domenica 29 marzo 2009

Flexsecurity: relazione al disegno di legge

Si riporta la relazione di accompagnamento al disegno di legge d’iniziativa dei senatori Ichino, Morando, Tonini, Bianco, Bonino, Rutelli, Baio, Biondelli, Bertuzzi, Blazina, Ceccanti, Chiaromonte, Del Vecchio, D’Ubaldo, Fioroni, Follini, Galperti, M. P. Garavaglia, Incostante, Magistrelli, Mauro Marino, Mazzuconi, Negri, Perduca, Pinotti, Poretti, N. Rossi, Rusconi, Sangalli, Serra.
Il nostro Paese deve affrontare una emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vero e proprio apartheid che divide i 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e dipendenti da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dagli altri 9 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protettività è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva.
Un Paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo-legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma – se ne aggiunge oggi uno ulteriore: la fase di recessione che stiamo attraversando. È ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio lavoro, ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.
Una nuova tecnica legislativa ‑ Il disegno di legge qui illustrato si propone rispondere a questa esigenza vitale. Ma si propone di farlo adottando una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro sperimentate nel nostro Paese: ‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime, secondo il metodo che proprio per questo tipo di riforma è stato proposto quindici anni or sono da un autorevole economista (G. SAINT PAUL, On the Political Economy of Labor Market Flexibility, intervento alla NBER Macroeconomic Annual, 1993, Cambridge Mass., Mit Press, 1993) e che nel linguaggio dei politologi è indicato con il termine layering: istituire un nuovo ordinamento applicabile soltanto alle fattispecie – in questo caso: i rapporti di lavoro – che vengono a esistenza da un dato momento in poi;
‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;
- scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori, bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;
‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato - se la scommessa verrà vinta - a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;
- puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
Alla scelta del metodo del layering si obietta che, in questo modo, ai nuovi rapporti di lavoro verrà ad applicarsi un regime diverso rispetto ai vecchi e che anche questa è una forma di dualismo del tessuto produttivo. E’ vero; ma è anche vero che il nuovo “dualismo” è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i vecchi. Inoltre ‑ e soprattutto ‑ il vecchio sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B e C”, nettamente svantaggiati; con il “contratto di transizione” al nuovo regime, invece, queste “serie” inferiori vengono drasticamente abolite (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di “lavoro a progetto” e, salve poche eccezioni, con contratti a termine). E non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime incomincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” funziona meglio, offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.
“Standard universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito, a stabilità crescente”
‑ Il progetto cui il disegno di legge si ispira rientra fra quelli comunemente indicati con l’espressione “contratto di lavoro unico a stabilità crescente”, dei quali l’ultimo è quello proposto da Marco Leonardi e Massimo Pallini (Contratto unico contro la precarietà, nel sito web NelMerito.com, 19 febbraio 2008); ricordiamo anche, all’origine, quello proposto dal primo firmatario di questo disegno di legge (Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori, 1996, cap. V), cui si ispirò il disegno di legge 4 febbraio 1997 n. 2075, presentato dal senatore Franco Debenedetti. Tra questi progetti, il più noto, oggi, è quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi in un libro pubblicato recentemente (Un nuovo contratto per tutti. Per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione, Milano, Chiarelettere, 2008); rispetto a questo, il progetto qui delineato si differenzia principalmente per i tre aspetti seguenti: i) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale nel suo triennio iniziale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; ii) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti; iii) il progetto di Boeri e Garibaldi non collega immediatamente la riforma della disciplina del licenziamento all’attivazione di nuovi ammortizzatori sociali e servizi di riqualificazione; iv) la tecnica proposta da Boeri e Garibaldi adotta anch’essa il metodo del layering, ma per il resto ricalca ancora quella dell’intrervento legislativo tradizionale, che modifica immediatamente e autoritativamente la disciplina ai rapporti di lavoro, mentre il progetto qui presentato condiziona il mutamento della disciplina inderogabile a un’opzione compiuta in sede di autonomia collettiva e a un impegno operativo e finanziario delle imprese coinvolte, sul terreno degli ammortizzatori e dei servizi. In ogni caso appare preferibile, rispetto all’espressione “contratto unico”, la diversa espressione (già proposta nella rubgrica di questo paragrafo) “standard minimo universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito”: uno standard che sarà applicabile a qualsiasi tipo di contratto di lavoro “economicamente dipendente”,
Il “contratto di transizione” – Istituto cardine della riforma qui proposta è dunque il contratto collettivo, previsto dagli articolo 1 e 2 del disegno di legge, col quale un’impresa o un gruppo di imprese e una o più organizzazioni sindacali istituiscono un ente bilaterale a gestione paritetica, oppure un consorzio fra le imprese stesse, al fine di garantire ai lavoratori nuovi assunti, nel caso di perdita del posto, sostegno del reddito e assistenza intensiva nel mercato del lavoro secondo standard non inferiori a quelli indicati nel successivo articolo 3.
La previsione che il passaggio al nuovo regime avvenga per mezzo di un contratto collettivo risponde alla necessità di coinvolgere almeno un sindacato nella costituzione dell’ente cui verrà affidata la gestione dell’indennità di disoccupazione e dei servizi di riqualificazione e ricollocamento. Considerato, tuttavia, che il contratto collettivo stesso non tocca gli interessi dei dipendenti già in forza presso le imprese firmatarie, l’articolo 2 consente che esso venga stipulato anche con una parte soltanto dei sindacati attivi presso le imprese stesse, purché ovviamente non si tratti di “sindacati di comodo” (vietati dall’articolo 17 St. lav.).
Un controllo di rappresentatività della coalizione sindacale stipulante si rende invece indispensabile per la validità dell’eventuale pattuizione collettiva con la quale il nuovo regime venga esteso ai lavoratori già in forza presso l’azienda o le aziende interessate: a questa esigenza risponde il terzo comma dell’articolo 2, ponendo alternativamente a) il requisito del carattere maggioritario acquisito dalla coalizione stessa in una consultazione elettorale che si sia svolta entro il triennio precedente, oppure b) il requisito di una approvazione referendaria da parte dei dipendenti dell’azienda.
Stanti i suoi effetti assai incisivi sulla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro, a norma del primo comma dello stesso articolo, il “contratto di transizione”, per poter acquistare efficacia, deve essere pubblicato, mediante deposito presso il CNEL. Da questo adempimento formale dipende e decorre temporalmente la sua efficacia.
Il “contratto di ricollocazione al lavoro” e il suo costo per le imprese – Secondo istituto cardine della riforma è il contratto che, nel nuovo regime introdotto dal “contratto di transizione”, deve essere offerto al lavoratore dipendente dall’ente bilaterale o consortile preposto alla fornitura dell’assistenza necessaria nei processi di aggiustamento industriale (articolo 3).
Il trattamento di disoccupazione dovuto al lavoratore licenziato, ispirato, per quel che riguarda la determinazione degli importi, all’esperienza danese (cioè a quella che, per universale riconoscimento, offre ai lavoratori lo standard di sicurezza più elevato su scala mondiale), risulterà dalla somma del trattamento di disoccupazione ordinaria o speciale già previsto in ciascuna situazione e un trattamento complementare di entità tale da portare il totale al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno; il totale stesso va scalando del 10 per cento in ciascuno dei tre anni successivi al primo. Nel caso più sfortunato, nel quale il lavoratore rimanga disoccupato per tutto il quadriennio, il trattamento ammonta dunque al (90% + 80% + 70% + 60% =) 300% dell’ultima retribuzione annua lorda, cioè a tre annualità. Il costo per l’ente gestore - e quindi per le imprese firmatarie del “contratto di transizione” - ammonta invece, nella prima fase, soltanto al 30% per il primo semestre: il semestre in cui opera il trattamento generale ordinario (soltanto al 10% per il primo anno, nel caso del trattamento di disoccupazione speciale); poiché, inoltre, sul trattamento complementare non grava la contribuzione previdenziale, il costo complessivo che ne consegue a carico dell’ente, se lo stato di disoccupazione dura quattro anni, è pari a circa un anno e nove mesi di costo aziendale del rapporto; circa un anno e sei mesi nel caso in cui l’azienda operi nell’area in cui opera il trattamento di disoccupazione speciale (settore industriale, sopra i quindici dipendenti, e imprese commerciali medio-grandi).
Al sostegno del reddito si aggiunge, nel “contratto di ricollocazione”, un servizio di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione “programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore” (per la quale è presumibile che l’ente bilaterale o consortile attingerà utilmente al patrimonio di know-how accumulato negli ultimi due decenni dalle società che oggi svolgono nel mercato del lavoro attività di outplacement). Inoltre servizi di formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore. Più questi servizi saranno efficienti, più corto sarà il periodo di disoccupazione, quindi più basso il costo per le imprese: ecco un forte incentivo a far funzionare bene il meccanismo, attivabile proprio in quanto i servizi stessi sono “autogestiti” dalle imprese interessate. La qualità dei servizi di riqualificazione erogati dagli enti sarà comunque controllata attraverso la rilevazione sistematica del relativo tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi (secondo comma dell’articolo 3).
Per converso, il “contratto di ricollocazione impone al lavoratore l’obbligo di porsi a disposizione dell’ente per le iniziative di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro, secondo un orario settimanale corrispondente all’orario di lavoro praticato in precedenza; e assoggetta l’attività da lui svolta nella ricerca della nuova occupazione al potere direttivo e di controllo dell’ente, il quale lo esercita di regola attraverso un tutor cui il lavoratore viene affidato. In questo modo si intende garantire una mobilitazione piena ed effettiva del lavoratore disoccupato, evitandosi il rischio che il robusto trattamento di disoccupazione erogatogli possa rallentarne o addirittura addormentarne l’attività di riqualificazione e di ricerca della nuova occupazione.
Il lavoratore sarà, ovviamente, del tutto libero non solo di accettare o rifiutare il “contratto di ricollocazione”, ma anche di recedere dal contratto stesso prima che sia cessato il suo stato di disoccupazione, senza necessità di motivazione e anche senza preavviso (terzo comma). L’ente bilaterale o consorzio, dal canto suo, sarà legittimato a recedere dal contratto, anche prima che sia cessato lo stato di disoccupazione del lavoratore, nel caso di inadempimento grave da parte del lavoratore o di rifiuto ingiustificato da parte sua di un’opportunità di lavoro o di iniziative di riqualificazione che gli siano state proposte (quarto comma).
Il meccanismo di finanziamento dell’ente – Il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio erogatore dei trattamento economico e dei servizi ai lavoratori licenziati è interamente a carico dell’impresa o gruppo di imprese firmatarie del contratto istitutivo, le quali potranno peraltro avvalersi dei contributi del Fondo Sociale Europeo per le attività di informazione, orientamento e riqualificazione professionale mirata, nonché per quelle di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione.
La determinazione dell’entità del contributo a carico delle imprese è disciplinata dallo Statuto dell’ente, il quale è vincolato tuttavia a prevedere un meccanismo bonus/malus che premi le imprese più capaci di praticare il manpower planning o comunque una gestione del personale che eviti i licenziamenti, e determini, viceversa, una penalizzazione delle imprese le cui politiche del personale portino a un più frequente ricorso ai licenziamenti (commi primo e secondo). Il finanziamento dell’ente esonera l’impresa dalla contribuzione all’Inps per l’assicurazione contro la disoccupazione (comma terzo).
Il quarto comma pone a carico di ciascuna azienda la garanzia per i crediti dei propri ex-dipendenti nei confronti dell’ente bilaterale o consorzio, nel caso di insolvenza di questo.Il quinto comma pone a carico dell’Erario quello che si ipotizza essere il costo medio, a regime, del nuovo sistema di protezione del lavoratore che perde il posto di lavoro, per le sole aziende firmatarie del “contratto di transizione” che in precedenza si collocassero al di sotto della soglia dimensionale necessaria per l’assoggettamento alla tutela reale contro il licenziamento ex art. 18 St. lav.: tale costo medio viene determinato nella misura dello 0,5 per cento del monte-salari relativo ai rapporti assoggettati al nuovo regime. La stima si basa sull’ipotesi di un tasso annuo di licenziamento per motivi economico-organizzativi pari al 5 per cento (un tasso molto più elevato rispetto a quello attuale, anche nel settore delle aziende con meno di 16 dipendenti: ma occorre tenere conto anche degli scioglimenti di rapporto che oggi avvengono per scadenza del termine e che nel nuovo regime dovranno avvenire per recesso dell’imprenditore) e di una durata media del periodo di disoccupazione pari a tre mesi; in questa ipotesi, il finanziamento della differenza fra il nuovo trattamento di disoccupazione e il vecchio richiede, a regime, un contributo medio pari allo 0,375% della retribuzione lorda; il contributo medio ulteriore dello 0,125% deve essere destinato a integrare i finanziamenti regionali e comunitari per le attività di riqualificazione professionale gestite dall’ente bilaterale o consorzio.
La nozione di “lavoro dipendente” e la disciplina del licenziamento applicabile alle nuove assunzioni – Il primo comma dell’articolo 5 individua la ragion d’essere della protezione della stabilità del rapporto nella posizione di “dipendenza economica” del lavoratore, definendo questa come la posizione di chi tragga più di metà del proprio reddito di lavoro complessivo dal rapporto con una determinata azienda, salvo che (essendo la prestazione lavorativa svolta in condizione di autonomia), la retribuzione annua lorda superi i 40.000 euro, oppure il prestatore sia iscritto a un albo o un ordine professionale. Quando dunque il lavoratore si trovi nella posizione di dipendenza così definita, il contratto deve considerarsi sempre stipulato a tempo indeterminato, salvi i casi elencati nel secondo comma dello stesso articolo 5. Più che di “contratto unico”, deve parlarsi a questo proposito di uno standard unico di stabilità, che deve essere rispettato quale che sia il tipo di contratto nel quale la prestazione lavorativa viene dedotta.
La disciplina generale del licenziamento applicabile al rapporto di “lavoro dipendente”, nel nuovo regime di protezione applicabile a seguito della stipulazione del “contratto di transizione”, è dettata dall’articolo 6, che fissa in sei mesi la durata massima del periodo di prova per tutti i rapporti (secondo comma) e – superato tale periodo ‑ limita l’applicazione della vecchia “tutela reale” al licenziamento disciplinare e a quello del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio o “di mero capriccio” (terzo e quarto comma). Il vecchio apparato sanzionatorio dettato dall’articolo 18 St. lav. viene tuttavia temperato mediante la previsione della possibilità che il giudice – tenuto conto delle circostanze ‑ disponga la sola reintegrazione nel posto di lavoro con azzeramento o riduzione del risarcimento del danno, oppure il solo risarcimento del danno (qui il disegno di legge attinge a quello proposto alcuni anni or sono dai deputati Treu, Fantozzi, Salvati, Lombardi e numerosi altri, 3 marzo 2000 n. 6835: il riferimento è, in particolare, all’articolo 2 di quel progetto). La reintegrazione è comunque esclusa nelle organizzazioni di tendenza e nelle aziende di piccole dimensioni già escluse dall’applicazione della tutela reale (quinto comma).
Il cuore della riforma è costituito dalla nuova disciplina del licenziamento che, non essendo qualificato come disciplinare dal datore di lavoro, e non essendo qualificato dal giudice come discriminatorio o meramente capriccioso, debba considerarsi dettato da motivo economico od organizzativo. Qui il progetto si fonda sul concetto del “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento come perdita attesa dall’imprenditore (nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto) superiore a una determinata soglia: se questa è la nozione, la forma migliore di controllo della sussistenza del g.m.o. è costituita dall’imposizione all’imprenditore stesso di un costo pari alla soglia di perdita attesa ritenuta adeguata dal policy maker. Secondo l’impostazione del progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per incarico del Governo francese (Contours of Employment Protection Reform, relazione elaborata per il Conseil Français d’Analyse Economique, 2003, trad. it. Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2004, pp. 161-211), riteniamo che il criterio di determinazione della soglia debba essere costituito dall’accollo all’impresa che licenzia del costo sociale medio del licenziamento. L’impresa dovrà dunque indennizzare il lavoratore di un danno in cui confluiscono due componenti: il danno normalmente conseguente all’interruzione del rapporto, consistente nella dispersione di professionalità specifica e nella perdita di rapporti personali con colleghi e interlocutori esterni all’azienda, e il danno eventuale correlato al periodo di disoccupazione conseguente alla perdita del posto. In considerazione degli standard europei, riteniamo che la prima componente del danno possa essere coperta da un’indennità dovuta in ogni caso di licenziamento per motivi economico-organizzativi, in ragione di una mensilità di retribuzione per anno di anzianità (secondo comma dell’articolo 7); la seconda componente del danno può e deve, invece, essere coperta dall’assicurazione contro la disoccupazione fornita dall’ente bilaterale o consortile finanziato dalle imprese interessate secondo il meccanismo bonus/malus, di cui si è detto in riferimento agli articoli 3 e 4. La protezione degli interessi immateriali della persona normalmente coinvolti nel rapporto di lavoro è completata dalla facoltà che viene attribuita a chi abbia subito il licenziamento di convertire almeno in parte – fino al massimo di dodici mesi ‑ la suddetta indennità di licenziamento in periodo di preavviso lavorato (primo comma dell’articolo 7). Indennità di licenziamento e periodo di preavviso si dimezzano nelle imprese di piccole dimensioni attualmente non soggette al regime della tutela reale contro i licenziamenti e nel caso in cui il lavoratore licenziato abbia maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità o di vecchiaia (quarto comma).In coerenza con l’opzione per la tecnica di controllo di cui si è detto, ma anche con la massima giurisprudenziale consolidata nel senso dell’insindacabilità delle scelte d’impresa. il quinto comma dell’articolo 7 esclude esplicitamente la motivazione economico-organizzativa del licenziamento dal sindacato giudiziale, salvo ovviamente il controllo circa la sussistenza di motivi discriminatori determinanti o di mero capriccio, quando il lavoratore ne faccia denuncia. Tuttavia, in considerazione della necessità di una tutela rafforzata del lavoratore anziano, lo stesso comma reistituisce a carico del datore di lavoro l’onere della prova circa il giustificato motivo economico, tecnico od organizzativo del licenziamento quando questo riguardi un lavoratore che abbia maturato venti anni di anzianità di servizio.
La necessaria coniugazione della nuova disciplina del licenziamento per motivi economico-organizzativi con quella comunitaria è precisata dal sesto comma dell’art. 7: là dove i contratti di lavoro che vengono risolti superino le soglie fissate dalla direttiva (cioè oltre i 4 licenziamenti per motivi economici od organizzativi entro il lasso di 120 giorni), le imprese con più di 15 dipendenti dovranno comunque adempiere l’onere della procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e in sede amministrativa.
Sulla questione di legittimità costituzionale e comunitaria dell’esenzione della motivazione economica del licenziamento dal controllo giudiziale ‑ Quanto al nostro ordinamento costituzionale, il principio sempre ribadito dalla giurisprudenza è quello, testé citato, dell’insindacabilità delle scelte aziendali economico-organizzative. Di fatto questo principio viene molto sovente disapplicato dai giudici del lavoro, i quali finiscono col controllare quelle scelte in modo anche assai penetrante; ma è incostituzionale semmai questa prassi giudiziale: non una norma legislativa ordinaria che – come fa il quinto comma dell’articolo 7 di questo disegno di legge ‑ confermi l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali.
Quanto all’ordinamento internazionale (O.I.L.) e a quello comunitario, il primo vincola - il secondo si prepara a vincolare in un prossimo futuro - gli ordinamenti nazionali soltanto a disporre un indennizzo a favore del lavoratore che risulti licenziato senza motivo giustificato. Poiché invece il disegno di legge dispone l’indennizzo a favore di tutti i lavoratori che subiscono il licenziamento per motivi economico-organizzativi, questo trattamento non può evidentemente considerarsi deteriore rispetto alle norme sovranazionali citate (per una argomentazione più compiuta su entrambe le questioni rinviamo al saggio su “La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006, I, pp. 353-374).
Sull’idoneità del controllo giudiziale a proteggere adeguatamente il lavoratore contro i licenziamenti discriminatori o dettati da mero capriccio ‑ Dalla legge n. 125/1991 in poi, la nostra legislazione antidiscriminatoria ha disposto una nuova disciplina dell’onere probatorio in questa materia, che consente sostanzialmente al giudice di accertare la discriminazione vietata sulla base di presunzioni semplici. L’esperienza ormai quarantennale dell’applicazione dell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, d’altra parte, ha mostrato quanto i giudici del lavoro siano capaci di individuare in modo rapido ed efficace la discriminazione antisindacale nei luoghi di lavoro: tutto induce pertanto a ritenere che essi ‑ quando venga a cadere il diaframma oggi costituito dall’onere della prova a carico dell’imprenditore circa la sussistenza del giustificato motivo oggettivo ‑ saranno altrettanto capaci di individuare la discriminazione per motivi di sesso, di orientamento politico o religioso, di razza, di etnia, di età, o di disabilità, o di mero capriccio. A quest’ultimo proposito va osservato che la nostra giurisprudenza costituzionale da tempo considera anche il mero capriccio come motivo illecito di una scelta imprenditoriale: orientamento che trova puntuale riscontro nel quinto comma dell’articolo 7 del disegno di legge.
Occorre peraltro ricordare anche che, nella grande maggior parte dei casi giudiziali in materia di licenziamento per motivo oggettivo, neppure la difesa del lavoratore allega che si tratti di licenziamento discriminatorio o capriccioso: tutti questi casi possono pertanto essere utilmente sottratti al business forense e all’alea del giudizio, lasciando che sia il costo dell’operazione a filtrare le scelte dell’imprenditore.
Convenienza della transizione al nuovo regime per i new entrants – Gli ultimi dati statistici disponibili dicono che oggi oltre metà degli ingressi nel tessuto produttivo avvengono con rapporti di lavoro a termine; e che una parte considerevole dei giovani lavoratori che incominciano a lavorare in questo modo hanno gravi difficoltà, nel vecchio sistema, a conquistare una posizione stabile e protetta. Il nuovo regime di protezione cui dà luogo il “contratto di transizione” offre invece a tutti coloro che vengono ingaggiati in posizione di lavoro dipendente, da quel momento in avanti, un contratto a tempo indeterminato recante una protezione piena della salute e integrità fisica del lavoratore, nonché contro qualsiasi discriminazione, una congrua assicurazione per la malattia, un regime di protezione della continuità del rapporto che li colloca su di un piano di parità con tutti gli altri neo-assunti, senza la prospettiva della necessità di un rinnovo del contratto di lì a pochi mesi, con la prospettiva – invece – che se il rapporto procede bene esso andrà progressivamente stabilizzandosi col crescere dell’anzianità di servizio, per effetto del corrispondente aumento del costo del licenziamento per l’impresa. Con la prospettiva, infine, che, se le cose invece andranno male e il rapporto dovrà cessare per motivi economici od organizzativi, il licenziamento sarà accompagnato in ogni caso dal pagamento di un congruo indennizzo e da una copertura assicurativa contro la disoccupazione di livello nordeuropeo.
C’è chi, a proposito di questo progetto, ha parlato di “precarizzazione di tutti i new entrants”, come se l’unica alternativa al lavoro “precario” fosse la forma di protezione introdotta con l’articolo 18 dello Statuto del maggio 1970. Ma non è così: in nessun altro Paese europeo vige un regime di reintegrazione automatica nel posto di lavoro a seguito del controllo giudiziale del giustificato motivo economico-organizzativo del licenziamento; eppure nessuno potrebbe seriamente sostenere che i lavoratori francesi, spagnoli, olandesi, britannici, danesi o tedeschi operino tutti in un regime di precarietà. È un fatto, comunque, che in tutte le occasioni in cui abbiamo sottoposto a gruppi di giovani in procinto di entrare nel mercato del lavoro la possibilità di scelta tra il regime attuale di protezione “duale” e il regime ispirato al modello della flexsecurity nord-europea, la preferenza si è manifestata in modo univoco per questo secondo modello.
Se ne deve concludere che sussiste un forte interesse dei new entrants a poter accedere al (o rientrare nel) tessuto produttivo in un contesto di flexsecurity, piuttosto che in un contesto di protezione “duale”, quale quello che caratterizza oggi il nostro sistema.
Convenienza della transizione al nuovo regime per le imprese ‑ Quanto all’interesse delle imprese a impegnarsi con il “contratto di transizione”, abbiamo visto come, nell’ipotesi più pessimistica circa la durata del periodo di disoccupazione conseguente al licenziamento – durata massima di quattro anni ‑, il costo complessivo del trattamento dovuto al lavoratore sarebbe inferiore a due annualità di prosecuzione del rapporto: cioè a quello che oggi è considerato, generalmente, un costo congruo, e al tempo stesso sostenibile, per l’incentivazione all’esodo di un dipendente da parte di un’impresa cui si applichi l’articolo 18 St. lav. Il modello nord-europeo cui il progetto si ispira, però, coniugando strettamente il sostegno del reddito del lavoratore con iniziative efficaci di riqualificazione mirata e assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione (efficaci perché gestite da chi ha un forte incentivo economico a conseguire la ricollocazione del lavoratore più rapida possibile), consente di fare affidamento su una durata media dei periodi di disoccupazione molto inferiore a quattro anni: quanto più, dunque, l’ente bilaterale o consorzio saprà essere efficiente, tanto più le imprese interessate godranno di un vantaggio rispetto ai costi attuali dell’aggiustamento industriale. Per esempio, se si riuscirà a contenere la durata media dei periodi di disoccupazione entro i tre mesi – obiettivo, questo, ragionevolmente perseguibile ‑, il costo medio della sostituzione o soppressione del posto di un dipendente con sei anni di anzianità di servizio sarà pari a 8,7 mensilità della sua retribuzione (comprese le indennità di preavviso e di licenziamento): sarà dunque di molto inferiore rispetto al firing cost oggi comunemente ritenuto accettabile, in un’impresa sana.
Vero è che la convenienza del “contratto di transizione” per le imprese medio-grandi deve essere valutata anche in riferimento ai rapporti di lavoro precario cui esse, con il contratto stesso, rinunciano: in particolare, i rapporti di “lavoro a progetto”, o comunque di collaborazione autonoma continuativa, oggi consentono la soppressione del posto o la sostituzione del lavoratore con un costo ridottissimo o nullo per il datore di lavoro. Qui la convenienza, nella logica della riforma, deve nascere da una combinazione di incentivi positivi e negativi, dove l’incentivo positivo è costituito dall’aumento a 6 mesi della durata del periodo di prova e dal costo assai ridotto del licenziamento del lavoratore con anzianità di servizio di soli uno o due anni; l’incentivo negativo, viceversa, deve essere costituito da una applicazione rigorosa e generalizzata dei limiti di durata complessiva dei contratti a termine, dei limiti assai restrittivi posti dalla legge Biagi per il “lavoro a progetto” (richiamiamo in proposito particolarmente le circolari del Ministero del Lavoro n. 16/2006 e n. 4/2008) e del divieto di simulazione del lavoro autonomo anche nella forma della “partita Iva”.
Quanto alle imprese di piccole dimensioni, alle quali oggi l’articolo 18 St. lav. si applica soltanto per i licenziamenti discriminatori, l’ultimo comma dell’articolo 4 prevede che lo Stato si faccia carico di un contributo in favore dell’ente bilaterale o consortile di entità mediamente pari allo 0,5% delle retribuzioni dei nuovi assunti alle dipendenze di imprese con meno di 16 dipendenti: in questo modo resteranno a carico di queste ultime soltanto il costo degli eventuali difetti di funzionamento dell’ente. Tale misura di sostegno rende vantaggioso il nuovo regime anche per le piccole imprese, riducendone drasticamente il costo e parificando la qualità dei rapporti di lavoro da esse offerti nel mercato, sotto il profilo della protezione della continuità del lavoro e del reddito, rispetto a quella delle imprese di maggiori dimensioni.
Nuovo regime della contribuzione previdenziale – Il contributo per l’assicurazione pensionistica oggi si aggira intorno al 31,5 per cento della retribuzione (escluso il trattamento di fine rapporto) per i lavoratori subordinati regolari. Lo stesso contributo grava invece oggi nella misura del 24,70 per cento sui compensi dei collaboratori autonomi continuativi e dei lavoratori a progetto. Se gli obiettivi devono – come riteniamo debbano – essere quelli della parificazione delle due aliquote e al tempo stesso di una riduzione del “cuneo” previdenziale tra costo del lavoro e reddito netto, occorre che il punto di incontro venga trovato su di una aliquota intermedia, collocata al di sotto della media ponderata tra le due aliquote originarie. Questo criterio ci porta a proporre la fissazione della nuova aliquota, per tutti i nuovi assunti nel nuovo regime, al 30 per cento della retribuzione. All’Erario, se ve ne saranno le disponibilità, il compito di contribuire a sua volta alla riduzione del “cuneo” con una riduzione dell’imposta almeno sui redditi di lavoro più bassi.
Copertura finanziaria – L’aggravio complessivo derivante per l’Erario dal contributo posto a suo carico a norma dell’ultimo comma dell’articolo 4 sarà, nella fase iniziale, ridottissimo, poiché è presumibile che nel primo periodo non saranno molti i “contratti di transizione” stipulati dalle imprese di minime dimensioni: si tratterà dunque di un costo suscettibile di essere ampiamente coperto mediante il maggior gettito prodotto dal prevedibile aumento delle assunzioni nel settore delle imprese di maggiori dimensioni, dove invece si può prevedere una diffusione più rapida dell’esperimento. Nell’ipotesi del tutto astratta in cui il nuovo regime fosse, invece, da subito applicabile a tutti i nuovi assunti delle imprese con meno di 16 dipendenti (le quali oggi danno lavoro a poco più di 3 milioni di lavoratori), l’onere complessivo nel secondo anno sarebbe stimabile in circa mezzo miliardo di euro annui; basterebbe, in tal caso un aumento di circa 250.000 posti di lavoro regolari, prodotto dalla diffusione del nuovo regime nell’area delle imprese maggiori, per produrre un aumento del gettito fiscale idoneo a coprire quel maggior onere. Sono queste le considerazioni su cui si basa la previsione negativa, contenuta nell’articolo 9, circa la necessità di una modifica del bilancio al fine della copertura finanziaria specifica della voce di spesa di cui all’ultimo comma dell’articolo 4.

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