farlo, a mio parere, serve una discussione seria ed approfondita che non abbia alcuna remora nell’affrontare anche le questioni più delicate e difficili. Proprio chi è stato ed è convinto della bontà del progetto deve trovare la forza per riprendere l’iniziativa. Questo documento con le riflessioni e le proposte che contiene vuole essere un contributo di speranza che però deve essere accompagnata da una analisi su quanto è accaduto a partire dall’avvio del progetto. Ovviamente esprime un punto di vista personale e vuole essere uno stimolo per una discussione che ritengo non possa essere ulteriormente rinviata e che potrà svilupparsi sull’insieme dei temi proposti o a partire da alcuni ritenuti prioritari.
Certamente non è un documento esaustivo e soprattutto per quanto riguarda la parte progettuale e la proposta organizzativa si dovrà fare un duro lavoro di messa a punto, partendo dalle elaborazioni già sviluppate. Questo lavoro non potrà che essere frutto di in impegno collettivo da parte di persone che condividono l’esigenza di una ridefinizione del progetto a partire da una analisi critica del recente passato, da realizzare senza rimettere in campo vecchi schemi e vecchie appartenenze, per evitare, data la complessità della fase che si apre, di rassegnarsi alla sconfitta del progetto. Ovviamente il documento è aperto ai contributi, alle critiche e alle proposte di che ritiene utile questa discussione, per arrivare assieme ad una piattaforma che possa veramente costituire una base solida per rilanciare il progetto del PD come partito realmente nuovo.
Perché le dimissioni di Veltroni?
Ogni seria riflessione sul futuro del PD non può che partire da un’analisi delle cause che hanno portato alle dimissioni di Walter Veltroni, indicato il 14 ottobre 2007, a grandissima maggioranza (75,79%), come primo segretario del Partito Democratico da una platea di cittadini elettori straordinaria: 3.554.169 persone hanno partecipato al voto, con grande slancio ed entusiasmo che sono progressivamente calati nei mesi a seguire.
In primo luogo, bisogna stabilire se si è arrivati alle dimissioni per una fuga in avanti di Veltroni o se hanno vinto le vecchie burocrazie di partito. Personalmente, non ho dubbi. Veltroni cade per la sua incapacità di gestire l’enorme potere e l’enorme consenso concessigli e per responsabilità di forze interne che non si sono mai distinte nel sostegno di un progetto di partito veramente nuovo, se non a parole.
Ma andiamo con ordine.
Gli errori sono molteplici e sono ormai oggetto di numerosi studi che hanno ben analizzato i tanti passi falsi commessi dal centrosinistra e dal PD. Penso ai libri di Edmondo Berselli e di Rodolfo Brancoli, tanto per fare due esempi.
Provo schematicamente a riassumere per punti le questioni che ritengo più rilevanti.
a) Mancanza di coraggio e ricerca di una legittimazione ad opera delle vecchie leadership
Veltroni viene candidato alla guida del PD nel momento in cui vanno in crisi altre possibili proposte, in casa DS in particolare, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative e sotto la spinta delle inchieste giudiziarie.
D’Alema aveva più volte dichiarato la sua netta contrarietà a Veltroni segretario e poi – com’è solito fare – con una virata magistrale e plateale ne diventa sostenitore, preso atto che altri candidati non erano proponibili.
Veltroni, temendo una trappola, prende tempo e poi, quando capisce che non ci sono alternative, invece di sfruttare la situazione a suo favore sfidando apertamente la vecchia classe dirigente dei Democratici di Sinistra e della Margherita, ne ricerca l’appoggio più largo possibile, per di più con il gravissimo errore dei DS di adoperarsi per impedire qualsiasi altra candidatura alternativa all’interno del partito. Bersani ammette solo oggi di aver sbagliato. Se non fosse per la Bindi prima e per Letta subito dopo, per Veltroni si sarebbe trattato di una corsa in solitaria verso una legittimazione popolare plebiscitaria.
Veltroni manca di coraggio e non capisce che l’incipit sarà determinante per il futuro della sua segreteria. Vince facilmente le primarie sostenuto da una coalizione che pensa cose opposte su una serie di temi strategici, ma è unita sul suo nome e sul patto di gestione.
L’indicazione di un vice-segretario uomo, nella persona di Franceschini, suggella il patto di potere tra DS e Margherita e cancella in un sol colpo ogni proclama sulla parità di genere, non creando grandi reazioni tra le donne dei due principali partiti.
b) Una legittimazione popolare che nasce da un equivoco sulla forma partito
Com’è noto, i tempi per arrivare al PD prevedevano, dopo Orvieto, il suo esordio elettorale con le elezioni europee del 2009. Le vicende del governo Prodi e quelle sopra ricordate, hanno fatto precipitare i tempi e si è arrivati alla nascita del partito a tappe forzate senza sciogliere i nodi politici ed organizzativi fondamentali, che rimangono tuttora irrisolti.
In particolare, sulla forma partito si sceglie una procedura molto impegnativa che avrebbe dovuto comportare decisioni conseguenti. Far eleggere il segretario nazionale e i segretari regionali con il voto di tutti i cittadini in elezioni primarie aperte è una scelta molto netta rispetto alle procedure del passato.
Nessuno al di fuori delle vecchie burocrazie di partito può avere concrete chance di vittoria in elezioni di queste dimensioni, che richiedono una disponibilità di strutture, risorse umane e mezzi notevoli. Alcuni, più prudentemente, avevano fatto osservare che si trattava di una scelta estremamente impegnativa dalla quale poi era difficile tornare indietro. La maggioranza fa finta di non capire e là dove sarebbe possibile competere anche per gli outsider non si scelgono le primarie e i segretari provinciali e di circolo vengono eletti dai delegati in elezioni di secondo livello. Esattamente l’opposto di quello che serviva.
Nascono così leader apparentemente fortissimi, con una legittimazione di massa, ma totalmente legati agli accordi di vertice che li hanno prodotti.
L’accelerazione dei tempi e le modalità scelte, unite alla totale miopia dei vecchi gruppi dirigenti DS e Margherita, tagliano fuori del tutto e ovunque, per le cariche di prima responsabilità, le persone che provengono da altre esperienze. Addirittura c’è un patto nazionale che spartisce le segreterie regionali, tenendo conto delle sottocomponenti dei rispettivi partiti. Accanto ad una scelta apparentemente di larga democrazia si assiste ad una stretta poderosa degli apparati che scaverà un solco profondo tra le aspettative dei cittadini e le pratiche concrete del partito.
c) Si allarga lo scarto tra dire e fare, tra linee programmatiche e pratica concreta
Veltroni nell’annunciare la sua candidatura fa nascere grandi speranze in ampi settori del popolo di centrosinistra, ma non convince fino in fondo i critici più avvertiti.
L’elaborazione dei documenti programmatici e dello statuto viene affidata ad un selezionato gruppo di esperti che, nello sforzo di mediazione necessario a tenere insieme tutti, riesce a scontentare un vastissimo arco di persone che per senso di responsabilità non affondano le critiche, anche per non sembrare quelli che intendono guastare una grande festa ed un progetto appena agli inizi.
Ma già il 28 ottobre a Milano le procedure democratiche vanno per aria e alla fine si vota con le persone in piedi ed il cappotto in mano, pronte per tornare a casa. La proposta della presidenza che nomina Veltroni e il suo vice viene messa ai voti senza discussione e con una procedura approssimativa, i voti non si contano; molti escono delusi da questa prima esperienza di Partito Democratico e non mancano le critiche.
La stessa approvazione dei documenti fondativi non riesce a dissipare i tanti dubbi. Ma bisogna fare in fretta perché le elezioni rischiano di essere alle porte ed il partito deve essere pronto.
Molti sono perplessi e critici ma decidono di non aprire apertamente la discussione. La politica però ci ha insegnato che le cose fatte in fretta senza risolvere le questioni strategiche prima o poi entrano in difficoltà e ci si trova davanti tutti i problemi che erano stati accantonati o lasciati sospesi.
Si tenga anche conto del fatto che gli effetti annuncio e lo svolgimento delle primarie hanno creato un grande clima di speranza e di attesa tra i cittadini che, ancora una volta, si fidano e chiedono che non si tratti di una nuova disillusione dopo la mancata concretizzazione dell’Ulivo, quando era necessario e possibile portare a compimento il processo iniziato da Prodi, e dopo i vergognosi dietro-front seguiti alle primarie che avevano indicato con larghissimo consenso Prodi come sfidante di Berlusconi alle elezioni del 2006.
Poi sappiamo come le cose sono andate. Alle elezioni del 2006 DS e Margherita riescono nel capolavoro di presentarsi uniti alla Camera e divisi al Senato, nonostante le molte sollecitazioni per una soluzione unitaria; hanno esigenza di misurare i loro rapporti di forza e questa scelta si rivela fallimentare. Forse non sarebbe cambiato radicalmente lo scenario ma è certo, dati alla mano, che la maggioranza di Prodi al Senato avrebbe potuto essere meno risicata di quella uscita dalle urne rendendo la vita dl Governo un po’ meno avventurosa ed esposta ad ogni evento.
Anche questa decisione provocherà l’allargamento dello scarto tra le aspettative dei cittadini e la pratica dei gruppi dirigenti. Scarto che aumenterà progressivamente a seguito delle scelte che il Governo effettuerà nell’intento di tenere insieme una coalizione che fin dal primo momento si mostra più preoccupata dei propri equilibri interni che di governare il Paese.
d) L’equivoco sostegno al governo Prodi e alla leadership dell’unico candidato cha ha battuto Berlusconi due volte
Il cupio dissolvi del centrosinistra è magistralmente raccontato dal libro di Brancoli. Su Prodi vengono caricate tutte le responsabilità, mentre le difficoltà ed i problemi vengono da una coalizione poco omogenea, all’interno della quale DS e Margherita sono impegnati a marcarsi e a distribuirsi i posti di potere. Gli equivoci si sprecano ma il culmine si raggiunge quando, in piena situazione di difficoltà del governo, si annuncia la volontà di andare da soli come PD alle prossime elezioni che paiono essere ormai prossime. E’ il 19 gennaio. Nessun organismo ha discusso e votato questa scelta strategica. E’ un segnale di “rompete le righe” e Prodi è il primo a farne le spese. Con l’onestà che lo contraddistingue, respingendo sollecitazioni ad agire in modo diverso e a dare le dimissioni senza arrivare al voto, porta la crisi in Parlamento, prende atto che il suo governo non ha più la maggioranza e rassegna le dimissioni. E’ il 24 gennaio 2008. Per la seconda volta, dopo aver vinto le elezioni, Prodi viene costretto alle dimissioni dalla sua stessa maggioranza con largo anticipo rispetto alla scadenza della legislatura, regalando ad un Berlusconi in evidente difficoltà la possibilità di riacquistare il centro della scena e di recuperare buoni rapporti con i suoi alleati dopo momenti di altissima tensione anche sul piano dello scontro verbale.
Tutti sanno com’è andata a finire. Prodi viene di fatto messo in un angolo e le sue dimissioni da Presidente del PD appaiono quasi un atto dovuto. Aldilà delle parole di circostanza nessuno si impegna seriamente per far desistere Prodi dal proposito di prendere le distanze dal progetto che aveva ideato e contribuito a far nascere. A molti pare meglio stare lontani da un uomo e da un governo che vengono considerati un peso per il progetto del PD. E così l’unica persona che è riuscita a sconfiggere Berlusconi per due volte alle elezioni viene messa da parte senza tanti riguardi.
e) Gravissimi errori nella scelta delle candidature per le politiche
Con la scusa, in parte plausibile, dei tempi stretti, utilizzando fino in fondo una legge elettorale odiosa, a parole duramente criticata, che consente di fidelizzare i parlamentari ai vari leader, di fatto, nominandoli dal centro, si arriva a comporre le liste per le politiche del 2008 con criteri che si riveleranno sciagurati.
Al segretario viene concesso il diritto di nominare una serie di candidati illustri e simbolici, ai partiti il compito di predisporre, con un rigorosissimo “manuale Cancelli”, tutte le altre candidature. I segretari regionali e provinciali, aldilà delle forme, diventano spettatori di una trattativa che viene svolta da pochissimi scelti consiglieri dei diversi leader di corrente e sotto-corrente. A parte i nomi scelti da Veltroni che servono a dare l’idea del tipo di partito che si vuol costruire e del suo insediamento sociale, non passa nome che non sia patrocinato da un gruppo di potere ben definito. La stessa decisione sulle deroghe per le riconferme dopo un certo numero di mandati diventa una vera e propria trattativa per evitare che qualche big rischi di rimanere a casa.
I candidati scelti direttamente da Veltroni vengono presentati giorno dopo giorno con grande enfasi mediatica, frutto di una studiata strategia tesa a colpire l’opinione pubblica, gli altri vengono individuati con precisione chirurgica dalle sotto-componenti dei due partiti principali. Chi non ha protezione o non è del tutto organico a questa logica è fuori. I cittadini elettori, protagonisti delle primarie, restano a guardare e si trovano di fronte a liste rigorosamente di apparato, almeno per i posti utili ad essere nominati. Non essendoci il voto di preferenza e non essendo state svolte elezioni primarie per le candidature, chi va in lista oltre i posti utili per la nomina lo fa per senso di responsabilità o per stare in compagnia, offrendo il proprio piccolo o grande contributo alla credibilità dell’operazione, sperando in un miracolo. Ma in molti i dubbi crescono e si capisce sempre meno quale sia il ruolo dei gruppi dirigenti formali del partito.
f) Il mancato riconoscimento della gravità della sconfitta elettorale
Dopo una campagna elettorale molto spinta alla legittimazione del leader con quotidiani colpi di scena e annunci ad effetto, il responso delle urne, contrariamente ai miracoli annunciati e sperati da alcuni, è drammatico. Esce un PD che certo raccoglie un buon consenso in percentuale (33,2%), ma che perde nettamente le elezioni in termini di seggi e recupera solo in minima parte i voti persi dalle altre forze che componevano l’alleanza precedentemente. La scelta di andare da soli e le speranze di trascinare Forza Italia ad uno scontro a due si rivelano sbagliate e Berlusconi torna per la terza volta al potere con un margine di vantaggio nettissimo.
Istruttiva ed illuminante a questo proposito la lettura del volume curato da Itanes “Il ritorno di Berlusconi”, pubblicato da Il Mulino. Si tratta di una vera e propria sconfitta, a lungo nascosta con consolanti analisi sul recupero realizzato nel corso della campagna elettorale rispetto alla caduta di consensi del governo Prodi.
Per di più l’alleanza dell’ultima ora con la lista Di Pietro e con i radicali non produce alcun positivo effetto e si scioglie come neve al sole. Non solo non si fa alcun gruppo unico, come annunciato in campagna elettorale, ma non passa giorno che non si alimentino polemiche e non si allarghino le distanze. Com’è noto le sconfitte aumentano i problemi. Anche con la cosiddetta sinistra radicale si apre un aspro conflitto anche a causa dell’esito tragico delle liste della sinistra arcobaleno che per la prima volta non riescono a portare alcun esponente in Parlamento. Il clima è molto difficile anche sul piano relazionale anche perché i leader della sinistra radicale cercano di scaricare sul PD la responsabilità del loro fallimentare risultato. Sappiamo che non è così. Le ragioni sono molto più complesse anche se è indiscutibile il fatto che in uno scontro molto polarizzato il richiamo al voto utile abbia contribuito ad assottigliare i già scarsi consensi alla sinistra radicale.
Si assiste ad un ulteriore scarto. Il gruppo dirigente fa analisi nel complesso positive e venate da eccessivo ottimismo. I cittadini, inebriati da una campagna elettorale molto ad effetto, sono frastornati dalla pesantezza della sconfitta che intuiscono essere non solo politica ma anche sociale e culturale, soprattutto dopo un’analisi più attenta del voto e della sua scomposizione sociale.
Alla sconfitta alle elezioni politiche si aggiunge quella perfino più triste e drammatica nelle elezioni per il sindaco di Roma dove Alemanno sconfigge nettamente al ballottaggio il candidato del PD, Rutelli. Roma, dopo 15 anni, torna al centrodestra. Appare a tutti con evidenza l’errore commesso nella scelta della candidatura, enfatizzato dal contemporaneo successo del candidato del centrosinistra in Provincia. Ma sarebbe sbagliato limitarsi a dare la colpa della sconfitta alla candidatura di Rutelli. L’esito elettorale, che risente certamente di quello politico, è frutto anche di una campagna elettorale per molti aspetti del tutto sfasata rispetto alle attese, alle domande e alle speranze dei cittadini, soprattutto degli strati più popolari.
g) Nel PD non si capisce chi decide, quando, dove e come
Accanto ad organismi ufficiali si convocano nei momenti topici “caminetti” al “loft”, gettando nello sconforto quanti avevano partecipato con convinzione e speranza al progetto costituente. Addirittura non c’è corrispondenza tra gli organismi statutari e quelli reali e il massimo dello sconcerto si raggiunge quando alla convocazione dell’Assemblea Nazionale si presenta un numero di persone lontanissimo dal numero legale, senza che il segretario si assuma l’onere di interpretare politicamente l’assenza di così tante persone.
Le decisioni vengono annunciate e diffuse attraverso gli organi di informazione senza che sia minimamente chiaro il processo della loro costruzione. Tanta televisione e tanti blog e forum per far credere che si arrivi a decidere dopo un percorso realmente democratico che in realtà non esiste; le grandi scelte sono prerogativa di pochi, non sempre componenti degli organismi dirigenti.
h) La totale superficialità rispetto ai problemi amministrativi e della vita reale del partito che diventa il partito degli eletti e degli amministratori
La scelta delle fondazioni di partito che incamerano i beni dei partiti precedenti priva di fatto il PD di una serie di risorse e tutti i fondi disponibili restano a Roma. Le strutture regionali, provinciali, di circolo vivono in qualche modo con risorse proprie e sulla base delle disponibilità individuali. Solo chi ha incarichi politici o amministrativi per i quali percepisce un’indennità o un rimborso può permettersi di assumersi incarichi di responsabilità e sembra sia scorretto solo porre il problema.
Non esiste alcun regolamento per l’uso delle risorse e tanto meno per i rimborsi spese. E’ del tutto evidente che dietro l’enfatica esaltazione del lavoro volontario si nasconde un disegno ben preciso. In questo modo nessuno che non abbia una posizione garantita può permettersi incarichi di prima responsabilità che comportino un impegno serio e continuativo, se non mettendo a repentaglio la propria condizione lavorativa e professionale. Ai cittadini normali, anche ai più volenterosi, non restano che le cariche di coordinatore di circolo. Per il resto tutto il partito è controllato dalle vecchie classi dirigenti. Per mascherare la cosa si ripetono a livello decentrato le pratiche del centro nazionale: commissioni, forum, blog, gruppi di lavoro, ecc.
L’importante è che tutte le decisioni vere ed importanti siano in mani sicure, che corrispondano o meno agli organismi dirigenti previsti dagli statuti. E poi come a livello nazionale non si perde occasione per invocare la litania dei giovani e delle donne ai quali, se non attraverso processi di cooptazione guidati dai vecchi gruppi dirigenti, si fa posto ogni tanto e quasi sempre in ruoli lontani dalle prime responsabilità.
i) La confusione politica regna sovrana e al nostro elettorato arrivano messaggi contraddittori
Questo è il capitolo forse più delicato. Veltroni in occasione della conferenza stampa nella quale ha spiegato le ragioni delle sue dimissioni ha ammesso come suo limite quello di aver cercato fino in fondo di tenere assieme tutti, quando era evidente che voler ad ogni costo tenere assieme tutte le posizione avrebbe portato a gravissimi problemi su una serie di temi cruciali, rischiando di uscire con mediazioni linguistiche spesso incomprensibili, sulle quali si è fatta anche dell’ironia, o di lasciare libero campo all’espressione di ciascuno che, a nome del PD, o così appariva sulla stampa, finiva per dire tutto ed il contrario di tutto.
Così è stato ad esempio sul tipo di opposizione da condurre nei confronti del governo, opposizione che è apparsa a molti nostri elettori come largamente inadatta e senza un profilo definito. Si è provato a rimediare con la grande manifestazione di piazza del 25 ottobre e con l’assunzione, di tanto in tanto, di toni più decisi ma la sostanza non è cambiata nella percezione dei nostri elettori. Nell’immaginario popolare e sui media il PD non riesce a farsi percepire come un partito capace di un’opposizione decisa, cosa che invece pare riuscire meglio a Di Pietro e spesso a nostro scapito.
Su una serie di temi centrali il partito parla con più voci o in modo che non appare chiaro a molti: sicurezza, giustizia, riforme istituzionali, legge elettorale, questione morale, bioetica, collocazione internazionale, riforma della Rai, problemi della scuola e dell’università, temi del lavoro e rapporti con le organizzazioni sindacali. Facciamo una grande fatica e anche quando maturiamo posizioni apprezzabili, come sulla crisi economica e sociale in atto non riusciamo a farle diventare terreno comune di iniziativa. Un esempio per tutti: l’imbarazzo creatosi all’interno del PD dopo la firma del patto tra le forze sociali sulla riforma della contrattazione senza l’adesione della CGIL. Si sono levate voci molto discordi senza alcun vero approfondimento di merito relativo ai contenuti dell’intesa. Certo non era una situazione semplice ma si è resa evidente la difficoltà del PD che non ha saputo mettere in campo una sua posizione.
l) Non si è contrastata la logica delle correnti organizzate
Dopo l’elezione del segretario tutti si sono affrettati a ribadire l’esigenza di non chiudersi in logiche di corrente, salvo dar vita due secondi dopo a raggruppamenti di varia natura che altro non sono che luoghi separati di discussione, diversi dagli organismi dirigenti e non sempre credibili come sedi di approfondimento e di contributo disinteressati. Niente di male, ma almeno finiamola con le finte e decidiamo in quale modo si regola la vita interna. Se si decide, come sarebbe giusto, di non regolare i rapporti interni sulla base di vecchie logiche correntizie, bisogna trovare dei criteri trasparenti e rigorosi che premino il merito e la competenza o almeno rendere contendibili, sul serio e non per finta, tutte le cariche.
Si è arrivati anche a situazioni francamente paradossali con D’Alema che pur non avendo formalmente incarichi nel partito dispone di una televisione parallela a quella ufficiale del PD oltre agli strumenti della potente fondazione “Italianieuropei” che pubblica da anni una interessante rivista bimestrale. Analogamente alcuni ex della Margherita non hanno esitato a darsi luoghi autonomi di iniziativa praticando primi approcci di quelle “alleanze di nuovo conio” delle quali Rutelli aveva parlato in un recente passato. I cattolici del PD, e in particolare i cosiddetti “teodem”, non hanno perso occasione per differenziarsi creando non pochi imbarazzi e in qualche caso arrivando, non tanto velatamente, a minacciare di abbandonare il partito se fossero state assunte decisioni da loro considerate lesive della loro fede religiosa, che va assolutamente rispettata e considerata un valore al pari di tutte le altre concezioni religiose e non, diverse da quella cattolica, ma che non potrà mai essere un riferimento obbligato ed esclusivo per un partito che intende essere laico proprio perché rispettoso delle diverse religioni.
Veltroni in questa fase obiettivamente molto difficile ha pensato di poter governare il partito con un rapporto diretto con gli elettori, cercando per questa via di superare le contraddizioni che ben conosceva, non esercitando come avrebbe dovuto il potere di decidere in modo netto soprattutto quando avrebbe potuto farlo grazie alla debolezza iniziale dei suoi avversari interni. Si è limitato ad affiancarsi persone di immagine più che di sostanza, più in grado di reggere il confronto dialettico che la durissima battaglia politica necessaria a far nascere una cosa realmente nuova. Come si è visto la battaglia politica era invece inevitabile anche perché sul treno del partito sono saliti passeggeri che avevano in testa progetti di viaggio e destinazioni molto diverse tra di loro. Veltroni si è illuso a lungo di poter governare pacificamente processi che sarebbe stato necessario far uscire allo scoperto al più presto, prima che mettessero in discussione la sua leadership. Questa incertezza ha logorato la situazione spingendo Veltroni alla decisione di dimettersi subito dopo l’esito delle elezioni in Sardegna.
Nella conferenza stampa Veltroni ha solo fatto alla larga un cenno a questi tipi di difficoltà, evitando di mettere sul tappeto i problemi reali, si è detto, per signorilità e per senso di responsabilità nei confronti del partito. Potrà certamente essere così, ma resta il fatto che sulle ragioni delle sue dimissioni non si è aperta alcuna discussione politica vera e si resta nell’ambito delle supposizioni e delle interpretazioni. Non si può sfuggire da questo passaggio. Potrà essere un percorso doloroso, ma è certamente necessario; senza di esso rischiamo di farci molto più male, anche perché un dibattito che non si svolge alla luce del sole e non ha una sede formale, è destinato a non avere alcuno sbocco concreto e positivo. A volte, anche se può sembrare più pericoloso, è meglio imboccare la via più diretta senza continuare ad accantonare i problemi sperando in tempi migliori; spesso il passare del tempo peggiora la situazione.
Alla base delle nostre difficolta’ c’e’ una carenza di analisi politica sulle grandi trasformazioni in atto
Certamente sono stati commessi molti errori nella breve vita del PD fino ad oggi, ma sarebbe semplicistico pensare che basti cambiare una persona o un gruppo di persone perché tutto si sistemi.
Bisogna chiedersi come mai è successo tutto questo e capirne le ragioni profonde che non sono solo quelle, pur importanti, di carattere soggettivo.
Ecco allora che l’analisi da svolgere diventa estremamente impegnativa e richiede un lavoro di lungo periodo che non possiamo continuamente rimandare.
La storia politica, economica e sociale non solo dell’Italia, ma dell’Europa e del mondo intero è radicalmente cambiata a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso. La grande trasformazione che si è realizzata sta dispiegando oggi pienamente le sue conseguenze. Alain Touraine, con la consueta lucidità, compie un’analisi profonda di quanto è avvenuto nel suo ultimo libro, “La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo”, pubblicato da Il Saggiatore nel 2008. Ma non sono certo mancati in questi anni gli studi che hanno analizzato i grandi cambiamenti.
Il problema è che noi non abbiamo saputo metterli a frutto tranne che a parole. Nella pratica delle grandi organizzazioni di massa, tra cui i partiti, tutto è più o meno andato avanti come prima, salvo accorgersi, e non è una novità, che alle elezioni, ormai da tempo, non ci vota più il vecchio insediamento sociale di cui il PCI e la DC erano espressione. Al PD è mancato un rapporto con un ceto intellettuale che elaborava politica. Nelle scuole di partito ormai si preparano dei piccoli amministratori, non persone che vengono incitate ad incuriosirsi o ad imparare, si costruiscono spesso delle giovani fotocopie degli attuali gruppi dirigenti. Insomma non siamo riusciti a saldare con la pratica politica quelle analisi teoriche che, anche in Italia, si sono sviluppate negli ultimi anni. Mentre nel mondo succedeva di tutto, le grandi organizzazioni sociali hanno mantenuto inalterato il loro profilo salvo piccoli aggiustamenti più dettati dalla tattica che da profonda e motivata convinzione.
Non è certo questa la sede per sviluppare questo discorso, ma è necessario ribadire che se non si riprenderà con forza un serio lavoro di analisi e di progetto e si resterà ai giochi della tattica politica saremo condannati per lungo tempo alla sconfitta e non basta nemmeno evocare magicamente il discorso dei giovani, delle donne, delle nuove tecnologie. Senza un progetto politico ed una nuova “narrazione”, che non si improvvisano, la nostra difficoltà è destinata a durare.
Questa consapevolezza dovrebbe animare il futuro gruppo dirigente del PD ed essere considerata una priorità assoluta, almeno quanto la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente realmente nuovo e credibile del quale non possiamo più fare a meno.
Il dopo Veltroni non sarà facile: senza coraggio non si va da nessuna parte
E’ difficile sapere con certezza se Veltroni avesse già deciso o meno di dimettersi prima dei risultati delle elezioni in Sardegna. Certamente aver aspettato l’esito del voto non lo ha aiutato, anche perché una vittoria eventuale di Soru sarebbe andata a suo esclusivo merito, così come è avvenuto in Trentino con Dellai, mentre una sua sconfitta, come è stato, sarebbe stata totalmente messa a carico di Veltroni, indebolendo ulteriormente la sua leadership.
Certamente ha ragione Veltroni quando dice che un progetto come il PD ha bisogno di tempo per consolidarsi ed una leadership non può essere misurata su un singolo risultato. Il problema però nasce dal fatto che lui stesso con il continuo richiamarsi agli Stati Uniti e ad Obama ha reso più difficile praticare questa strada. Negli USA il leader che perde lascia il posto ed il partito lavora per un ricambio. In Italia solo Prodi ha praticato questa strada e la classe dirigente del nostro paese, compresa quella del PD, è ancora quella dei giovani della FGCI e dei giovani della DC. Potrà sembrare un po’ crudele come analisi, ma quanto scrive Andrea Romano nel suo libro “Compagni di scuola” merita di essere considerato.
Il mancato ricambio di classe dirigente rende poco credibile il nostro progetto e questo è un dato che non può essere trascurato. Anche a questo proposito non si tratta di sostenere un generico nuovismo, quanto di domandarsi perché il ricambio non si è realizzato e cosa bisogna fare per renderlo possibile senza creare dirigenti fotocopia di quelli che si vorrebbero sostituire o, peggio, eterodiretti.
Le dimissioni di Veltroni aprono una possibilità e spiazzano coloro i quali pensavano di trascinare la situazione fino alle prossime elezioni europee ed amministrative ed aprire subito dopo la verifica interna con il congresso. Ma anche le dimissioni rischiano di essere un’occasione persa se tutto resta nella sostanza inalterato.
Alcuni hanno sollevato con forza la proposta di avviare una nuova fase di primarie per l’elezione di un nuovo segretario. La proposta era assolutamente plausibile ma scarsamente realistica. In questa fase sarebbe stato assai difficile svolgere seriamente le primarie con una qualche possibilità di un effettivo cambiamento e contemporaneamente preparare le elezioni prossime alle quali mancano meno di tre mesi. Il rischio concreto, in assenza del tempo necessario per organizzarsi, era che alle primarie emergessero sempre i soliti, con qualche nuovo inserimento e che poi il risultato elettorale, che prevedibilmente non sarà entusiasmante, finisse per essere caricato sul nuovo gruppo dirigente, compromettendo così ogni residua possibilità di ricambio.
Diventava quindi realistico affidare la segreteria, se pur provvisoriamente ad un esponente del vecchio gruppo dirigente, meglio ancora se si fosse presentato anche Bersani, evitando di annunciare una candidatura futura che non si capisce perché non sia stata presentata nel momento in cui si apre un problema di sostituzione del segretario. Del resto essendo stato il vice di Veltroni, Franceschini doveva essere considerato, a tutti gli effetti, candidato sfidabile da chi aveva annunciato di volersi proporre come guida del partito in alternativa a Veltroni.
Alla fine è emersa la figura di Franceschini con un consenso plebiscitario da parte di una platea che non è più espressione delle primarie, essendo ormai frequentata da una piccola parte dei cittadini eletti e da una grande maggioranza di funzionari ed esponenti delle istituzioni.
Franceschini aveva una sola chance. Non quella di enfatizzare la sua totale autonomia dai vecchi gruppi dirigenti, affermazione alla quale pochi sono disponibili a credere essendo lui figlio e frutto della stessa storia, quanto quella di chiamare tutti ad una vera e propria corresponsabilità assumendosi in pieno ed in prima persona l’onere di guidare il partito in questa difficile fase, senza consentire loro di stare alla finestra mettendo in prima fila persone di loro fiducia.
Credo che sia sbagliato e molto pericoloso mettere in campo oggi, con il rischio di bruciarle, candidature che con il congresso potrebbero assumere un ruolo di reale innovazione.
In realtà come sempre non si è avuto coraggio e si è deciso di dare una sistemata ad un assetto che rimane nella sostanza immutato se pur con l’inserimento di persone indubbiamente valide che però, da sole, in questo contesto, rischiano solo di continuare sulla stessa strada di prima. Non basta certo azzerare la vecchia segreteria ed il governo ombra per ridare smalto ad un progetto e sarebbe stato molto meglio, a mio parere, che i veri big del partito scendessero in campo in prima persona assumendosi tutte le loro responsabilità. Certamente qualcuno avrebbe protestato vedendo il ritorno ufficiale di vecchie facce, ma è ben peggio che gli stessi continuino a dirigere il partito stando fuori dagli incarichi di prima responsabilità, magari pensando già da ora ad alcune soluzioni alternative, qualora il progetto dovesse fallire. Soluzioni che assomigliano molto al ritorno ad un partito di sinistra che potrebbe anche continuare a chiamarsi formalmente PD, pur essendo diventato una cosa molto diversa dall’ispirazione originaria e ad un nuovo partito di centro frutto dell’incontro tra settori dell’attuale PD con l’UDC e altri spezzoni centristi.
L’altra cosa che deve finire è la litania del nuovismo e l’invocazione retorica all’unità spesso ad opera di chi è arrivato a posti di responsabilità proprio grazie ad un durissimo lavoro di lobbing.
C’è un’invocazione all’unità che viene sempre presentata come vincolo morale nei confronti di chi dissente, sottolineando il pericolo di deludere la nostra gente. Ma noi la deludiamo veramente con questi comportamenti, non con un dibattito, anche aspro, ma trasparente e nelle sedi ufficiali.
Che fare allora? E’ evidente che, oggi come oggi, dobbiamo tutti impegnarci per conseguire il miglior risultato possibile nelle prossime scadenze elettorali e nel contempo dobbiamo sviluppare, con la massima serietà, la discussione al nostro interno, cominciando già da ora a preparare il congresso, definendo almeno nelle linee generali un impianto di proposte programmatiche ed organizzative capaci di riaccendere la speranza tra i tanti cittadini che hanno guardato con interesse al Partito Democratico. Queste a mio parere sono le condizioni perché il processo possa ripartire ed avere successo.
Documento in Power Point
Le note di Roberto Fasoli sono finalizzate all’incontro di lunedì 6 aprile alle ore 18:30 presso la Baita del Coro Stella Alpina situata in località San Rocco di Quinzano
Per informazioni contattare: Pier Luigi Rossignoli Cell. 328 9720792 Mail: plumrossi@inwind.it

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Diego Zardini Presidente della Provincia

Domenica 5 aprile si svolgeranno le primarie del Partito Democratico per scegliere il candidato alla Presidenza della Provincia. Come già sapete il candidato che io sostengo è Diego Zardini, il quale alla giovane età unisce professionalità e capacità.
Perché non voto Sergio Ruzzenente?
Ritengo che, pur lodando l’impegno di Sergio, sia arrivato il momento di rinnovare la rappresentanza del Partito Democratico in seno al Consiglio Provinciale con capacità fresche ed una visione coerente ai tempi. La sua candidatura conferma le vecchie ed improduttive divisioni tra ex popolari ed ex DS, confermate dalla e-mail inviata da Giampaolo Fogliardi con la quale invita a votarlo.
Le primarie rappresentano un momento di scelta libera e responsabile, pertanto, tali inviti offuscano la liberta degli elettori. Nessun deputato della provincia di Verona è intervenuto in tal modo.
Perché non voto Moreno Ferrarini?
E’ una candidatura debole nei programmi e nella esperienza che è nata al di fuori del Partito Democratico. “La mia associazione, afferma Moreno, Città Popolare, mi ha chiesto di dare un segnale forte, proponendo la mia candidatura”. “Dalla sua parte, dichiara Moreno, ha riformisti e cristiano sociali” come se tutti gli altri rappresentanti del Partito Democratico non siano riformisti. La sua candidatura non esprime una posizione politica chiara.
Ho chiesto a Diego di esprimere il suo pensiero sul Federalismo e su Reggio Calabria città Metropolitana. "Nel dibattito sul Federalismo Verona viene tradita, dichiara Diego, Verona è l'unica provincia che ha i requisiti e non sarà Città metropolitana. Ci sono Venezia che ha meno abitanti e Reggio Calabria che non consente alcun commento. La Lega e Galan, conclude Diego, hanno consentito questo tradimento. Verona ha perso una grande opportunità e non si è levata alcuna voce”.
elenco seggi
Sito web di Diego Zardini

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domenica 29 marzo 2009

Le variabili connesse all'assenteismo

Il XXI sec. si caratterizza per una forte mobilità e flessibilità lavorativa, dovuta alle condizioni contrattuali sempre più effimere che inevitabilmente riducono la stabilità lavorativa a favore di una “illusoria” efficienza organizzativa.
L’elemento che si trova al centro di tale fenomeno sociale, ma anche organizzativo, è la «persona»: su di essa si basa il successo delle organizzazioni e la capacità di esse di affrontare nuovi contesti. All’interno delle organizzazioni la risorsa umana è un elemento strategico senza la cui collaborazione, coinvolgimento e condivisione degli obiettivi, non si potrebbero affrontare le sfide ed i rinnovamenti continuamente in atto nel mondo economico.
L’uomo va considerato come «realtà globale» nella quale gli orientamenti di valore, i sentimenti, le aspirazioni interagiscono con le cognizioni, le attitudini, l’ambiente fisico e sociale. E ogni realtà è un mondo a se stante con radici storiche, cause ed effetti diversi in cui regole e formule stereotipate si vanificano.
Partire, infatti, da una posizione preconcetta nel valutare un problema organizzativo, indicando in una causa aprioristicamente individuata l’unico motivo della genesi e dello sviluppo di un fenomeno, è sicuramente fuorviante.
Visto sotto questo aspetto il rapporto di lavoro può assumere varie configurazioni secondo un continuum che va dalla piena integrazione dell’individuo nel contesto, alla sua assoluta estraneità e l’assenza del posto di lavoro diventa indicatore di deviazione dallo stato cooperativo e di scarsa integrazione nel gruppo di lavoro. Ma anche in questo caso, riconoscere la spiegazione del problema solo nell’”alienazione” e nella”scarsa responsabilità” del lavoratore, significa rimanere alla superficie del problema stesso. La soluzione non può consistere nel cercare di eliminare una ipotetica causa predeterminata, ma nell’individuare le ragioni reali, attraverso un approccio globale, coerente, attraverso una ricerca approfondita per poi disporre, successivamente, le azioni correttive.
Da molti anni l’Assenteismo è diventato un fenomeno di rilevante importanza che non può essere trascurato da chi, sotto vari aspetti, si occupa di questioni aziendali, ma per una sua effettiva comprensione occorre partire dall’interpretazione delle situazioni organizzative in cui si manifesta.
Occorre, dunque, passare dall’astrazione all’identificazione di comportamenti concreti e indicare quali dati si intende analizzare. Bisogna prendere atto che ogni organizzazione ha il suo “Assenteismo”, che va studiato in relazione, appunto, al reciproco determinarsi di fattori personali, ambientali e comportamentali che interagiscono influenzandosi reciprocamente.
L’Assenteismo, in realtà, non può che essere innanzi tutto un problema organizzativo, sia nel senso che le presenze e le assenze sul lavoro variano in funzione dei modi di governo, della varietà tecnologica, della divisione del lavoro; sia nel senso che per una effettiva comprensione del fenomeno assenteistico è necessario partire dall’interpretazione delle situazioni organizzative in cui si manifesta.
Per una corretta interpretazione dell’«Assenteismo» è indispensabile quindi:
- entrare nel merito delle principali variabili soggettive capaci di influenzare la prestazione di lavoro e la presenza dell’individuo all’interno dell’organizzazione;
- focalizzare, in particolare, l’attenzione su alcuni dei diversi aspetti dell’identità personale che hanno un “effetto” sulla condotta lavorativa concreta (in quanto “antecedenti” rispetto alla prestazione e alle sue possibili ricadute): abilità personali e cognitive – convinzioni su di se e senso di autoefficacia;
- entrare nel merito di specifici aspetti della relazione persona-contesto-ambiente capaci di influenzare, per retroazione, le azioni delle persone e la loro permanenza nell’organizzazione e coinvolgimento alla vita lavorativa;
- fare riferimento ad alcuni aspetti individuali che più propriamente sono da intendersi come “esiti” (positivi o negativi) dell’interazione persona-organizzazione e che rendono conto delle successive direzioni di condotta: soddisfazione/insoddisfazione lavorativa – stress – salute e benessere.
A partire da queste premesse, è possibile fare riferimento ad un modello di relazioni di influenza tra variabili, individuali e organizzative, che permettono un’analisi organizzativa complessiva e che identifica eventuali punti di forza e di criticità sui quali costruire ipotetici interventi (Borgogni, 2001).
Il modello concettuale si rifà alla teoria sociale cognitiva (Bandura, 2000) ed esamina i nessi tra convinzioni di efficacia individuale e collettiva, percezioni del contesto organizzativo, impegno organizzativo e soddisfazione lavorativa, quali indicatori più prossimi del grado di motivazione che le persone hanno di agire con l’organizzazione e di sentirsi legati ad essa. Si tratta infatti di fattori che in diverso modo determinano e influenzano il comportamento organizzativo e l’attaccamento all’organizzazione.
Tale modello può quindi favorire la lettura e l’interpretazione dei molteplici aspetti connessi con l’Assenteismo, così da costituire un ultimissimo supporto per chiunque voglia affrontare il tema.
La psicologia sociale si è occupata delle dinamiche dei gruppi lavorativi, del supporto sociale e dell’integrazione persona-ambiente. In questa direzione la «teoria sociale cognitiva» (Bandura, 1986), attraverso il concetto di “perceived self-efficacy”, ha costruito una vera e propria teoria della motivazione.
Nella teoria sociale cognitiva proposta da Bandura l’uomo viene percepito come un “agente attivo” nel senso che osserva, valuta, si dà degli scopi, si rappresenta le svariate possibilità del loro conseguimento, anticipa le conseguenze del loro raggiungimento, reagisce in tempo reale con emozioni e sentimenti agli esiti della propria condotta in relazione a come essi risultino compatibili con le pressioni contingenti della situazione. Il concetto al quale ricorre la teoria sociale cognitiva per indicare la capacità di esercitare un potere causale è quello di “agency”, esso tiene conto del fatto che le persone contribuiscono a causare gli eventi al pari di altri fattori come quelli maggiormente legati alla causalità e meno intenzionali. Qualunque manifestazione psichica è sempre la risultante di un reciproco co-determinarsi di “persona”, “situazione” e “comportamento”; ciò coinvolge una causazione reciproca triadica in cui i fattori personali (cognitivi, affettivi e biologici), il comportamento e gli eventi ambientali operano come fattori causali interagenti che si influenzano reciprocamente in modo bidirezionale (Bandura, 2000): ciò che una persona pensa e vuole si traduce in una condotta che inevitabilmente incide sull’ambiente, ma ciò che una persona pensa e vuole dipende da ciò che ad essa è consentito fare e da quelle che sono le conseguenze della sua condotta. Bandura definisce tale interazione tra variabili interne (cognitive) ed esterne (ambientali) col termine «determinismo reciproco».
L’ambiente nel quale la persona si trova influisce rispetto a ciò che essa pensa, desidera e fa, ma anche la situazione è determinata dai propositi e dalle condotte che le persone riversano ed esprimono in essa. Infine, la condotta è un prodotto delle capacità della persona e delle opportunità dell’ambiente, e a loro volta la persona e la situazione sono soggette agli effetti che vengono prodotti in entrambe dalla condotta stessa (Caprara, 1996).
Sarebbe allora interessante interrogarsi ed indagare sulle qualità che un’organizzazione e, in particolare, il management dovrebbero possedere al fine di contenere il fenomeno dell’Assenteismo.
Adriana Aronadio
Associazione Biondina

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Flexsecurity: relazione al disegno di legge

Si riporta la relazione di accompagnamento al disegno di legge d’iniziativa dei senatori Ichino, Morando, Tonini, Bianco, Bonino, Rutelli, Baio, Biondelli, Bertuzzi, Blazina, Ceccanti, Chiaromonte, Del Vecchio, D’Ubaldo, Fioroni, Follini, Galperti, M. P. Garavaglia, Incostante, Magistrelli, Mauro Marino, Mazzuconi, Negri, Perduca, Pinotti, Poretti, N. Rossi, Rusconi, Sangalli, Serra.
Il nostro Paese deve affrontare una emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vero e proprio apartheid che divide i 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e dipendenti da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dagli altri 9 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protettività è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva.
Un Paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo-legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma – se ne aggiunge oggi uno ulteriore: la fase di recessione che stiamo attraversando. È ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio lavoro, ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.
Una nuova tecnica legislativa ‑ Il disegno di legge qui illustrato si propone rispondere a questa esigenza vitale. Ma si propone di farlo adottando una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro sperimentate nel nostro Paese: ‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime, secondo il metodo che proprio per questo tipo di riforma è stato proposto quindici anni or sono da un autorevole economista (G. SAINT PAUL, On the Political Economy of Labor Market Flexibility, intervento alla NBER Macroeconomic Annual, 1993, Cambridge Mass., Mit Press, 1993) e che nel linguaggio dei politologi è indicato con il termine layering: istituire un nuovo ordinamento applicabile soltanto alle fattispecie – in questo caso: i rapporti di lavoro – che vengono a esistenza da un dato momento in poi;
‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;
- scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori, bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;
‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato - se la scommessa verrà vinta - a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;
- puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
Alla scelta del metodo del layering si obietta che, in questo modo, ai nuovi rapporti di lavoro verrà ad applicarsi un regime diverso rispetto ai vecchi e che anche questa è una forma di dualismo del tessuto produttivo. E’ vero; ma è anche vero che il nuovo “dualismo” è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i vecchi. Inoltre ‑ e soprattutto ‑ il vecchio sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B e C”, nettamente svantaggiati; con il “contratto di transizione” al nuovo regime, invece, queste “serie” inferiori vengono drasticamente abolite (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di “lavoro a progetto” e, salve poche eccezioni, con contratti a termine). E non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime incomincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” funziona meglio, offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.
“Standard universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito, a stabilità crescente”
‑ Il progetto cui il disegno di legge si ispira rientra fra quelli comunemente indicati con l’espressione “contratto di lavoro unico a stabilità crescente”, dei quali l’ultimo è quello proposto da Marco Leonardi e Massimo Pallini (Contratto unico contro la precarietà, nel sito web NelMerito.com, 19 febbraio 2008); ricordiamo anche, all’origine, quello proposto dal primo firmatario di questo disegno di legge (Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori, 1996, cap. V), cui si ispirò il disegno di legge 4 febbraio 1997 n. 2075, presentato dal senatore Franco Debenedetti. Tra questi progetti, il più noto, oggi, è quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi in un libro pubblicato recentemente (Un nuovo contratto per tutti. Per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione, Milano, Chiarelettere, 2008); rispetto a questo, il progetto qui delineato si differenzia principalmente per i tre aspetti seguenti: i) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale nel suo triennio iniziale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; ii) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti; iii) il progetto di Boeri e Garibaldi non collega immediatamente la riforma della disciplina del licenziamento all’attivazione di nuovi ammortizzatori sociali e servizi di riqualificazione; iv) la tecnica proposta da Boeri e Garibaldi adotta anch’essa il metodo del layering, ma per il resto ricalca ancora quella dell’intrervento legislativo tradizionale, che modifica immediatamente e autoritativamente la disciplina ai rapporti di lavoro, mentre il progetto qui presentato condiziona il mutamento della disciplina inderogabile a un’opzione compiuta in sede di autonomia collettiva e a un impegno operativo e finanziario delle imprese coinvolte, sul terreno degli ammortizzatori e dei servizi. In ogni caso appare preferibile, rispetto all’espressione “contratto unico”, la diversa espressione (già proposta nella rubgrica di questo paragrafo) “standard minimo universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito”: uno standard che sarà applicabile a qualsiasi tipo di contratto di lavoro “economicamente dipendente”,
Il “contratto di transizione” – Istituto cardine della riforma qui proposta è dunque il contratto collettivo, previsto dagli articolo 1 e 2 del disegno di legge, col quale un’impresa o un gruppo di imprese e una o più organizzazioni sindacali istituiscono un ente bilaterale a gestione paritetica, oppure un consorzio fra le imprese stesse, al fine di garantire ai lavoratori nuovi assunti, nel caso di perdita del posto, sostegno del reddito e assistenza intensiva nel mercato del lavoro secondo standard non inferiori a quelli indicati nel successivo articolo 3.
La previsione che il passaggio al nuovo regime avvenga per mezzo di un contratto collettivo risponde alla necessità di coinvolgere almeno un sindacato nella costituzione dell’ente cui verrà affidata la gestione dell’indennità di disoccupazione e dei servizi di riqualificazione e ricollocamento. Considerato, tuttavia, che il contratto collettivo stesso non tocca gli interessi dei dipendenti già in forza presso le imprese firmatarie, l’articolo 2 consente che esso venga stipulato anche con una parte soltanto dei sindacati attivi presso le imprese stesse, purché ovviamente non si tratti di “sindacati di comodo” (vietati dall’articolo 17 St. lav.).
Un controllo di rappresentatività della coalizione sindacale stipulante si rende invece indispensabile per la validità dell’eventuale pattuizione collettiva con la quale il nuovo regime venga esteso ai lavoratori già in forza presso l’azienda o le aziende interessate: a questa esigenza risponde il terzo comma dell’articolo 2, ponendo alternativamente a) il requisito del carattere maggioritario acquisito dalla coalizione stessa in una consultazione elettorale che si sia svolta entro il triennio precedente, oppure b) il requisito di una approvazione referendaria da parte dei dipendenti dell’azienda.
Stanti i suoi effetti assai incisivi sulla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro, a norma del primo comma dello stesso articolo, il “contratto di transizione”, per poter acquistare efficacia, deve essere pubblicato, mediante deposito presso il CNEL. Da questo adempimento formale dipende e decorre temporalmente la sua efficacia.
Il “contratto di ricollocazione al lavoro” e il suo costo per le imprese – Secondo istituto cardine della riforma è il contratto che, nel nuovo regime introdotto dal “contratto di transizione”, deve essere offerto al lavoratore dipendente dall’ente bilaterale o consortile preposto alla fornitura dell’assistenza necessaria nei processi di aggiustamento industriale (articolo 3).
Il trattamento di disoccupazione dovuto al lavoratore licenziato, ispirato, per quel che riguarda la determinazione degli importi, all’esperienza danese (cioè a quella che, per universale riconoscimento, offre ai lavoratori lo standard di sicurezza più elevato su scala mondiale), risulterà dalla somma del trattamento di disoccupazione ordinaria o speciale già previsto in ciascuna situazione e un trattamento complementare di entità tale da portare il totale al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno; il totale stesso va scalando del 10 per cento in ciascuno dei tre anni successivi al primo. Nel caso più sfortunato, nel quale il lavoratore rimanga disoccupato per tutto il quadriennio, il trattamento ammonta dunque al (90% + 80% + 70% + 60% =) 300% dell’ultima retribuzione annua lorda, cioè a tre annualità. Il costo per l’ente gestore - e quindi per le imprese firmatarie del “contratto di transizione” - ammonta invece, nella prima fase, soltanto al 30% per il primo semestre: il semestre in cui opera il trattamento generale ordinario (soltanto al 10% per il primo anno, nel caso del trattamento di disoccupazione speciale); poiché, inoltre, sul trattamento complementare non grava la contribuzione previdenziale, il costo complessivo che ne consegue a carico dell’ente, se lo stato di disoccupazione dura quattro anni, è pari a circa un anno e nove mesi di costo aziendale del rapporto; circa un anno e sei mesi nel caso in cui l’azienda operi nell’area in cui opera il trattamento di disoccupazione speciale (settore industriale, sopra i quindici dipendenti, e imprese commerciali medio-grandi).
Al sostegno del reddito si aggiunge, nel “contratto di ricollocazione”, un servizio di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione “programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore” (per la quale è presumibile che l’ente bilaterale o consortile attingerà utilmente al patrimonio di know-how accumulato negli ultimi due decenni dalle società che oggi svolgono nel mercato del lavoro attività di outplacement). Inoltre servizi di formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore. Più questi servizi saranno efficienti, più corto sarà il periodo di disoccupazione, quindi più basso il costo per le imprese: ecco un forte incentivo a far funzionare bene il meccanismo, attivabile proprio in quanto i servizi stessi sono “autogestiti” dalle imprese interessate. La qualità dei servizi di riqualificazione erogati dagli enti sarà comunque controllata attraverso la rilevazione sistematica del relativo tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi (secondo comma dell’articolo 3).
Per converso, il “contratto di ricollocazione impone al lavoratore l’obbligo di porsi a disposizione dell’ente per le iniziative di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro, secondo un orario settimanale corrispondente all’orario di lavoro praticato in precedenza; e assoggetta l’attività da lui svolta nella ricerca della nuova occupazione al potere direttivo e di controllo dell’ente, il quale lo esercita di regola attraverso un tutor cui il lavoratore viene affidato. In questo modo si intende garantire una mobilitazione piena ed effettiva del lavoratore disoccupato, evitandosi il rischio che il robusto trattamento di disoccupazione erogatogli possa rallentarne o addirittura addormentarne l’attività di riqualificazione e di ricerca della nuova occupazione.
Il lavoratore sarà, ovviamente, del tutto libero non solo di accettare o rifiutare il “contratto di ricollocazione”, ma anche di recedere dal contratto stesso prima che sia cessato il suo stato di disoccupazione, senza necessità di motivazione e anche senza preavviso (terzo comma). L’ente bilaterale o consorzio, dal canto suo, sarà legittimato a recedere dal contratto, anche prima che sia cessato lo stato di disoccupazione del lavoratore, nel caso di inadempimento grave da parte del lavoratore o di rifiuto ingiustificato da parte sua di un’opportunità di lavoro o di iniziative di riqualificazione che gli siano state proposte (quarto comma).
Il meccanismo di finanziamento dell’ente – Il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio erogatore dei trattamento economico e dei servizi ai lavoratori licenziati è interamente a carico dell’impresa o gruppo di imprese firmatarie del contratto istitutivo, le quali potranno peraltro avvalersi dei contributi del Fondo Sociale Europeo per le attività di informazione, orientamento e riqualificazione professionale mirata, nonché per quelle di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione.
La determinazione dell’entità del contributo a carico delle imprese è disciplinata dallo Statuto dell’ente, il quale è vincolato tuttavia a prevedere un meccanismo bonus/malus che premi le imprese più capaci di praticare il manpower planning o comunque una gestione del personale che eviti i licenziamenti, e determini, viceversa, una penalizzazione delle imprese le cui politiche del personale portino a un più frequente ricorso ai licenziamenti (commi primo e secondo). Il finanziamento dell’ente esonera l’impresa dalla contribuzione all’Inps per l’assicurazione contro la disoccupazione (comma terzo).
Il quarto comma pone a carico di ciascuna azienda la garanzia per i crediti dei propri ex-dipendenti nei confronti dell’ente bilaterale o consorzio, nel caso di insolvenza di questo.Il quinto comma pone a carico dell’Erario quello che si ipotizza essere il costo medio, a regime, del nuovo sistema di protezione del lavoratore che perde il posto di lavoro, per le sole aziende firmatarie del “contratto di transizione” che in precedenza si collocassero al di sotto della soglia dimensionale necessaria per l’assoggettamento alla tutela reale contro il licenziamento ex art. 18 St. lav.: tale costo medio viene determinato nella misura dello 0,5 per cento del monte-salari relativo ai rapporti assoggettati al nuovo regime. La stima si basa sull’ipotesi di un tasso annuo di licenziamento per motivi economico-organizzativi pari al 5 per cento (un tasso molto più elevato rispetto a quello attuale, anche nel settore delle aziende con meno di 16 dipendenti: ma occorre tenere conto anche degli scioglimenti di rapporto che oggi avvengono per scadenza del termine e che nel nuovo regime dovranno avvenire per recesso dell’imprenditore) e di una durata media del periodo di disoccupazione pari a tre mesi; in questa ipotesi, il finanziamento della differenza fra il nuovo trattamento di disoccupazione e il vecchio richiede, a regime, un contributo medio pari allo 0,375% della retribuzione lorda; il contributo medio ulteriore dello 0,125% deve essere destinato a integrare i finanziamenti regionali e comunitari per le attività di riqualificazione professionale gestite dall’ente bilaterale o consorzio.
La nozione di “lavoro dipendente” e la disciplina del licenziamento applicabile alle nuove assunzioni – Il primo comma dell’articolo 5 individua la ragion d’essere della protezione della stabilità del rapporto nella posizione di “dipendenza economica” del lavoratore, definendo questa come la posizione di chi tragga più di metà del proprio reddito di lavoro complessivo dal rapporto con una determinata azienda, salvo che (essendo la prestazione lavorativa svolta in condizione di autonomia), la retribuzione annua lorda superi i 40.000 euro, oppure il prestatore sia iscritto a un albo o un ordine professionale. Quando dunque il lavoratore si trovi nella posizione di dipendenza così definita, il contratto deve considerarsi sempre stipulato a tempo indeterminato, salvi i casi elencati nel secondo comma dello stesso articolo 5. Più che di “contratto unico”, deve parlarsi a questo proposito di uno standard unico di stabilità, che deve essere rispettato quale che sia il tipo di contratto nel quale la prestazione lavorativa viene dedotta.
La disciplina generale del licenziamento applicabile al rapporto di “lavoro dipendente”, nel nuovo regime di protezione applicabile a seguito della stipulazione del “contratto di transizione”, è dettata dall’articolo 6, che fissa in sei mesi la durata massima del periodo di prova per tutti i rapporti (secondo comma) e – superato tale periodo ‑ limita l’applicazione della vecchia “tutela reale” al licenziamento disciplinare e a quello del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio o “di mero capriccio” (terzo e quarto comma). Il vecchio apparato sanzionatorio dettato dall’articolo 18 St. lav. viene tuttavia temperato mediante la previsione della possibilità che il giudice – tenuto conto delle circostanze ‑ disponga la sola reintegrazione nel posto di lavoro con azzeramento o riduzione del risarcimento del danno, oppure il solo risarcimento del danno (qui il disegno di legge attinge a quello proposto alcuni anni or sono dai deputati Treu, Fantozzi, Salvati, Lombardi e numerosi altri, 3 marzo 2000 n. 6835: il riferimento è, in particolare, all’articolo 2 di quel progetto). La reintegrazione è comunque esclusa nelle organizzazioni di tendenza e nelle aziende di piccole dimensioni già escluse dall’applicazione della tutela reale (quinto comma).
Il cuore della riforma è costituito dalla nuova disciplina del licenziamento che, non essendo qualificato come disciplinare dal datore di lavoro, e non essendo qualificato dal giudice come discriminatorio o meramente capriccioso, debba considerarsi dettato da motivo economico od organizzativo. Qui il progetto si fonda sul concetto del “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento come perdita attesa dall’imprenditore (nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto) superiore a una determinata soglia: se questa è la nozione, la forma migliore di controllo della sussistenza del g.m.o. è costituita dall’imposizione all’imprenditore stesso di un costo pari alla soglia di perdita attesa ritenuta adeguata dal policy maker. Secondo l’impostazione del progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per incarico del Governo francese (Contours of Employment Protection Reform, relazione elaborata per il Conseil Français d’Analyse Economique, 2003, trad. it. Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2004, pp. 161-211), riteniamo che il criterio di determinazione della soglia debba essere costituito dall’accollo all’impresa che licenzia del costo sociale medio del licenziamento. L’impresa dovrà dunque indennizzare il lavoratore di un danno in cui confluiscono due componenti: il danno normalmente conseguente all’interruzione del rapporto, consistente nella dispersione di professionalità specifica e nella perdita di rapporti personali con colleghi e interlocutori esterni all’azienda, e il danno eventuale correlato al periodo di disoccupazione conseguente alla perdita del posto. In considerazione degli standard europei, riteniamo che la prima componente del danno possa essere coperta da un’indennità dovuta in ogni caso di licenziamento per motivi economico-organizzativi, in ragione di una mensilità di retribuzione per anno di anzianità (secondo comma dell’articolo 7); la seconda componente del danno può e deve, invece, essere coperta dall’assicurazione contro la disoccupazione fornita dall’ente bilaterale o consortile finanziato dalle imprese interessate secondo il meccanismo bonus/malus, di cui si è detto in riferimento agli articoli 3 e 4. La protezione degli interessi immateriali della persona normalmente coinvolti nel rapporto di lavoro è completata dalla facoltà che viene attribuita a chi abbia subito il licenziamento di convertire almeno in parte – fino al massimo di dodici mesi ‑ la suddetta indennità di licenziamento in periodo di preavviso lavorato (primo comma dell’articolo 7). Indennità di licenziamento e periodo di preavviso si dimezzano nelle imprese di piccole dimensioni attualmente non soggette al regime della tutela reale contro i licenziamenti e nel caso in cui il lavoratore licenziato abbia maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità o di vecchiaia (quarto comma).In coerenza con l’opzione per la tecnica di controllo di cui si è detto, ma anche con la massima giurisprudenziale consolidata nel senso dell’insindacabilità delle scelte d’impresa. il quinto comma dell’articolo 7 esclude esplicitamente la motivazione economico-organizzativa del licenziamento dal sindacato giudiziale, salvo ovviamente il controllo circa la sussistenza di motivi discriminatori determinanti o di mero capriccio, quando il lavoratore ne faccia denuncia. Tuttavia, in considerazione della necessità di una tutela rafforzata del lavoratore anziano, lo stesso comma reistituisce a carico del datore di lavoro l’onere della prova circa il giustificato motivo economico, tecnico od organizzativo del licenziamento quando questo riguardi un lavoratore che abbia maturato venti anni di anzianità di servizio.
La necessaria coniugazione della nuova disciplina del licenziamento per motivi economico-organizzativi con quella comunitaria è precisata dal sesto comma dell’art. 7: là dove i contratti di lavoro che vengono risolti superino le soglie fissate dalla direttiva (cioè oltre i 4 licenziamenti per motivi economici od organizzativi entro il lasso di 120 giorni), le imprese con più di 15 dipendenti dovranno comunque adempiere l’onere della procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e in sede amministrativa.
Sulla questione di legittimità costituzionale e comunitaria dell’esenzione della motivazione economica del licenziamento dal controllo giudiziale ‑ Quanto al nostro ordinamento costituzionale, il principio sempre ribadito dalla giurisprudenza è quello, testé citato, dell’insindacabilità delle scelte aziendali economico-organizzative. Di fatto questo principio viene molto sovente disapplicato dai giudici del lavoro, i quali finiscono col controllare quelle scelte in modo anche assai penetrante; ma è incostituzionale semmai questa prassi giudiziale: non una norma legislativa ordinaria che – come fa il quinto comma dell’articolo 7 di questo disegno di legge ‑ confermi l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali.
Quanto all’ordinamento internazionale (O.I.L.) e a quello comunitario, il primo vincola - il secondo si prepara a vincolare in un prossimo futuro - gli ordinamenti nazionali soltanto a disporre un indennizzo a favore del lavoratore che risulti licenziato senza motivo giustificato. Poiché invece il disegno di legge dispone l’indennizzo a favore di tutti i lavoratori che subiscono il licenziamento per motivi economico-organizzativi, questo trattamento non può evidentemente considerarsi deteriore rispetto alle norme sovranazionali citate (per una argomentazione più compiuta su entrambe le questioni rinviamo al saggio su “La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006, I, pp. 353-374).
Sull’idoneità del controllo giudiziale a proteggere adeguatamente il lavoratore contro i licenziamenti discriminatori o dettati da mero capriccio ‑ Dalla legge n. 125/1991 in poi, la nostra legislazione antidiscriminatoria ha disposto una nuova disciplina dell’onere probatorio in questa materia, che consente sostanzialmente al giudice di accertare la discriminazione vietata sulla base di presunzioni semplici. L’esperienza ormai quarantennale dell’applicazione dell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, d’altra parte, ha mostrato quanto i giudici del lavoro siano capaci di individuare in modo rapido ed efficace la discriminazione antisindacale nei luoghi di lavoro: tutto induce pertanto a ritenere che essi ‑ quando venga a cadere il diaframma oggi costituito dall’onere della prova a carico dell’imprenditore circa la sussistenza del giustificato motivo oggettivo ‑ saranno altrettanto capaci di individuare la discriminazione per motivi di sesso, di orientamento politico o religioso, di razza, di etnia, di età, o di disabilità, o di mero capriccio. A quest’ultimo proposito va osservato che la nostra giurisprudenza costituzionale da tempo considera anche il mero capriccio come motivo illecito di una scelta imprenditoriale: orientamento che trova puntuale riscontro nel quinto comma dell’articolo 7 del disegno di legge.
Occorre peraltro ricordare anche che, nella grande maggior parte dei casi giudiziali in materia di licenziamento per motivo oggettivo, neppure la difesa del lavoratore allega che si tratti di licenziamento discriminatorio o capriccioso: tutti questi casi possono pertanto essere utilmente sottratti al business forense e all’alea del giudizio, lasciando che sia il costo dell’operazione a filtrare le scelte dell’imprenditore.
Convenienza della transizione al nuovo regime per i new entrants – Gli ultimi dati statistici disponibili dicono che oggi oltre metà degli ingressi nel tessuto produttivo avvengono con rapporti di lavoro a termine; e che una parte considerevole dei giovani lavoratori che incominciano a lavorare in questo modo hanno gravi difficoltà, nel vecchio sistema, a conquistare una posizione stabile e protetta. Il nuovo regime di protezione cui dà luogo il “contratto di transizione” offre invece a tutti coloro che vengono ingaggiati in posizione di lavoro dipendente, da quel momento in avanti, un contratto a tempo indeterminato recante una protezione piena della salute e integrità fisica del lavoratore, nonché contro qualsiasi discriminazione, una congrua assicurazione per la malattia, un regime di protezione della continuità del rapporto che li colloca su di un piano di parità con tutti gli altri neo-assunti, senza la prospettiva della necessità di un rinnovo del contratto di lì a pochi mesi, con la prospettiva – invece – che se il rapporto procede bene esso andrà progressivamente stabilizzandosi col crescere dell’anzianità di servizio, per effetto del corrispondente aumento del costo del licenziamento per l’impresa. Con la prospettiva, infine, che, se le cose invece andranno male e il rapporto dovrà cessare per motivi economici od organizzativi, il licenziamento sarà accompagnato in ogni caso dal pagamento di un congruo indennizzo e da una copertura assicurativa contro la disoccupazione di livello nordeuropeo.
C’è chi, a proposito di questo progetto, ha parlato di “precarizzazione di tutti i new entrants”, come se l’unica alternativa al lavoro “precario” fosse la forma di protezione introdotta con l’articolo 18 dello Statuto del maggio 1970. Ma non è così: in nessun altro Paese europeo vige un regime di reintegrazione automatica nel posto di lavoro a seguito del controllo giudiziale del giustificato motivo economico-organizzativo del licenziamento; eppure nessuno potrebbe seriamente sostenere che i lavoratori francesi, spagnoli, olandesi, britannici, danesi o tedeschi operino tutti in un regime di precarietà. È un fatto, comunque, che in tutte le occasioni in cui abbiamo sottoposto a gruppi di giovani in procinto di entrare nel mercato del lavoro la possibilità di scelta tra il regime attuale di protezione “duale” e il regime ispirato al modello della flexsecurity nord-europea, la preferenza si è manifestata in modo univoco per questo secondo modello.
Se ne deve concludere che sussiste un forte interesse dei new entrants a poter accedere al (o rientrare nel) tessuto produttivo in un contesto di flexsecurity, piuttosto che in un contesto di protezione “duale”, quale quello che caratterizza oggi il nostro sistema.
Convenienza della transizione al nuovo regime per le imprese ‑ Quanto all’interesse delle imprese a impegnarsi con il “contratto di transizione”, abbiamo visto come, nell’ipotesi più pessimistica circa la durata del periodo di disoccupazione conseguente al licenziamento – durata massima di quattro anni ‑, il costo complessivo del trattamento dovuto al lavoratore sarebbe inferiore a due annualità di prosecuzione del rapporto: cioè a quello che oggi è considerato, generalmente, un costo congruo, e al tempo stesso sostenibile, per l’incentivazione all’esodo di un dipendente da parte di un’impresa cui si applichi l’articolo 18 St. lav. Il modello nord-europeo cui il progetto si ispira, però, coniugando strettamente il sostegno del reddito del lavoratore con iniziative efficaci di riqualificazione mirata e assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione (efficaci perché gestite da chi ha un forte incentivo economico a conseguire la ricollocazione del lavoratore più rapida possibile), consente di fare affidamento su una durata media dei periodi di disoccupazione molto inferiore a quattro anni: quanto più, dunque, l’ente bilaterale o consorzio saprà essere efficiente, tanto più le imprese interessate godranno di un vantaggio rispetto ai costi attuali dell’aggiustamento industriale. Per esempio, se si riuscirà a contenere la durata media dei periodi di disoccupazione entro i tre mesi – obiettivo, questo, ragionevolmente perseguibile ‑, il costo medio della sostituzione o soppressione del posto di un dipendente con sei anni di anzianità di servizio sarà pari a 8,7 mensilità della sua retribuzione (comprese le indennità di preavviso e di licenziamento): sarà dunque di molto inferiore rispetto al firing cost oggi comunemente ritenuto accettabile, in un’impresa sana.
Vero è che la convenienza del “contratto di transizione” per le imprese medio-grandi deve essere valutata anche in riferimento ai rapporti di lavoro precario cui esse, con il contratto stesso, rinunciano: in particolare, i rapporti di “lavoro a progetto”, o comunque di collaborazione autonoma continuativa, oggi consentono la soppressione del posto o la sostituzione del lavoratore con un costo ridottissimo o nullo per il datore di lavoro. Qui la convenienza, nella logica della riforma, deve nascere da una combinazione di incentivi positivi e negativi, dove l’incentivo positivo è costituito dall’aumento a 6 mesi della durata del periodo di prova e dal costo assai ridotto del licenziamento del lavoratore con anzianità di servizio di soli uno o due anni; l’incentivo negativo, viceversa, deve essere costituito da una applicazione rigorosa e generalizzata dei limiti di durata complessiva dei contratti a termine, dei limiti assai restrittivi posti dalla legge Biagi per il “lavoro a progetto” (richiamiamo in proposito particolarmente le circolari del Ministero del Lavoro n. 16/2006 e n. 4/2008) e del divieto di simulazione del lavoro autonomo anche nella forma della “partita Iva”.
Quanto alle imprese di piccole dimensioni, alle quali oggi l’articolo 18 St. lav. si applica soltanto per i licenziamenti discriminatori, l’ultimo comma dell’articolo 4 prevede che lo Stato si faccia carico di un contributo in favore dell’ente bilaterale o consortile di entità mediamente pari allo 0,5% delle retribuzioni dei nuovi assunti alle dipendenze di imprese con meno di 16 dipendenti: in questo modo resteranno a carico di queste ultime soltanto il costo degli eventuali difetti di funzionamento dell’ente. Tale misura di sostegno rende vantaggioso il nuovo regime anche per le piccole imprese, riducendone drasticamente il costo e parificando la qualità dei rapporti di lavoro da esse offerti nel mercato, sotto il profilo della protezione della continuità del lavoro e del reddito, rispetto a quella delle imprese di maggiori dimensioni.
Nuovo regime della contribuzione previdenziale – Il contributo per l’assicurazione pensionistica oggi si aggira intorno al 31,5 per cento della retribuzione (escluso il trattamento di fine rapporto) per i lavoratori subordinati regolari. Lo stesso contributo grava invece oggi nella misura del 24,70 per cento sui compensi dei collaboratori autonomi continuativi e dei lavoratori a progetto. Se gli obiettivi devono – come riteniamo debbano – essere quelli della parificazione delle due aliquote e al tempo stesso di una riduzione del “cuneo” previdenziale tra costo del lavoro e reddito netto, occorre che il punto di incontro venga trovato su di una aliquota intermedia, collocata al di sotto della media ponderata tra le due aliquote originarie. Questo criterio ci porta a proporre la fissazione della nuova aliquota, per tutti i nuovi assunti nel nuovo regime, al 30 per cento della retribuzione. All’Erario, se ve ne saranno le disponibilità, il compito di contribuire a sua volta alla riduzione del “cuneo” con una riduzione dell’imposta almeno sui redditi di lavoro più bassi.
Copertura finanziaria – L’aggravio complessivo derivante per l’Erario dal contributo posto a suo carico a norma dell’ultimo comma dell’articolo 4 sarà, nella fase iniziale, ridottissimo, poiché è presumibile che nel primo periodo non saranno molti i “contratti di transizione” stipulati dalle imprese di minime dimensioni: si tratterà dunque di un costo suscettibile di essere ampiamente coperto mediante il maggior gettito prodotto dal prevedibile aumento delle assunzioni nel settore delle imprese di maggiori dimensioni, dove invece si può prevedere una diffusione più rapida dell’esperimento. Nell’ipotesi del tutto astratta in cui il nuovo regime fosse, invece, da subito applicabile a tutti i nuovi assunti delle imprese con meno di 16 dipendenti (le quali oggi danno lavoro a poco più di 3 milioni di lavoratori), l’onere complessivo nel secondo anno sarebbe stimabile in circa mezzo miliardo di euro annui; basterebbe, in tal caso un aumento di circa 250.000 posti di lavoro regolari, prodotto dalla diffusione del nuovo regime nell’area delle imprese maggiori, per produrre un aumento del gettito fiscale idoneo a coprire quel maggior onere. Sono queste le considerazioni su cui si basa la previsione negativa, contenuta nell’articolo 9, circa la necessità di una modifica del bilancio al fine della copertura finanziaria specifica della voce di spesa di cui all’ultimo comma dell’articolo 4.

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Flexsecurity: presentato disegno di legge

E’ stato presentato al senato il disegno di legge per la transizione a un regime di Flexsecurity su iniziativa del senatore Pietro Ichino e di altri 29 senatori del Partito Democratico. La proposta disciplina il contratto di transizione, di ricollocazione e di lavoro dipendente.
Finalmente il Parlamento potrà iniziare a discutere della riforma del lavoro e della lotta al precariato e porre fine alle discriminazioni nel mondo del lavoro.
Si riportano i commenti alla presentazione del disegno di legge.
Il commento del direttore de Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2009
Approda in Senato il progetto di legge di Pietro Ichino sulla flexsecurity. Ha il pregio di proporre assunzioni a tempo indeterminato come standard generale di ingresso in azienda; ha l’ambizione di regolare una volta per tutte i meccanismi di uscita dall’azienda rivedendo l’articolo 18 senza snaturare le forme di tutela del lavoratore; ha la lungimiranza di puntare su di un ente bilaterale o consortile che possa garantire il sostegno al reddito in caso di perdita del posto e capace di diventare anche un efficiente agente di ricollocamento dotato del migliore know-how disponibile su scala internazionale. Un affresco normativo moderno sull’intero spettro della vita lavorativa, declinato secondo le vere necessità di un mercato che non privilegi più soltanto gli “insider” iper-protetti, di provenienza fordista, ma sappia essere “amico” anche dei lavoratori intermittenti e flessibili. Insomma, un buon progetto. Che per maturare ha bisogno di quel lievito bipartisan che nei momenti di riformismo vero anche questo rissoso Senato ha saputo trovare al suo interno.
Articolo di Franco Debenedetti pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 24 marzo 2009
Di riforma del contratto di lavoro, più conosciuta nella poco appropriata abbreviazione “abolizione dell’articolo 18” , si parla da anni: molte sprezzanti ripulse, numerosi consensi illuminati, nessuna azione politica significativa. Ora sembra che si sia prossimi a un punto di svolta. E ciò per ragioni precise: la crisi finanziaria, diventata recessione economica, minaccia di diventare crisi sociale. Una disoccupazione a livelli a cui da tempo non eravamo più abituati, leva il sonno a governanti di tutto il mondo. L’Italia affronta questa eventualità con una struttura del mercato del lavoro che vede da un lato lavoratori superprotetti, dall’altro lavoratori che protezione ne hanno poca o punto; che divide e contrappone i lavoratori, andando contro il principio per cui sono nati i sindacati; che ha contribuito ad accrescere il problema, incentivando le aziende a usare e abusare di forme contrattuali meno vincolanti. Il risultato é che oggi tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno è sopportato dalla metà dei lavoratori a cui il famoso articolo 18 non si applica. Stupisce dunque che il Ministro Sacconi, sul Sole24Ore di mercoledì scorso, sostenga il primum vivere, e neghi l’opportunità, per questa stagione, di ogni riforma: sia dell’articolo 18, sia delle pensioni, sia dei sussidi ai disoccupati. Maurizio Sacconi é stato tra chi più si é battuto proprio su questi fronti. Tempi diversi, certo, ma non per questo richiedevano minore determinazione e coraggio, per cui è da escludere che si tratti di un suo ripensamento sul merito dei temi elencati. Quella a cui egli dà voce é piuttosto una valutazione di opportunità politica, e proprio su questa si esprimono perplessità. Infatti la chiusura su tutti i temi dell’agenda palesa un timore: aprire un conflitto e agitare gli animi, senza chiudere su nulla. Ma questo può valere per le pensioni, dove si toccano interessi e categorie che sono meno coinvolte dalla emergenza disoccupazione. Può valere per la riforma dei sussidi ai disoccupati, perché finirebbe per incentivare le tendenze all’assistenzialismo contro cui Sacconi conduce una sua sacrosanta quanto solitaria battaglia; e per aprire le dighe a richieste non compatibili con il bilancio dello Stato. La riforma di cui si parla oggi non ha la vecchia pretesa della palingenesi generale istantanea: offre, su base volontaria, un’opzione di riforma a chi, aziende e sindacati, intende impegnarvisi, non chiede una lira allo Stato. Quindi non rischia di incuneare un altro elemento di divisione nella crisi sociale che il Ministro dovrà affrontare. Una diversa regolamentazione del licenziamento ovviamente non riduce il rischio di essere licenziato, ma, a differenza dei sussidi fine a se stessi, aumenta la possibilità di ritrovare un’occupazione di qualità. E ha un effetto anticiclico: non facilita il licenziamento di chi ha già un posto stabile, ma per chi non ce l’ha facilita l’accesso al lavoro “di serie A”, a tempo indeterminato, regolato secondo il migliore modello di protezione. Da quando, nel 1997, si iniziò a parlare di riforma dell’articolo 18, il progetto si é andato molto affinando, tanto che é del tutto improprio continuare a chiamarlo con quel fatidico nome. Ora la riforma ha per obiettivo l’introduzione anche da noi della flexsecurity, il modello da tempo applicato con successo, soprattutto in paesi del nord Europa; non é quindi nominalismo. In sostanza (i dettagli si trovano nel portale della flexsecurity in www.pietroichino.it) il nuovo contratto di lavoro é per tutti a tempo indeterminato; in caso di licenziamento per motivi non disciplinari ‑ non più soggetto a controllo giudiziale - le imprese devono versare al lavoratore una cifra pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio. Il lavoratore licenziato sottoscrive un “contratto di ricollocazione” in virtù del quale percepisce - finché perdura lo stato di disoccupazione - un’indennità pari al 90% dell’ultima retribuzione per il primo anno, dell’80% per il secondo, del 70% per il terzo e del 60% per il quarto. La chiave di volta é il consorzio paritetico tra aziende e sindacati: esso eroga il trattamento di disoccupazione e un servizio di assistenza intensiva per la ricerca di una nuova occupazione, con corsi di formazione e riqualificazione e attività di outplacement, a cui il lavoratore è obbligato a partecipare secondo un orario settimanale analogo a quello di lavoro praticato in precedenza. Finanziariamente é alimentato dal Fondo sociale Europeo e dalle imprese che vi destinano quanto oggi versano all’INPS come contributo contro la disoccupazione e quant’altro necessario per il suo equilibrio. Questo é lo snodo cruciale: l’ente consortile deve essere efficiente, altrimenti i periodi di disoccupazione si allungano e il costo del sistema aumenta. Il nuovo regime si applica a tutti i nuovi assunti nelle imprese interessate ad acquisire questa nuova flessibilità facendosi carico della sicurezza “alla scandinava”. I lavoratori già in forza da prima possono decidere a maggioranza di aderirvi; ipotesi non remota, dal momento che la “sicurezza alla scandinava” può risultare, in concreto, assai più appetibile della vecchia “sicurezza all’italiana” ancorata all’articolo 18.
Nell’ultimo anno questo progetto ha fatto, politicamente, molta strada. Lunga la lista di coloro che si sono pronunciati a suo favore: da Emma Marcegalia al segretario della UIL Luigi Angeletti, da Corrado Passera al numero due della CISL Giorgio Santini; dalle associazioni dei direttori personale ai giovani PD lombardi, da Mario Monti a Sergio Chiamparino, da Giuliano Cazzola a Enrico Morando e Giorgio Tonini. Ci sono tutte le condizioni per una iniziativa bi-partisan che consenta al progetto di camminare velocemente, come i tempi di crisi richiedono.

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giovedì 26 marzo 2009

P.A.: Riunione consulta PD

Nella riunione di giorno 23 u.s., l’onorevole Linda Lanzillotta ha evidenziato i punti prioritari delle iniziative politiche che il Partito Democratico intende intraprendere per quel che riguarda il cambiamento della P.A..
Essi riguardano principalmente tre ambiti:
- il rinnovo del Contratto dei dipendenti pubblici;
- il coinvolgimento del cittadino come soggetto attivo nei processi e nei servizi della Pubblica Amministrazione;
- le prerogative da attribuire alla Dirigenza pubblica.
Obiettivo della Consulta, nelle parole della presidente Linza Lanzillotta, è quello di ''dare vita ad una sede di ascolto di coloro che operano nella P.A. e dei cittadini utenti dei servizi pubblici, per identificare insieme le linee di azione per una riqualificazione delle Pubbliche amministrazioni''.
''Cio' che il Pd intende promuovere - ha proseguito Lanzillotta - anche attraverso la Consulta, e' una nuova etica pubblica che valorizzi la funzione sociale di chi opera in servizi essenziali per la qualita' della vita dei cittadini e per la crescita economica''.
Lanzillotta nel suo intervento ha poi criticato l'impostazione del ministro Brunetta, che ''attacca i fannulloni in maniera propagandistica, senza dare risposte vere su temi come la class action, la valutazione dell'efficienza e gli interventi sulla produttivita'''.
L’onorevole Lanzillotta ha inoltre affermato che il Partito Democratico intende elaborare una serie di proposte, attraverso l’apporto anche di coloro che operano nella P.A., che tendano a valorizzare le potenzialità dei servizi resi ai cittadini, come leva decisiva per lo sviluppo e la crescita del Paese. Il riconoscimento del merito sarà l’unico criterio adottato per valutare il lavoro dei dipendenti pubblici. Attraverso questa impostazione il PD intende contrastare ogni tentativo di ritorno al passato, proponendo al contrario una vera riforma che porti alla modernizzazione e all’innovazione del settore pubblico.
Questa prima riunione, in cui si è insediata la Consulta Nazionale del Partito Democratico per la Pubblica Amministrazione, offre una possibilità di confronto tra tutti coloro che operano nella P.A. o che, a vario titolo, sono coinvolti.
Le idee e le proposte fornite potrebbero infatti tradursi in azioni politiche a livello nazionale al fine di smontare, con dati concreti, gli interventi governativi fino ad oggi operati contro il settore pubblico senza che esista un reale progetto di innovazione e di cambiamento, ma che invece sembrano mirare soltanto alla creazione di dinamiche conflittuali tra i vari soggetti sociali presenti nel nostro Paese.
All’incontro sono intervenuti il segretario Dario Franceschini, i senatori Tiziano Treu e Paolo Nerozzi, ed hanno partecipato le organizzazioni sindacali, i rappresentanti delle Pubbliche Amministrazioni, delle Università e delle associazioni dei consumatori.
Il segretario nazionale del Pd, Dario Franceschini, ha sottolineato come "l'attacco generalizzato ai pubblici dipendenti, tutti etichettati come fannulloni, sia profondamente ingiusto e serva a coprire la sostanziale inerzia del governo sulle questioni della produttivita' delle amministrazioni pubbliche''. ''Il Pd promuovera' un evento pubblico - ha detto ancora Franceschini - per far emergere all'attenzione dei cittadini le buone e le cattive pratiche presenti nelle amministrazioni pubbliche e illustrare al Paese le proposte del Pd''.
Il dibattito è stato ricco di interventi interessanti ed utili, i quali hanno rappresentato le condizioni e le prospettive di miglioramento della Pubblica Amministrazione.
Gli incontri continueranno perché il Partito Democratico è interessato ad un cambiamento sostanziale nella gestione dei servizi pubblici, rifuggendo i luoghi comuni degli slogan e della propaganda usati dal centro destra ed in particolare dal Ministro Brunetta.
Adriana Aronadio
Alla riunione sono intervenuto ponendo l'attenzione sul management pubblico che dovrebbe utilizzare meglio le risorse, sulla cultura d'impresa e sull'integrazione dei dati e delle informazioni presenti nel sistema per migliorare l'efficacia dell'azione della P.A.

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mercoledì 25 marzo 2009

Il difetto è del management pubblico

Giuseppe De Rita, sociologo e responsabile del Censis, commentando in una intervista pubblicata dal Corriere della Sera di oggi l’invito del Presidente del Consiglio “a lavorare di più”, afferma che “siamo uno dei popoli che lavorano di più sulla faccia della Terra”.
A questo punto il giornalista Paolo Conti pone la seguente domanda:
“Ma allora, la polemica sui “fannulloni “ e gli scansafatiche?”
De Rita risponde “l’attributo di “fannulloni”, stando a Brunetta, evoca l’universo del pubblico impiego. E anche qui il problema non è dei dipendenti, spesso materialmente costretti a rimanere negli uffici senza far nulla proprio perché privi di mansioni. Il difetto è semmai di chi comanda e non sa coordinare i sottoposti”.
Le dichiarazioni di De Rita confermano quello che ho sempre sostenuto in diversi articoli e nel blog. Per aumentare la produttività nella Pubblica Amministrazione occorre un management pubblico che si assuma la piena responsabilità e sappia utilizzare le risorse messe a sua disposizione: organizzazione, nuove tecnologie, conoscenza e capitale umano. L’utilizzo efficace di tali risorse dipende dal management pubblico ed anche i casi di improduttività degli operatori.
Il cambiamento nelle Pubbliche Amministrazioni non opera per legge ma dipende dalle competenze e dalle capacità del management pubblico.
La prima condizione è quella di rompere il patto sommerso e tacito nel non rendere trasparenti i problemi. Questo rappresenta il primo passo per affrontarli e portarli a soluzione.
Articolo

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