giovedì 30 dicembre 2010

Relazioni industriali da riformare per uscire dalla crisi

Documento sottoscritto da Augusto Barbera, Antonello Cabras, Stefano Ceccanti, Sergio Chiamparino, Paolo Giaretta, Pietro Ichino, Claudia Mancina, Ignazio Marino, Enrico Morando, Alessia Mosca, Magda Negri, Nicola Rossi, Francesco Tempestini, Giorgio Tonini, parlamentari del Pd - 30 dicembre 2010. 
A più di sessant’anni dall’abrogazione dell’ordinamento corporativo e dall’entrata in vigore della Costituzione, il sistema italiano delle relazioni industriali è ancora privo di una cornice compiuta di norme di fonte statuale, attuativa di quanto previsto dall’articolo 39 della Carta; ma è anche privo di una cornice compiuta di norme di fonte collettiva. Tale esso è rimasto anche dopo l’Accordo di concertazione del 23 luglio 1993, pur decisivo per l’accesso del Paese al sistema dell’Euro: quello stesso Accordo, infatti, rinviava a interventi legislativi, anche di livello costituzionale, in materia di contrattazione collettiva e relativa efficacia, che non sono stati poi attuati.
Qui il resto del postResta in particolare largamente indeterminata la disciplina di materie di importanza cruciale, in un regime come il nostro di pluralismo sindacale, quali quelle
- della misurazione della rappresentatività di ciascun sindacato nei luoghi di lavoro,
- dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi,
- dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello,
- dell’esercizio del diritto di sciopero,
- dell’efficacia della clausola di tregua sindacale,
le quali attualmente sono oggetto soltanto di orientamenti giurisprudenziali resi incerti dall’assenza di qualsiasi disciplina di fonte legislativa o collettiva.
Nell’ultimo decennio si è aperta una crisi del sistema, che è venuta progressivamente aggravandosi. È la crisi di un “modello contrattuale” affermatosi nei fatti, che per le sue caratteristiche strutturali produce un effetto depressivo sui livelli retributivi: a) ancorando i livelli della parte più forte e dinamica del tessuto produttivo nazionale a quelli della parte più debole; b) ostacolando gli investimenti stranieri abbinati a piani industriali innovativi. Quest’ultimo effetto è conseguenza della mancanza di un criterio che consenta di dirimere il dissenso tra i sindacati, quando esso si manifesta in sede aziendale nella negoziazione di piani industriali innovativi: questa situazione di anomia produce una marcata vischiosità del sistema di relazioni industriali, attribuendo di fatto un potere di veto alle formazioni minoritarie. La vicenda del progetto Fiat per la “Fabbrica Italia” ha posto in evidenza questa vischiosità e i difetti dell’ordinamento attuale che la determinano, rendendo l’opinione pubblica consapevole dei costi altissimi che ne derivano per il Paese, in termini di chiusura agli investimenti delle grandi multinazionali.
Superare questa vischiosità del sistema delle relazioni industriali è indispensabile per un Paese come il nostro la cui crescita economica è bloccata da molti anni e che non dispone di altra leva, per tornare a crescere, che quella dell’aumento drastico del flusso degli investimenti provenienti dall’estero. Effetti depressivi su quel flusso sono esercitati anche da altre cause strutturali, quali i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche e delle nostre infrastrutture, i costi più alti che altrove dei servizi alle imprese dovuti a difetto di concorrenza dei rispettivi mercati; ma una fluidificazione del nostro sistema delle relazioni industriali può avere un effetto positivo sul flusso degli investimenti in entrata anche prima che gli altri difetti vengano efficacemente corretti.
In particolare, è necessario aprire spazi – assai più ampi degli attuali – di valutazione degli scostamenti rispetto ai modelli nazionali di organizzazione del lavoro, struttura delle retribuzioni, articolazione dei tempi di lavoro, portati dai nuovi piani industriali, nella consapevolezza che non giova a nessuno, né imprese né lavoratori, un sistema chiuso, per paura delle innovazioni cattive, anche alle innovazioni buone. È dunque questo il filo che proponiamo di tirare subito per avviare nel Paese un grande processo di modernizzazione.
La via maestra per il riassetto del sistema delle relazioni industriali dovrebbe essere quella di un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori, nel quale le cinque materie cruciali indicate sopra trovino compiuta disciplina: compito della legge, a quel punto, sarebbe soltanto quello di intervenire a sostegno dell’efficacia dell’accordo sindacale. Dove, però, il sistema mostri di non essere in grado di dotarsi di questa cornice di norme universalmente condivise, determinando il rischio di paralisi, spetta al legislatore intervenire in via sussidiaria e provvisoria, con una normativa snella, che sia il meno possibile intrusiva e il più possibile volta a rafforzare l’autonomia collettiva. L’obiettivo non è sottrarre materie alla libera contrattazione. Al contrario: si tratta di cambiare forme, protagonisti e tempi della contrattazione, per renderla più penetrante, pervasiva ed efficace.
Un esempio di come questa normativa legislativa può essere delineata è offerto dal disegno di legge n. 1872, presentato da 55 senatori del Pd nell’autunno 2009, il cui contenuto può sintetizzarsi come segue:
1. una disciplina molto semplice e lineare della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro consente di individuare il sindacato o coalizione sindacale titolare della maggioranza dei consensi, al livello aziendale e ai livelli superiori fino a quello nazionale;
2. a questo sindacato o coalizione viene attribuito il potere di stipulare un contratto collettivo ivi compresa la clausola di tregua in riferimento alle materie regolate nel contratto stesso con efficacia generale nell’ambito di sua competenza;
3. il contratto collettivo nazionale stipulato dal sindacato o coalizione maggioritaria resta la disciplina applicabile per default in tutta la categoria che il contratto stesso definisce;
4. è fatta, però, salva la possibilità che a un livello inferiore regionale o aziendale un sindacato o coalizione maggioritaria stipuli efficacemente un altro contratto di contenuto diverso, che in tal caso prevale sulla disciplina collettiva di livello nazionale;
5. qui il progetto prevede che si attivi un “filtro” ulteriore, per limitare la derogabilità del contratto nazionale da parte di quello di livello inferiore: il requisito che il sindacato stipulante in deroga sia radicato in almeno quattro regioni (ma si possono utilizzare e anche combinare tra loro tecniche di limitazione diverse, con diverso grado di restrittività).
Come la relazione al disegno di legge n. 1872/2009 avverte, la parte della riforma riguardante l’efficacia erga omnes del contratto collettivo nazionale richiede una riforma degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione. Nulla vieta tuttavia che, in attesa di questa modifica costituzionale, si escluda dalla nuova disciplina legislativa la (sola) materia dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali, limitando la riforma alle materie della rappresentanza sindacale nei posti di lavoro, alla contrattazione collettiva aziendale (ivi compresa la clausola di tregua) e ai suoi rapporti con il contratto collettivo nazionale: tutte queste materie, infatti, sono esenti dal vincolo risultante dagli attuali ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.
Lettera di Pietro Ichino pubblicata sul Corriere della Sera il 30 dicembre 2010

Leggi tutto...

Tito Boeri, nuove regole di rappresentanza sindacale

Editoriale di Tito Boeri, pubblicato su la Repubblica del 29 dicembre 2010
Da Pomigliano a Mirafiori si ripete il copione. La politica si schiera a favore o contro Marchionne. Si parla di accordi storici, di svolte epocali oppure vengono invocati diritti fondamentali calpestati e violazioni della Costituzione. Sono tutte parole fuori luogo, fuorvianti quanto pericolose perché di mezzo ci sono i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Il nodo vero è sempre lo stesso, quello delle regole della rappresentanza. Ed è perciò ancora più grave che non si sia cercato in tutti questi mesi di porvi rimedio. La responsabilità ricade in eguale misura sul governo, che continua a ignorare il problema e punta in ogni occasione a dividere il sindacato, e sui vertici sindacali, incapaci di dialogare tra di loro, giunti ai limiti dell’incomunicabilità. E’ un lusso che non ci possiamo permettere in uno dei momenti più critici della storia economica del paese.
Da quando il sindacato è diviso, le organizzazioni dei lavoratori non sono più nelle condizioni di garantire il rispetto degli accordi presi. Una minoranza può sempre intervenire dopo che l’accordo è stato siglato e impedirne l’attuazione, mettendo in atto una serie di scioperi e di azioni dimostrative che possono gravemente compromettere se non far fallire un investimento attuato coerentemente con i contenuti dell’accordo. Finché questo problema non verrà risolto non solo avremo continue tensioni e interferenze della politica nelle vicende sindacali, ma soprattutto faremo fatica ad attrarre capitali esteri da noi. Per convincere un investitore a puntare sul nostro Paese bisogna metterlo in condizione di avere di fronte interlocutori in grado di prendere impegni cogenti circa il rispetto degli accordi sottoscritti. L’investitore sa bene che il potere contrattuale del sindacato aumenterà dopo che l’investimento è stato attuato. A quel punto non sarà più possibile dirottare le risorse altrove, cosa invece possibile prima, quando l’accordo è stato preso. Di qui il timore che il contraente voglia rimettere tutto in discussione, ottenendo condizioni più favorevoli dopo che l’investimento è stato realizzato. Per attrarre grandi imprese da noi bisogna perciò tutelarle circa il rispetto degli impegni presi dalle organizzazioni dei lavoratori. Queste garanzie possono essere fornite da un sindacato unito oppure da una legge sulle rappresentanze sindacali che attribuisca al sindacato maggiormente rappresentativo in azienda, ai delegati eletti dai lavoratori, l’autorità di sottoscrivere accordi vincolanti per tutti. I lavoratori dovranno rispettarne i contenuti. Se poi l’accordo si è rivelato per loro insoddisfacente, sceglieranno altri rappresentanti alla prossima tornata elettorale. Esistono diversi disegni di legge che recepiscono questi principi (vengono spiegati con maggiore dettaglio nelle pagine interne del giornale) e che da almeno 15 anni attendono di essere discussi in Parlamento. Del problema se ne parla peraltro fin dai tempi di Nenni.
L’accordo sottoscritto a Mirafiori, in assenza di queste regole, riconosce come rappresentanze dei lavoratori solo le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l’intesa. E’ una scelta chiaramente inaccettabile. Esimi giuristi hanno sottolineato come questo comma dell’accordo Mirafiori sia coerente con l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni che abbiano stipulato almeno un contratto in quell’azienda. Trattandosi di una newco ed essendo questo il primo e unico contratto stipulato, l’interpretazione alla lettera dell’articolo 19 implica che la Fiom che non firma non avrebbe diritto a costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Ma chi volesse costruire un sistema di relazioni industriali su questo principio di esclusione condanna il paese alla conflittualità permanente. Non deve essere il datore di lavoro a decidere quali sono le rappresentanze dei lavoratori. Non possono che essere i lavoratori, con il loro voto, a scegliere chi li rappresenta.
Bene perciò che si apra al più presto quel tavolo sulla rappresentanza proposto da Susanna Camusso su queste colonne lunedì. Significative le aperture mostrate nei confronti di questa proposta dal presidente degli industriali metalmeccanici, Pierluigi Ceccardi, e dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Quest’ultimo ha rimarcato che le norme sulle rappresentanze dovranno essere decise dai sindacati e non dal Parlamento. Ma il costo dell’incapacità di trovare un accordo su queste norme lo pagano anche molti non iscritti al sindacato e molti giovani che non hanno ancora iniziato a lavorare. Stupisce perciò la sponda offerta a Bonanni dal Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i cittadini: “un intervento del Governo in materia sarebbe autoritario”. Un governo che vuole davvero attrarre investimenti dall’estero e che ambisce alla coesione sociale darebbe alle parti sociali un termine di tempo rapportato alle difficoltà attuali dell’economia italiana, diciamo un mese. Se queste in quel lasso di tempo non avranno trovato un accordo, sarà il Parlamento a legiferare in autonomia.
La legge sulle rappresentanze offrirebbe anche alla Fiom, sin qui il sindacato maggioritario fra i metalmeccanici, l’opportunità di rientrare in gioco. L’accordo di Mirafiori sulla carta non glielo consente, anche se dovesse cambiare idea. Il testo infatti prevede che “l’adesione al presente accordo di terze parti è condizionato all’assenso di tutte le parti firmatarie”. Un sindacato non può restare perennemente all’opposizione. Può farlo un partito politico, a vocazione minoritaria. Ma non certo un sindacato.

Leggi tutto...

lunedì 27 dicembre 2010

Famiglie, ricchezza e federalismo

Il rapporto Istat “La ricchezza delle famiglie italiane” indica che la distribuzione della ricchezza ha un alto livello di concentrazione che impedisce la mobilità sociale delle famiglie più povere ed una prospettiva di uguaglianza. Il rapporto Istat afferma che “la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: - molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; - all’opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata. Le informazioni sulla distribuzione della ricchezza desunte dall’indagine campionaria della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane indicano che alla fine del 2008 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 10 per cento della ricchezza totale, mentre il 10 per cento più ricco deteneva quasi il 45 per cento della ricchezza complessiva. L’indice di Gini, che varia tra 0 (minima concentrazione) e 1 (massima concentrazione), risultava pari a 0,613, sostanzialmente in linea con quello osservato nel 2006.
Il numero di famiglie con una ricchezza netta negativa, alla fine del 2008 pari al 3,2 per cento, risulta invece in lieve ma graduale crescita dal 2000 in poi. Secondo le stime disponibili, nel confronto internazionale l’Italia registra un livello di disuguaglianza della ricchezza netta tra le famiglie piuttosto contenuto, anche rispetto ai soli paesi più sviluppati”.
“Tra la fine del 2008 e la fine del 2009 la ricchezza netta per famiglia è diminuita dello 0,3 per cento a prezzi correnti e dello 0,2 a prezzi costanti; sempre a prezzi costanti, la ricchezza netta per famiglia è tornata su livelli di poco inferiori a quelli che si registravano alla fine del 2005”.
Il rapporto dell’Istat dimostra che è necessario varare una riforma fiscale per sostenere le famiglie più povere e per effettuare una redistribuzione della ricchezza. Il ceto medio si è impoverito e le famiglie povere sono diventate più povere.
Ad aggravare in futuro la situazione delle famiglie e dei cittadini è l’applicazione del federalismo fiscale. Dallo studio effettuato da Marco Stradiotto, senatore del Partito Democratico, si evince che tra i 92 comuni italiani capoluogo di provincia, 52 riceveranno dei benefici dalla proposta di riforma del federalismo fiscale e 40 verranno invece penalizzati. Concretamente vi saranno 445 miliardi in meno di risorse statali per i servizi comunali. Minori finanziamenti a gran parte dei comuni significa maggiori esborsi da parte dei cittadini per usufruire dei servizi pubblici locali. I tagli interesseranno in gran parte i comuni del Sud.
In Italia non vi è una ricchezza diffusa che consente ai cittadini di vivere bene e, pertanto, occorrono delle riforme al fine di creare una maggiore giustizia sociale e per eliminare le sacche di povertà che si allargano sempre di più con il passare del tempo.
Articolo

Leggi tutto...

sabato 25 dicembre 2010

Sereno Natale e Felice 2011


Nella speranza di iniziare il nuovo anno con prospettive migliori ed incoraggianti per i giovani, i disoccupati e gli immigrati. Maggiore giustizia sociale ed equità perchè tutti hanno diritto di vivere in modo dignitoso costruendo il proprio futuro.

Leggi tutto...

Pietro Ichino, relazioni industriali e lavoro

Intervista al senatore Pietro Ichino a cura di Matteo Spicuglia, in corso di pubblicazione sul mensile torinese Nuovo Progetto, gennaio 2011
Il lavoro è il suo pane. Gli studi, il sindacato, la professione di avvocato e docente universitario, la politica. Pietro Ichino è oggi uno dei giuslavoristi più apprezzati, senatore del Partito democratico dal 2008, stimato anche nel centrodestra. Da anni vive sotto scorta dopo le minacce delle Brigate Rosse, per le sue posizioni in materia di riforma del mercato del lavoro. Ichino invoca meritocrazia, meno rigidità, tempo indeterminato per tutti, sfatando però il mito dell’inamovibilità. “Il problema italiano – spiega - è sicuramente un problema di difetto di capacità di crescita: siamo quasi fermi ormai da quindici anni. Ma c’è anche un problema di cattivo funzionamento del mercato del lavoro, dovuto sia a difetto dei servizi, sia a difetto del nostro ordinamento giuridico del lavoro”. Un aspetto che frena anche gli investimenti stranieri nel nostro Paese.

Perché?
La nostra legislazione del lavoro è lontana dagli standard internazionali, astrusa, non traducibile in inglese. Inoltre, abbiamo un sistema di relazioni industriali inconcludente, oltre che tendenzialmente chiuso ai piani industriali innovativi. Correggere questi ultimi difetti è tecnicamente possibile in tempi brevi e a costo zero.

In che modo?
Il 10 novembre scorso il Senato ha approvato quasi all’unanimità – 255 voti favorevoli, solo 26 tra contrari e astenuti – una mozione che impegna il Governo a varare un Codice del lavoro unificato e semplificato, ispirato al modello della flexsecurity nordeuropea, secondo il progetto delineato in un mio disegno di legge presentato nel novembre 2009: tutta la legislazione nazionale sul rapporto di lavoro in 70 articoli. Sarebbe un passo avanti di grande importanza.

Qual è il nocciolo della sua proposta?
Delinea un regime che si può riassumere così: d’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, anche se nessuno inamovibile. A tutti, invece, nel caso di perdita del posto di lavoro, una garanzia di sostegno del reddito crescente con l’anzianità di servizio, di continuità della contribuzione previdenziale e di assistenza efficace nel mercato, secondo il modello della flexsecurity nordeuropea. Per i dettagli devo rinviare al “Portale della Semplificazione e della Flexsecurity” che si trova nel mio sito http://www.pietroichino.it/.

La flexsecurity sarebbe una risposta anche al problema del precariato?
Il fenomeno del “precariato” non è che l’altra faccia della rigida stabilità dei rapporti di lavoro “regolari”. Il rapporto di lavoro di serie A, quello caratterizzato da un forte tasso di stabilità, è stato disegnato mezzo secolo fa, quando era normale che un giovane entrasse in un’azienda a 18 anni con una determinata mansione e con la prospettiva di conservare per 30 o 40 anni quella stessa qualifica in quella stessa azienda. Da allora è cambiato tutto. La tecnologia, ma anche la rapidità dell’evoluzione delle tecniche produttive e degli stessi prodotti, il ritmo di avvicendamento delle imprese nel tessuto produttivo. È aumentata l’incertezza cui qualsiasi imprenditore deve far fronte circa il futuro della propria azienda, non soltanto a lungo termine, ma anche nell’orizzonte dei due o tre anni. Da qui, il suo tendenziale rifiuto, nelle nuove assunzioni, verso un tipo di rapporto di lavoro troppo rigidamente stabile.

Il risultato è la spaccatura tra una generazione di adulti ipertutelati e una generazione di giovani all’opposto. Quale può essere il punto di equilibrio?
Lasciamo pure quello che oggi è il rapporto di lavoro “regolare” agli ormai pochi – meno di metà del totale dei lavoratori dipendenti italiani – che oggi ne godono; ma ridisegniamo il diritto applicabile a tutte le nuove assunzioni in modo da renderlo più adatto al nuovo contesto, e al tempo stesso più universale. In modo, cioè, da garantire il superamento graduale dell’attuale apartheid fra protetti e non protetti.

Il lavoro è una questione di diritti, ma anche di doveri. Quali sono quelli da mettere al centro?
I doveri sono quelli di sempre: lealtà e correttezza reciproca, adempimento della prestazione da entrambe le parti con la diligenza con cui lo si farebbe nei confronti di un figlio o di un coniuge cui si vuol bene. Non è una esagerazione: è la “diligenza del buon padre di famiglia” di cui parla da sempre il diritto civile. Ma oggi, nell’era della globalizzazione occorre qualche cosa di più: la disponibilità a scommettere insieme sull’innovazione. Carlo Darwin diceva che non è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più ricettiva nei confronti degli stimoli al cambiamento.

Anche nel mondo economico?
Certo. L’impresa più forte è quella in cui, per un verso, l’imprenditore è più credibile agli occhi dei propri dipendenti, perché più trasparente e affidabile sul piano dell’etica degli affari. Per altro verso, il sindacato è più capace di operare come “intelligenza collettiva” dei lavoratori nella valutazione del piano industriale innovativo e, se la valutazione è positiva, nella stipulazione della scommessa comune con l’imprenditore su di esso.

In Italia, la “meritocrazia” è sulla bocca di tutti ma la realtà dei fatti è diversa. Quanto contano le regole e quanto un cambiamento di mentalità?
Contano sia le regole, sia la mentalità. Le regole: ci riempiamo la bocca di “meritocrazia”, ma ben pochi si rendono conto dell’incompatibilità di questo valore con l’inamovibilità dei lavoratori, soprattutto pubblici ma anche privati. La mentalità: ben pochi si rendono conto dell’incompatibilità di questo valore con il rifiuto drastico della valutazione individuale, che caratterizza la nostra cultura sindacale dominante.

In più occasioni, lei ha detto che in Italia non manca tanto la domanda di lavoro, quanto l’offerta. C’è un difetto dei servizi di formazione?
C’è anche un problema di difetto di domanda, riconducibile alla nostra chiusura agli investimenti stranieri. Ma si dimentica troppo sovente la gran quantità di posti di lavoro qualificato che non vengono coperti per mancanza di manodopera idonea disponibile. Questo è dovuto non soltanto a un difetto dei servizi di formazione professionale, ma anche – e forse ancora di più – a un difetto grave dei servizi di orientamento scolastico e professionale. Oggi una parte consistente della disoccupazione giovanile è imputabile a quest’ultimo difetto.

Cosa consiglierebbe a un giovane che si affaccia al mondo del lavoro?
Gli consiglierei innanzitutto di allungare il più possibile il suo raggio di mobilità: le occasioni di lavoro aumentano in ragione quadratica del raggio di mobilità del lavoratore. Poi gli consiglierei di cercare un buon servizio di orientamento, offerto da una delle tante grandi agenzie di collocamento, che sono tenute a operare gratuitamente nei confronti dei lavoratori. Farsi fare un bilancio oggettivo delle competenze e farsi indicare gli obiettivi occupazionali realisticamente perseguibili, nel suo caso specifico, con i rispettivi percorsi di formazione e addestramento. È quello che ho sempre consigliato ai miei studenti e in venticinque anni di insegnamento non ne ricordo uno solo che in questo modo non abbia trovato un lavoro soddisfacente. Tanto più soddisfacente quanto più sono stati disposti a estendere il raggio della ricerca.
Editoriale di Pietro Ichino del 27 dicembre 2010
Intervista Il Giornale

Leggi tutto...

Renato Brunetta, replica parziale a Pietro Ichino

Il ministro Renato Brunetta risponde in modo parziale all’interrogazione presentata dal senatore del PD Pietro Ichino relativa al conferimento di un incarico di consulenza a Michel Martone, figlio del presidente della CIVIT.
Replica del senatore Pietro Ichino al ministro
La contestazione rivolta al ministro della Funzione pubblica con la mia interrogazione non era di “clientelismo”, ma - lo ripeto una terza volta - di:
A - grave inopportunità della stipulazione di un contratto di consulenza con un parente stretto del presidente di una autorità indipendente preposta al controllo sul dicastero stesso di cui il ministro è il capo;
B - grave inopportunità dello stanziamento di 40.000 euro per una consulenza “su di un tema di nessuna urgenza e di poco apprezzabile rilievo, quale quello dei problemi giuridici della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche di Paesi terzi“.
Sul primo punto il ministro risponde che il rapporto di consulenza ha avuto inizio qualche mese prima dell’inse3diamento del presidente della Civit. Ora, è presumibile che, se questa nomina è avvenuta nell’autunno 2009, nel settembre immediatamente precedente essa fosse stata già decisa. In ogni caso, l’interrogazione non si riferisce al primo contratto di consulenza (quello relativo al trimestre ottobre-dicembre 2009), bensì al secondo contratto, che ha avuto inizio a gennaio 2010, quando il padre di Michel Martone era già insediato come presidente di Civit. Non si trattava affatto di sciogliere un rapporto in corso, bensì di non stipulare un contratto nuovo, per l’evidente inopportunità di tale stipulazione ulteriore. Su questo punto la risposta del ministro elegantemente glissa.
Quanto al secondo punto, nella sua risposta il ministro sembra ignorare del tutto l’oggetto preciso e ben delimitato della consulenza, che era stato indicato nel contratto con Michel Martone e pubblicato nel sito del dicastero: “problemi giuridici della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche di Paesi terzi“. Ci informa, invece, che si è trattato di tutt’altro: un rapporto di consulenza a carattere continuativo, non riferito a un tema specifico, bensì genericamente a tutta l’attività corrente dell’amministrazione (ivi compresa la partecipazione a un convegno a Shangai, che però non riguardava affatto i “problemi della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche” cinesi). Il ministro, in questo modo, confessa quanto già avevamo appreso dalla risposta personale di Michel Martone, cioè che presso il suo dicastero la trasparenza non è tenuta in alcun conto: si stipulano contratti con un oggetto - pubblicato come tale on line -, mentre l’oggetto è in realtà tutt’altro. Nella serena certezza che l’Autorità per la Trasparenza delle Amministrazioni pubbliche non avrà alcunché da eccepire, poiché il suo presidente è padre del consulente. Complimenti al ministro per la Funzione pubblica: siamo davvero sulla strada giusta!

Leggi tutto...

giovedì 23 dicembre 2010

Diego Zardini, interrogazione sulla riforma PA

Il presidente del gruppo consiliare del Partito Democratico alla Provincia di Verona, Diego Zardini, ha presentato una interrogazione al presidente della Giunta provinciale di Verona, Giovanni Miozzi, al fine di conoscere lo stato di attuazione del decreto legislativo n. 150/2009 (legge Brunetta) nella provincia di Verona. La provincia di Verona, governata da una maggioranza di centro destra, dovrebbe essere sensibile ad adeguare il proprio ordinamento al Decreto 150/2009 in quanto si tratta dell'unica riforma varata dal Governo Berlusconi per migliorare le PA.
Diego Zardini nell'interrogazione rappresenta la situazione economica del paese, le condizioni delle PA e l'esigenza di migliorare la performance della Provincia: "La crescita economica dell’Italia è lenta, bassa e non sufficiente ad invertire la rotta per risolvere i problemi strutturali del paese. In prospettiva l’assenza di riforme strutturali non aiuta ad invertire la tendenza dell’economia italiana.
Le Pubbliche Amministrazioni in Italia rappresentano un punto di debolezza della catena di competitività del sistema delle imprese a causa della scarsa efficienza ed efficacia, dei ritardi nell’erogazione dei servizi e nei pagamenti alle imprese per la fornitura dei servizi ed opere, della burocratizzazione delle richieste e degli alti costi che occorre sostenere per ricevere un servizio.
Secondo il rapporto di Transparency International sulla percezione della corruzione nella pubblica amministrazione l’Italia si classifica al 67° posto a livello mondiale su 178 paesi, subito dopo Ruanda e Samoa e con il punteggio più basso dal 1997. Rispetto al 2009 l’Italia perde quattro posizioni. L’alto indice di corruzione e la bassa trasparenza scoraggiano gli investimenti esteri in Italia con gravi conseguenze per il sistema economico e per la base occupazionale.
L’applicazione della total disclosure in Italia, disposta dal D. Lgs n. 150/2009, insieme ad altri fattori rappresenta una inversione di tendenza ed una nuova considerazione del nostro paese con una ricaduta positiva sullo scenario competitivo globale.
A causa della crisi economica del paese è urgente avviare un processo di cambiamento delle PA, il quale può essere realizzato con l’implementazione operativa dei contenuti disposti dal decreto legislativo n. 150/2009 e degli indirizzi emanati dalla Commissione per la Valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche".
Il presidente del gruppo consiliare del Partito Democratico alla Provincia di Verona, Diego Zardini, ha presentato una interrogazione al presidente della Giunta provinciale di Verona, Giovanni Miozzi, al fine di conoscere lo stato di attuazione del decreto legislativo n. 150/2009 (legge Brunetta) nella provincia di Verona. La provincia di Verona, governata da una maggioranza di centro destra, dovrebbe essere sensibile ad adeguare il proprio ordinamento al Decreto 150/2009 in quanto si tratta dell'unica riforma varata dal Governo Berlusconi per riformare le PA.
Diego Zardini nell'interrogazione rappresenta la situazione economica del paese, le condizioni delle PA e l'esigenza di migliorare la performance della Provincia: "La crescita economica dell’Italia è lenta, bassa e non sufficiente ad invertire la rotta per risolvere i problemi strutturali del paese. In prospettiva l’assenza di riforme strutturali non aiuta ad invertire la tendenza dell’economia italiana.
Le Pubbliche Amministrazioni in Italia rappresentano un punto di debolezza della catena di competitività del sistema delle imprese a causa della scarsa efficienza ed efficacia, dei ritardi nell’erogazione dei servizi e nei pagamenti alle imprese per la fornitura dei servizi ed opere, della burocratizzazione delle richieste e degli alti costi che occorre sostenere per ricevere un servizio.
Secondo il rapporto di Transparency International sulla percezione della corruzione nella pubblica amministrazione l’Italia si classifica al 67° posto a livello mondiale su 178 paesi, subito dopo Ruanda e Samoa e con il punteggio più basso dal 1997. Rispetto al 2009 l’Italia perde quattro posizioni. L’alto indice di corruzione e la bassa trasparenza scoraggiano gli investimenti esteri in Italia con gravi conseguenze per il sistema economico e per la base occupazionale.
L’applicazione della total disclosure in Italia, disposta dal D. Lgs n. 150/2009, insieme ad altri fattori rappresenta una inversione di tendenza ed una nuova considerazione del nostro paese con una ricaduta positiva sullo scenario competitivo globale.
A  causa della crisi economica del paese è urgente avviare un processo di cambiamento delle PA, il quale può essere realizzato con l’implementazione operativa dei contenuti disposti dal decreto legislativo n. 150/2009 e degli indirizzi emanati dalla Commissione per la Valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche".
Diego Zardini chiede al Presidente della Provincia
"- se non ritenga urgente dare attuazione al decreto legislativo 27 ottobre 2009 N. 150 al fine di migliorare l’attività amministrativa e la performance del comune;
- se non reputi urgente dare immediata applicazione alle disposizioni dell’articolo 11, commi 1 e 3, relativi alla trasparenza ed integrità;
- se non reputi necessario adeguare l’ordinamento comunale ai principi contenuti negli articoli 3, 4, 5, comma 2, 7, 9 e 15, comma 1 relativi al Titolo II Misurazione, valutazione e trasparenza della performance;
- se non ritenga urgente adeguare l’ordinamento del comune ai principi contenuti negli articoli 17, comma 2, 18, 23, commi 1 e 2, 24, commi 1 e 2, 25, 26 e 27, comma 1 relativi al Titolo III Merito e Premi;
- se non ritenga opportuno aderire al progetto promosso da molte amministrazioni pubbliche, denominato Performance e Merito, al fine di ricevere supporto e assistenza nell’attuazione del D. Lgs. N. 150/2009".
Le amministrazioni locali che non rispettano il Titolo II “Misurazione, valutazione e trasparenza della performance” del D. Lgs. n. 150/2009 non potranno erogare i premi legati al merito ed alla performance.
Il sistema premiante finalizzato a premiare il merito e la professionalità, previsto dal titolo III “Merito e Premi” del decreto, comprende:
- Salario accessorio collegato alla performance individuale con l’istituzione delle fasce di merito;
- Bonus annuale delle eccellenze;
- Premio annuale per l'innovazione;
- Progressioni economiche e di carriera;
- Attribuzione di incarichi e responsabilità;
- Accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale;
- Premio di efficienza.
Inoltre, le autonomie locali che non adeguano il proprio ordinamento ai principi stabiliti dal decreto sono obbligati ad applicare dal 1 gennaio 2011 fino all’emanazione della disciplina regionale e comunale le disposizioni previste dal D. Lgs. n. 150/2009 in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance.

Leggi tutto...

Tito Boeri sulla disoccupazione



Dati Istat
- 8,7% il tasso di disoccupazione a ottobre 2010 (8,4% a settembre 2010);
 - 8,3% tasso di disoccupazione nel III trimestre 2010;
- 24,7% disoccupazione giovanile (15-24 anni);
- 36% disoccupazione giovanile e femminile al Sud;
- - 176 mila unità il numero degli occupati nel terzo trimestre 2010.

Leggi tutto...

lunedì 20 dicembre 2010

Riflessioni sull’editoriale di Irene Tinagli

In Italia si privilegiano le posizioni politiche avulse dai problemi concreti e di conseguenza quasi nessuno si espone a far saltare l’equilibrio esistente che risale agli anni sessanta/settanta e che nuoce al paese. Si pensi al dualismo nel mercato del lavoro tra protetti e precari, ai giovani talenti che sono costretti ad emigrare all’estero per costruire il loro futuro, alle relazioni industriali, al nuovo diritto del lavoro semplificato. Eppure vi sono delle proposte di cambiamento su questi argomenti elaborate dal senatore Pietro Ichino, approvate in una mozione presentata dal senatore Rutelli dal Parlamento con 255 voti favorevoli, che hanno bisogno urgente di essere esaminate e portate a conclusione. Il Partito Democratico su questi temi ha preferito intervenire con aggiustamenti e direttamente sull’economia tralasciando un cambiamento di vasta portata.
Il Partito Democratico ha elaborato delle proposte interessanti ed utili per il paese che interessano l’economia, il sistema fiscale, la lotta all'economia sommersa ed all'evasione fiscale ed altri temi sui quali non si è aperto un dibattito ed un dialogo serio a causa di un sistema politico anomalo. Per quanto riguarda la burocrazia per merito del senatore Pietro Ichino del  PD   è stata inserita nella legge la cultura della trasparenza e della valutazione che dovrebbe portare a dei risultati almeno nelle amministrazioni centrali (gli enti locali e le regioni registrano un ritardo nell'adeguamento dei propri ordinamenti).
Dissento in parte da Irene Tinagli quando scrive che l’opposizione “si chiude sulla difesa dell’esistente, legittimando e dando voce ad una miriade di piccoli o grandi conservatorismi che nell’ultimo anno sono esplosi ovunque”. Nell’attuale sistema politico, caratterizzato da una cultura vuota e imperante del Berlusconismo (autosufficienza della maggioranza, mancanza di dialogo, privilegio della propaganda e non dei problemi concreti, assenza di elaborazione plurale nella maggioranza dove ciascun esponente pensa alla propria sopravvivenza politica, appiattimento sulle posizioni di Berlusconi), l’opposizione ha meno spazi rispetto a quelli che avrebbe potuto avere nella prima repubblica. Si pensi al dialogo ed al confronto nel periodo del terrorismo e delle crisi economiche degli anni 70 e 90.
E’ anche vero che alcune forze di opposizione non hanno coscienza che è in giuoco la sopravvivenza del paese e con essa quella dei ceti più deboli e pensano ai tatticismi e non alle strategie per il futuro dell’Italia. La mancanza di una strategia per il paese non lascia presagire nulla di buono per il futuro e non crea le condizioni per una alternativa seria e responsabile a questo Governo.
Nell'attuale periodo di crisi a mio avviso occorre sospendere nelle opposizioni gli egoismi di partito (non serve a nulla ed a nessuno che un partito guadagni un 1% o 2% nelle prossime consultazioni elettorali) e pensare seriamente e responsabilmente all’Italia anche se questo può condurre a dei sacrifici elettorali per qualche partito. In passato IL PCI questo sacrificio lo ha fatto: ha privilegiato le istituzioni e non gli interessi di parte.
Inoltre, ritengo che gli anatemi lanciati dalla destra o dalla sinistra del Partito Democratico siano superati in quanto i partiti dell’opposizione hanno tutti legittimità democratica. La differenziazione dovrà nascere tra chi vuole cambiare il sistema con nuove regole per adeguarlo al terzo millennio e chi intende consolidare i vecchi ed anacronistici equilibri che non aiutano i giovani, i disoccupati ed i ceti più deboli. Questa secondo me è l’unica discriminante dopo essere usciti dal Berlusconismo. Prima di tale evento occorre che l’opposizione parlamentare si impegni con tutte le proprie forze a ripristinare le regole democratiche per lungo tempo calpestate dalla maggioranza di centro destra per scopi personali del premier, avviare il superamento della crisi economica con pochi ed importanti provvedimenti ed adeguare il sistema elettorale alle esigenze del paese e non di una leadership autoritaria ed egoista.
Editoriale di Irene Tinagli

Leggi tutto...

Il cambiamento che non arriva in Italia

Editoriale di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 19 dicembre 2010
Alcuni commentatori negli ultimi giorni hanno evidenziato l’impasse politica italiana, in cui una coalizione di governo ormai debole e monca resta tuttavia «aggrappata» al potere, come ha scritto il Financial Times. Pochi però si sono soffermati ad analizzare il contesto sociale che accompagna questa crisi, un contesto in cui sta germogliando un paradosso preoccupante per il futuro del Paese.
Da un lato infatti siamo di fronte ad un governo che fatica ad agire e che ha fallito la sua missione più importante.
Ovvero quella della rivoluzione liberale tanto declamata agli inizi. Come ci dicono anche gli ultimi dati la pressione fiscale in Italia è aumentata, la burocrazia non si è snellita, le amministrazioni pubbliche sono aumentate anziché diminuire, le liberalizzazioni sono bloccate, le professioni ancora più protette e la concorrenza in molti settori è ancora al palo. Dall’altro lato però troviamo un’opposizione - non solo politica ma anche civile e sociale - che anziché incalzare sul fronte delle riforme, dell’innovazione sociale ed economica, del progresso, si chiude sulla difesa dell’esistente, legittimando e dando voce ad una miriade di piccoli o grandi conservatorismi che nell’ultimo anno sono esplosi ovunque.
Se si pensa bene, infatti, tante delle proteste che negli ultimi mesi hanno scosso l’Italia non sono proteste alimentate dalla sete di quel cambiamento che stenta ad affermarsi, ma proteste per la paura di tutto quello che è cambiato e che può cambiare, la paura di perdere qualcosa. Dalle proteste contro l’Alta velocità (che presto otterranno la grandiosa vittoria di farci togliere dall’Unione europea tutti i fondi stanziati per la realizzazione della Tav), a quelle contro le quote latte e le multe per gli sforamenti. Dalle rivolte contro una nuova organizzazione del lavoro a Pomigliano, a quelle contro l’apertura di nuove discariche, fino alle manifestazioni che, con la giustificazione pur legittima di protestare contro i tagli all’istruzione, di fatto mirano ad affossare una Riforma che tentava timidamente di aprire il mondo chiuso dell’Università italiana.
Questo è il paradosso italiano che fa paura: un governo che già ha fatto poco per modernizzare il paese, incalzato però da una serie di forze ancora più conservatrici. Un paese terrorizzato dal cambiamento, incapace ormai di guardare oltre la siepe del proprio giardino.
Per i cittadini di Terzigno e Boscoreale la battaglia si gioca a Cava Vitiello, per gli anti-Tav piemontesi l’orizzonte si ferma in Val di Susa, nella baita costruita in difesa della loro Valle. E mentre gli operai di Pomigliano o di Lesmo salgono sui tetti dei capannoni per contrastare riorganizzazioni aziendali che mettono a rischio i loro posti, gli allevatori invadono le strade di trattori per non pagare le multe, e anche i ricercatori si arrampicano sul tetto delle università per difendere i loro contratti. Ognuno di loro ha un fantasma da combattere, che non è solo il governo, ma è, a seconda dei casi, l’Unione europea, l’euro, la globalizzazione, la competizione dei lavoratori asiatici o degli scienziati stranieri. Ognuno vorrebbe più o meno segretamente potersi proteggere da queste minacce, chiedere al Governo di spendere un po’ di più per neutralizzarle, perché facciano meno paura e generino meno disagio.
È probabilmente normale che singoli o piccoli gruppi di cittadini di fronte alla crisi reagiscano così, quello che non è normale e che preoccupa è che tanti leader civili e politici non siano capaci di elevarsi sopra gli interessi particolari e indicare una strada di crescita moderna e unitaria. Nessuno ha avuto il coraggio di dire a queste persone che pur avendo ragione a chiedere prospettive di vita migliori, non potranno aspettarsi che tali condizioni siano le stesse che hanno avuto i loro genitori. Nessuno ha detto che il diritto al lavoro non potrà più essere inteso come diritto al posto di lavoro a vita, ma il diritto a delle opportunità che magari si concretizzeranno in 5 o 6 lavori diversi nell’arco di una vita.
Nessuno ha detto che anche i diritti per i quali lottare possono cambiare forma perché cambiano le cose da cui dobbiamo proteggerci. E quindi, così come oggi i bambini si vaccinano contro l’epatite B e il papilloma e non più contro il vaiolo, similmente oggi è meglio pensare ad ammortizzatori e servizi che aiutino in caso di flessibilità piuttosto che a lotte per impedirla, così come avviene da anni in Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca. Nessuno ha detto che diminuire la tassazione sul lavoro e aumentarla sul patrimonio significherà anche smetterla con le politiche di supporto al possesso della casa - che invece è un tormentone ricorrente della politica italiana di ogni colore -, e che nei paesi che amiamo citare per l’alta protezione sociale come Germania, Francia o Danimarca il tasso di proprietà della casa va dal 43% della Germania al 54% della Francia mentre da noi sfiora l’80%.
Nessuno insomma ha parlato del cambiamento sociale, culturale ed economico che tutto il Paese dovrà avviare per rimettersi in moto e per generare nuove opportunità di crescita. Nessun leader civile o politico ha saputo delineare questa visione e ha avuto il coraggio di opporla ai conservatorismi di parte. Beppe Grillo si fa fotografare di fronte alla baita no-Tav, Bersani e Vendola posano compiaciuti mentre sbucano dalla scala che li porta sopra i tetti, Bossi arringa gli allevatori lombardi, i sindacati portano in piazza i giovani contro un Paese bloccato e nepotista, ma poi firmano tutti contenti accordi con le banche perché assumano i figli dei dipendenti. Ed è proprio di fronte a questo scenario che Berlusconi può permettersi di chiudere i propri giochi nel perimetro di Palazzo Madama e Montecitorio.
Per questo il problema dell’Italia, quello vero, non è tanto se continuerà a governare Berlusconi o qualcun altro, il problema vero, per chiunque si troverà in mano il Paese, sarà affrontare senza ipocrisie e populismi queste paure così radicate tra i cittadini, e indicare un obiettivo che dia il coraggio a milioni di italiani di guardare oltre la siepe e fare il salto.

Leggi tutto...

domenica 19 dicembre 2010

Crescita e cambiamento non decollano in Italia

Da quando si è insediato il Governo Berlusconi la ricchezza nazionale del Paese registra bassi livelli di crescita, la conoscenza che Peter Drucker definisce il primo fattore produttivo per lo sviluppo sociale ed economico di un paese viene sottovalutata, il merito non viene considerato agli stessi livelli dei paesi che registrano un tasso di sviluppo maggiore dell’Italia.
Tutto procede con le ricette non miracolose del ministro Tremonti che pone la sua attenzione alla quadratura dei conti e non alle riforme strutturali di cui il paese ha bisogno per crescere ai livelli necessari per comprimere i problemi sociali del paese.
In quest’ultimo periodo sono stati presentati alcuni dati sull’economia italiana che non lasciano presagire nulla di nuovo.
Incominciamo dall’ evasione fiscale. Da uno studio effettuato da Kris Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it risulta che l’evasione fiscale in Italia è aumentata del 10,1% e si consolida al 54,5% per un importo di circa 159 miliardi di euro l’anno. L’Italia si conferma al primo posto in Europa. Le notizie riguardanti la lotta all’evasione non sono rapportate al fenomeno e ne rappresentano una piccolissima parte.
Occorre cambiare strategia e consentire all’Agenzia delle entrate di possedere le informazioni necessarie per creare delle banche dati che aiutino la lotta all’evasione. Gli accertamenti da soli, in assenza di una analisi delle informazioni e di una valutazione della performance dell’Agenzia delle Entrate, non sono sufficienti a velocizzare, a comprimere e normalizzare il fenomeno dell’evasione nello spazio di 3 o 4 anni.
La lotta all’evasione non è solo un problema di equità ma rappresenta in questo momento di pesante crisi economica una delle poche possibilità di introitare risorse da investire per la crescita del paese e per contrastare i problemi sociali più gravi rappresentati dalla tendenza di comprimere la base occupazionale del paese.
Un trend negativo per l’Italia è rappresentato dall’aumento della pressione fiscale (rapporto Ocse), la quale si è attestata nel 2009 al 43,5% del Pil (43,3% nel 2008) ed al terzo posto tra i Paesi dell’area Ocse dopo la Danimarca e la Svezia (quarto posto nel 2008). La tassazione locale nel 1990 era pari al 2,6% della tassazione totale mentre oggi è pari al 16,1%.
Le entrate fiscali provengono per l’80% dalle imposte sul reddito e gravano sul reddito da lavoro e sulle imprese. Infatti, il peso complessivo del carico fiscale che grava sulle imprese italiane è pari al 68,6%, a fronte di una media europea del 44,2% e di una globale del 47,8%. Su 183 paesi esaminati l’Italia si classifica al 167° posto (studio Paying taxes 2011, realizzato dalla Banca mondiale e dalla società di consulenza PriceWaterhouseCoopers). Per i redditi da lavoro dipendente la situazione è più grave a causa delle tasse e del costo del lavoro che pesa sulle imprese e sul salario netto dei lavoratori in modo maggiore rispetto agli altri paesi.
Si rende necessario ed urgente riformare il sistema fiscale e renderlo più equo con le seguenti misure: - Abbassare le tasse alle imprese; Applicare una aliquota del 20% ai redditi da lavoro dipendente e detassare i salari fino a mille euro; Applicare la tassazione del patrimonio; Istituire a livello europeo la tassazione delle transazioni finanziarie al fine di contrastare il debito pubblico. Tali misure sono necessarie per sostenere la domanda di consumo, incoraggiare le imprese ed aumentare il salario reale dei lavoratori dipendenti.
Il debito pubblico italiano, nonostante il rigore propagandistico del ministro Tremonti, continua a salire attestandosi a 1.867,398 miliardi (dati Banca d’Italia) rispetto a 1.790 miliardi del mese di gennaio (+ 104 miliardi) e le entrate tributarie segnano dall’inizio dell’anno un calo del dell’1,8%.
La Confindustria prevede per il 2010 un tasso di crescita dell’1% e per il 2011 dell’1,1% nonostante che l’Italia non sia stata interessata dalla bolla immobiliare e le banche italiane siano solide. L’Italia cresce meno della Germania che registra il 3,4% e della media europea che si attesta all’1,5%.
L’Italia è bloccata perché non si muove verso il cambiamento e non pensa di realizzare riforme strutturali che mutino l’equilibrio attuale che ci impedisce di crescere e di costruire un futuro migliore. Occorre investire in ricerca, istruzione e risorse umane e combattere la burocrazia, l’economia sommersa e l’evasione fiscale. Senza crescita il problema della disoccupazione non può essere affrontato positivamente, i giovani disoccupati non potranno costruire il loro futuro ed i talenti emigreranno all’estero.
E’ necessario, inoltre, riformare il mercato del lavoro e superare il dualismo tra protetti e precari, adeguare al terzo millennio le relazioni industriali, ciò è già avvenuto negli altri paesi, che sono rigide ed esprimono un equilibrio che risale agli anni settanta.
Vi sono dei progetti in Parlamento presentati da Pietro Ichino e da Paolo Nerozzi, senatori del Partito Democratico, che vanno discussi con urgenza perché il problema di ampliare la base occupazionale del paese può essere affrontato con la crescita economica e le riforme normative.
Ritengo che dopo due anni e mezzo di Governo Berlusconi abbiamo constatato che non è possibile avviare un serio cambiamento e, pertanto, le forze politiche che sono all’opposizione devono insieme osare di più per il bene del paese, delle famiglie, dei lavoratori e dei giovani.

Leggi tutto...

mercoledì 15 dicembre 2010

Cambiamento delle PA: Proposte di lettura

Spesso l’argomento del cambiamento delle PA di grande attualità viene affrontato da giuristi che per la loro specificità presentano regole, applicazione delle disposizioni, interpretazioni che non aiutano in modo completo gli addetti ai lavori. Per tale motivo si segnalano due libri molto interessanti ed utili agli amministratori della cosa pubblica che trattano il tema dal punto di vista manageriale. Il cambiamento nelle PA può essere avviato e realizzato se vengono introdotti nella gestione alcuni strumenti manageriali che gli autori propongono e spiegano e che il D. Lgs. 150/2009 introduce. Non è sufficiente la correttezza formale e le relazioni che esprimono contenuti contradditori rispetto alla prassi delle PA.

Autori vari, Gestire e valutare le performance nella PA, Maggioli, 2010
Gli autori di questo volume, tutti coinvolti in prima persona nell'avventura della "Riforma", hanno voluto, con questa opera, esplicitarne i presupposti e le conseguenze applicative dal punto di vista manageriale. Questo l'obiettivo: spiegare in chiave economico-aziendale il "dietro le quinte" dell'articolato dei titoli II e III del D.Lgs. 150/2009, utilizzando un linguaggio divulgativo. Il volume si articola in quattro capitoli, ciascuno a sé stante, ma tutti legati da un filo logico che li attraversa e li unisce. Nel primo capitolo si propone un'analisi comparativa delle recenti riforme della pubblica amministrazione a livello internazionale con l'obiettivo di mettere a fuoco alcuni principi e traiettorie comuni con il disegno riformatore perseguito in Italia attraverso il D.Lgs. 150/2009. Nel secondo capitolo si propone una lettura della riforma in chiave manageriale che parte dall'analisi di ciò che non ha funzionato o funzionato poco nelle riforme precedenti per poi passare in rassegna i "valori" di questa riforma, gli strumenti e gli attori. Il terzo capitolo è tutto incentrato su valutazione e merito: cardini e allo stesso tempo chiave di un'arcata centrale sulla quale poggia tutta la riforma. Il quarto capitolo, infine, si concentra sulla grande novità sia terminologica che tecnica di questa riforma, la gestione della performance, analizzandone i profili e proponendola come lo strumento tecnico e manageriale in chiave di innovazione.

Autori vari, Valutare le pubbliche amministrazioni: tra organizzazione e individuo. Visioni dei valutatori italiani per perfomance e competitività, Franco Angeli, 2010
Questo volume della collana dell'Associazione Italiana di Valutazione viene pubblicato in un momento in cui il tema della misurazione e della valutazione delle performance della pubblica amministrazione è di grande attualità con la recente riforma nazionale: un momento in cui, al contempo, sta emergendo una nuova consapevolezza circa la debolezza profonda che contrassegna sia la cultura della valutazione sia la competitività del nostro Paese. Il testo intende esprimere, attraverso uno sguardo molteplice, la necessità di declinare il tema delle performance pubbliche con riferimento alla centralità della componente valutativa, per migliorare le condizioni socioeconomiche e di equità dell'Italia. In tale prospettiva il libro propone la tesi per cui, comunque si voglia giudicare la riforma in atto, per tutti gli autori, segna una decisa discontinuità. Ma se essa è il punto di arrivo di un complesso processo normativo, deve essere anche il punto di partenza per successivi aggiustamenti e miglioramenti che la delega stessa consente. In questo senso i valutatori italiani (e non solo) "rileggono la riforma", in tutte le componenti interessate: il dibattito che si svilupperà a partire da questo volume potrà essere da guida per i futuri provvedimenti migliorativi ed una applicazione intelligente. Un libro innovativo e utile sulle performance pubbliche: un terreno sul quale fondamentalmente i valutatori concretizzano la propria responsabilità nei confronti della intera collettività nella crisi.

Leggi tutto...

lunedì 13 dicembre 2010

Premi a rischio per i dipendenti delle autonomie locali

Le Regioni (comprensive dei propri enti e delle amministrazioni del servizio sanitario nazionale), le Province ed i Comuni sono tenuti ai sensi del D. Lgs. N. 150/2009 ed entro il 31 dicembre 2010 ad adeguare il proprio ordinamento ai principi contenuti negli articoli 3, 4 5, comma 2, 7, 19, 15, comma 1, del Titolo II del decreto in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance.
Si indicano i principi ai quali le autonomie locali dovranno adeguare il proprio ordinamento:
- Adozione di un sistema di misurazione e di valutazione della performance (artt. 3 e 7);
- Attuazione del ciclo di gestione della performance (art. 4);
- Definizione degli obiettivi e degli indicatori di performance (art. 5, comma2);
- Costituzione dell’Organismo indipendente di valutazione, OIV (art. 7);
- Misurazione e valutazione della performance individuale ed organizzativa (art. 9).
A differenza delle altre PA le autonomie locali possono adottare gli strumenti indicati con autonomia sempre nell’ambito della conformità alle linee guida stabilite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Commissione).
Solo gli Enti che si attengono a tali disposizioni possono erogare i premi legati al merito ed alla performance.
Per gli enti che non adeguano il proprio ordinamento le conseguenze negative sono principalmente due:
- La mancata introduzione degli strumenti manageriali previsti dalla riforma delle PA per migliorare la performance dell’amministrazione locale e, quindi, la qualità dei servizi ai cittadini;
- L’impossibilità di distribuire ai dipendenti i premi previsti dal D. Lgs. n. 150/2009 e dalla normativa precedente.
Il sistema premiante finalizzato a premiare il merito e la professionalità, previsto dal titolo III “Merito e Premi” del decreto, comprende:
- Salario accessorio collegato alla performance individuale con l’istituzione delle fasce di merito;
- Bonus annuale delle eccellenze;
- Premio annuale per l'innovazione;
- Progressioni economiche e di carriera;
- Attribuzione di incarichi e responsabilità;
- Accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale
- Premio di efficienza.
Le autonomie locali devono, inoltre, adeguare il proprio ordinamento ai principi contenuti negli articoli 17, comma 2, 18, 23, commi 1 e 2, 24, commi 1 e 2, 25, 26 e 27, comma 1 in materia di merito e premi.
La Commissione, l’Anci e l’Upi hanno sottoscritto un protocollo d’intesa al fine di sostenere i Comuni e le Province nell’attuazione della riforma prevista dal D. Lgs. 150/2009.
In particolare l’Anci ha predisposto il progetto “Performance e Merito” al quale hanno aderito 586 comuni su 8100. E' utile per i comuni partecipare al progetto dell'ANCI al fine di essere sostenuti nel pocesso di cambiamento.
L’Anci ha approvato diversi documenti per l’applicazione del D. Lgs n. 150/2009 tra i quali si indicano:
- Le prime linee guida dell’ANCI;
- Revisione dei regolamenti comunali;
- Le linee guida dell’ANCI in materia di Ciclo della Performance. Su questo documento la CIVIT ha formulato delle osservazioni che dovranno essere valutate dall’ANCI.
- Organismo indipendente di valutazione.
Tra i comuni aderenti vi sono i grandi comuni ed i capoluoghi di Provincia. L’adesione bassa dei comuni al progetto dell’Anci non facilita l’avvio di un cambiamento ampio negli enti locali.
L’UPI ha inviato alle Province delle note applicative del D. Lgs. 150/2009 per l’adeguamento dei regolamenti provinciali ed ha raccolto alcune notizie da parte delle Province.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome su tale problematica non ha dato segni di interesse pur essendo interessata direttamente e indirettamente con i propri enti e con le amministrazioni del servizio sanitario nazionale.
Ritengo che da oggi al 31/12/2010 occorre che le autonomie locali procedano all’attuazione del D. Lgs. n. 150/2009 ed all’adeguamento dei propri ordinamenti, altrimenti dal 1 gennaio 2011 sono tenuti ad applicare fino all’emanazione della disciplina regionale e comunale le disposizioni previste dal D. Lgs. n. 150/2009 in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance, rinunciando all’autonomia prevista dalla normativa vigente.
L'attuazione del D. Lgs. n. 150/2009 è una occasione da non perdere per migliorare la performance delle autonomie locali e la qualità della vita dei cittadini. Non fare nulla significa accettare passivamente lo stato attuale delle PA che non è certamente efficiente ed efficace. Una migliore PA può migliorare il livello di competitività dell'Italia ed attrarre investimenti esteri.

Documenti ANCI del progetto Performance e merito
Progetto Anci Sperimentazione
UPI note applicative del D. Lgs. 150/2009

Leggi tutto...

venerdì 10 dicembre 2010

La crisi non è nata ieri, ma è già maggiorenne!

di Emanuele Costa
Sono ormai due anni che in Italia non si parla d’altro. La crisi economica è entrata con prepotenza a pieno titolo nel linguaggio comune e, purtroppo, nell’esperienza di vita quotidiana. Una recessione che sembra non concedere tregua, che ha imposto una radicale rivisitazione delle abitudini e degli stili di vita degli Italiani, chiamandoli a sostenere ulteriori sacrifici. Ma questa congiuntura sfavorevole che perseguita l’Italia ha solo due anni di vita o, nell’indifferenza generale, senza rendersene conto, ha già compiuto la maggiore età? Correva, infatti, l’anno 1992 quando le prime avvisaglie sul potenziale default del debito pubblico, inscenarono un attacco alla valuta nazionale, spingendo il governo tecnico di allora ad adottare misure straordinarie per limitarne le conseguenze e scongiurare il peggio. Decisioni drastiche per consentire all’Italia di potersi aggrappare ad una scialuppa di salvataggio, per non perdere il treno dello sviluppo europeo. Svalutazione della lira, tassa patrimoniale sulle giacenze bancarie e privatizzazioni furono, tra le altre, le mosse di maggior significato inserite in una Legge Finanziaria di rigore. Da quel momento, gli Italiani di sacrifici ne hanno fatti veramente tanti, mentre, al contrario, di risultati ne hanno visto tristemente pochi, se non, addirittura, nessuno. E’ difficile, quindi, poter affermare che dopo diciotto anni la situazione della finanza pubblica abbia registrato un sensibile miglioramento. Purtroppo, è vero l’esatto contrario. Quindi, rimane aperto l’interrogativo su che fine abbiano fatto quelle risorse incassate dalle privatizzazioni e destinate, a parole, all’abbattimento del debito pubblico, alla luce del fatto che oggi è più elevato di allora. In questi anni lo scenario ha subito profondi mutamenti. La vendita del patrimonio pubblico non è più in grado di assicurare alla finanza pubblica una boccata di ossigeno. La politica dell’Unione Europea è definitivamente orientata verso forme di aiuti finanziari, per evitare che la situazione in cui versano i conti pubblici di alcuni partner europei diventi sempre più insostenibile. In mancanza di un concreto finanziamento, l’impatto sull’intero sistema economico europeo rischierebbe di aprire le porte ad uno scenario apocalittico. Dopo la Grecia, l’Irlanda. L’elenco non è finito. Seguono a ruota altri venticinque paesi e l’Italia si trova, come gli altri, in coda. I dubbi sull’efficacia di tali interventi rimangono aperti. Se l’aiuto finanziario sarà erogato a pioggia a tutti quegli Stati Membri che ne faranno richiesta, la soluzione sarà ottimale per uscire da questa crisi economica? Come faranno a ripartire i consumi se le risorse eventualmente risparmiate dalle famiglie sono destinate prioritariamente a rimborsare quei debiti contratti con facilità nel passato? La speranza è che, una volta raschiato il fondo al barile della Banca Centrale Europea, non ci si trovi in una situazione peggiore di quella attuale, con la triste constatazione di dover ricominciare di nuovo da capo! Come nel 1992 e diciotto anni più tardi.

Leggi tutto...

giovedì 9 dicembre 2010

La trasparenza è incontrollabile

Interrogazione del Senatore Pietro Ichino al ministro per i beni e le attività culturali e al ministro per la Funzione pubblica, che verrà presentata il 13 dicembre 2010
La trasparenza continua a fare brutti scherzi al Governo. La scuola Superiore delle Pubbliche Amministrazioni assegna due consulenze a Francesca Tempestini, ex segretaria particolare del Ministro Bondi. Ichino sottolinea che Tempestini non ha le conoscenze e le competenze necessarie per svolgere l’incarico.
Dopo l’introduzione della trasparenza con la riforma delle PA, grazie ad un emendamento del senatore Ichino, è urgente e necessario che i cittadini, le associazioni dei consumatori, i blogger si avvalgano di questo cambiamento per controllare e rendere visibile l’azione politica che molto spesso non è conforme alla correttezza ed all’interesse del paese.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA
Al ministro per i beni e le attività culturali e al ministro per la Funzione pubblica
Premesso che:
- a quanto risulta dai dati pubblicati dalla Scuola Superiore delle Pubbliche Amministrazioni nella sezione dedicata agli “incarichi esterni”, la stessa Scuola ha stipulato due contratti di consulenza con la dottoressa Francesca Temperini, che prevedono rispettivamente: un “incarico di ricerca per la predisposizione di uno studio su metodologia di comunicazione istituzionale via web”, per il periodo che va dal 03/02/2010 al 30/04/2010, e per un compenso pari a 20.000; un incarico di “progettazione, in accordo con il Ministero per i beni e le attività culturali del programma di parte speciale da svolgere nel corso del ciclo formativo destinato ai nuovi dirigenti del Ministero”, per il periodo che va dal 01/06/2010 al 31/12/2010, e un compenso pari a 40.000,00 euro;
- non risulta che la dottoressa Francesca Tempestini abbia competenze scientifiche o didattiche specifiche particolari, in relazione all’oggetto delle due consulenze affidatele;
- è fatto notorio che la dottoressa Francesca Temperini ha svolto l’incarico di segretario particolare del ministro Bondi, con incarico all’interno degli uffici di diretta collaborazione del Ministero per i beni e le attività culturali;
si chiede
- preliminarmente, se i ministri non ritengano inopportuno il conferimento da parte della SSPA di un incarico a una persona legata al ministro Bondi da un rapporto professionale fondato al massimo grado sulla fiduciarietà – trattandosi, nel caso, del delicato incarico di segretario personale – in ordine a un obiettivo che costituisce una funzione amministrativa a carattere ordinario; è infatti di tutta evidenza che la progettazione delle attività formative rientra tra le attività della Direzione Generale per l’organizzazione, l’innovazione, la formazione, la qualificazione professionale e le relazioni sindacali, in base a quanto disposto dall’art. 4, comma 2, lett. a) del DPR 233 del 2007, che pone in capo a tale Direzione la realizzazione dei piani di formazione del personale dell’amministrazione;
- di conseguenza, si chiede quali siano le ragioni che motivano una spesa aggiuntiva per un prodotto che deve essere ordinariamente realizzato dalla struttura di line del Ministero. Inoltre se sia stato il Ministero a richiedere tale progettazione ovvero se sia stata la SSPA a ritenere di dover sviluppare tale iniziativa e in base a quali considerazioni di opportunità. Infine quali elementi curriculari qualificano la dott.ssa Francesca Temperini come esperto in materia di progettazione formativa.

Leggi tutto...

mercoledì 8 dicembre 2010

Pietro Ichino replica a Martone figlio

Michel Martone si sostituisce a Renato Brunetta e risponde all’interrogazione di Pietro Ichino, senatore del Partito Democratico, non in modo esauriente e completo per dissipare i dubbi e le perplessità relative alla consulenza che gli è stata conferita. Afferma, sbagliando, che l’interrogazione del senatore Pietro Ichino non è stata presentata. Comunque l’indipendenza della CIVIT è stata calpestata. Inoltre, il richiamo agli studenti da parte di Martone è strumentale perché in questa vicenda non c’entrano. Pur di rispondere Martone dichiara di preferire una cosa (risposta del Ministro) facendone un'altra (risposta).
Si riporta di seguito l’intervento di Michel Martone
“A seguito delle pressanti richieste dei miei studenti, pubblico la mia risposta all’interrogazione parlamentare del senatore Pietro Ichino contro il Ministro Brunetta, mio padre e me. Certo, avrei preferito che la risposta potesse essere data dal Ministro nelle sedi istituzionali, come previsto dai regolamenti parlamentari. Ma, poiché il senatore Ichino, pur avendo preannunciato l’interrogazione al Corriere della Sera di sette giorni fa, non l’ha ancora depositata in Parlamento, ho deciso di non attendere oltre.
Qui il resto del postIl senatore Pietro Ichino si stupisce che, tra i consulenti del Ministro della Funzione pubblica che sta riformando anche la disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ci sia un professore ordinario di diritto del lavoro. E io non riesco a non stupirmi del suo stupore perché il sen. Ichino è perfettamente consapevole della tradizionale presenza di un giuslavorista tra i “tecnici” che collaborano con il Ministro dell’innovazione e della Funzione Pubblica. Ma soprattutto mi stupisco del suo stupore perché il prof. Ichino è un mio collega. Mi conosce dai tempi della laurea, mi incontra nei convegni, sul Corriere della Sera scrive delle stesse materie di cui scrivo su “Il Sole 24 ore”, sui blog ci interessiamo delle stesse tematiche e, ne sono sicuro, ha letto la mia monografia su “Governo dell’economia e azione sindacale”, premiata dall’Istituto Sturzo tra i “libri dell’anno nella scienza giuridica”. Il sen. Ichino, quindi, forse non condivide le mie idee, ma sicuramente conosce bene e da tempo il mio impegno di studioso e forse proprio per questo nell’interrogazione parlamentare non ha chiesto conto del mio curriculum vitae. Evidentemente voleva mantenersi libero di spacciare la vicenda come “l’ennesimo episodio clientelare”. Cosa che è poi regolarmente accaduta sulle pagine del Corriere del Sera di sabato 27 Novembre. Proprio sul giornale con il quale collabora da oramai un decennio, è stato dato ampio risalto alla “scoperta” del senatore Ichino e sono stato trattato alla stregua del “figlio del Presidente” preso in ostaggio da un Ministro che, per attentare all’ ”indipendenza” del padre, gli assegna una consulenza di “nessuna urgenza e poco apprezzabile rilievo” per un ammontare “vistoso” e “sproporzionato”. Ed invece, miei cari studenti, le cose stanno così: 1) come si poteva agevolmente constatare visto che il mio incarico è stato immediatamente reso pubblico sul sito della Funzione Pubblica, ho cominciato a collaborare con il Ministero a giugno del 2009, mentre mio padre è stato nominato componente dell’Autorità amministrativa indipendente solamente il 15 dicembre 2009, con Decreto del Presidente della Repubblica, dopo il voto favorevole dei due terzi dei componenti delle competenti commissioni parlamentari, compreso quello del sen. Ichino. E’ poi stato eletto Presidente il 22 Dicembre 2009 con il voto unanime di tutti i componenti della Civit. Quindi, come ha subito sottolineato il portavoce del Ministro, non poteva trattarsi di un episodio di nepotismo. 2) non ho pensato di rinunciare all’incarico dopo la nomina di mio padre perché francamente non ne vedevo, e non ne vedo, la ragione. Diversamente da quanto scritto con la solita approssimazione da alcuni giornali, come Italia Oggi, e dai blog, a seguito dell’annuncio dell’interrogazione, non è vero né che mio padre sia indagato per gli episodi della P3, è stato semplicemente sentito come persona informata sui fatti, né che sia “il controllore di Brunetta”. A oggi, il d.lgs. n. 150 del 2009 che ha istituito la Civit ancora non si applica alla Presidenza del Consiglio e, quindi, al Ministero della Funzione Pubblica. 3) per diversi mesi, per passione civile e scientifica, ho collaborato a titolo gratuito, dando il mio contributo all’attività legislativa del Ministero e, in particolare, alla definizione e all’implementazione della riforma della pubblica amministrazione perché il Ministro aveva bisogno dei consigli di un giuslavorista. Dal Giugno del 2009 ad oggi, ogni mia giornata lavorativa è regolarmente cominciata alle 8.30 nell’ufficio del Ministro, proseguendo con riunioni, incontri, discussione di testi legislativi, richieste di pareri e consigli secondo le necessità del Gabinetto. Così, tra le tante cose, mi sono occupato anche di “digitalizzazione ed informatizzazione del settore pubblico”, da un lato seguendo i lavori del Codice dell’amministrazione digitale, di quello della Buona Amministrazione e della Delivery Unit sulla “Riforma Brunetta”, dall’altro, partecipando all’elaborazione e al coordinamento della comunicazione sul web degli aspetti giuridici delle diverse iniziative legislative prese dal Ministero. Peraltro, invito tutti a visitare la galassia di siti della pubblica amministrazione di nuova generazione che sta prendendo forma a seguito dell’emanazione del d.lgs. n.150 del 2009. Se sono effettivamente più trasparenti e accessibili, come dimostra questa triste vicenda, lo sono per merito della riforma ma anche della squadra che il Ministro ha scelto per seguirne l’attuazione. Da ultimo, il senatore Ichino si stupisce per la “vistosità” del mio compenso. E, di nuovo, non posso non stupirmi del suo stupore perché quello denunciato dal senatore Ichino costituisce l’unico compenso che mi è stato corrisposto per l’intensa attività svolta in diciotto mesi. Più nello specifico, preciso che dal 1° Giugno 2009 ad oggi, ho percepito in tutto 37.326 euro lordi onnicomprensivi che, al netto di Iva, irpef e contributi, dovrebbero fare un compenso mensile netto di circa 1244 euro. Certo, non è poco ma non mi sembra una cifra così “vistosa”, soprattutto se penso all’intensità dell’impegno, alla delicatezza dei compiti svolti o ancora ai compensi che avrei potuto ottenere dedicando il mio tempo all’attività forense, come ben sa il Prof. Ichino. Piuttosto, visto che all’esito di una verifica ho avuto modo di rilevare che non mi sono state ancora pagate diverse mensilità, preannuncio che farò di tutto perché mi vengano liquidate quanto prima. Anche per evitare che, a questo punto, il sen. Ichino, faccia un’altra interrogazione parlamentare, con allegato articolo del Corriere della Sera, per dire che il Ministro non paga il figlio per condizionare il padre. Tanto dovevo ai miei studenti".
Replica di Pietro Ichino, senatore del Partito Democratico
"La mia interrogazione (che non è rivolta “contro” nessuno, ma si limita a denunciare un fatto preciso, chiedendo al Governo spiegazioni in proposito), presentata alla Presidenza del Senato venerdì 26 novembre, secondo prassi è stata pubblicata nella prima seduta plenaria del Senato successiva a quella data, il 6 dicembre (perché nella settimana dal 29 novembre al 3 dicembre hanno lavorato soltanto le Commissioni, impegnate nell’esame della legge Finanziaria e del Bilancio). Nulla osta, dunque, a che ora il ministro risponda al più presto nella sede istituzionale appropriata. E sarà il caso che in quella sede egli risponda per davvero alle domande contenute nell’interrogazione, cui il prof. Martone non risponde. In particolare, le domande sono queste:
A) “- preliminarmente, se il ministro non ritenga gravemente inopportuna la stipulazione da parte del suo Dicastero di un contratto [...] con un parente stretto del presidente di un organismo il quale dovrebbe caratterizzarsi per l’assoluta indipendenza rispetto al Governo”; osservo in proposito che l’interrogazione non si riferisce al primo contratto di consulenza, intercorso tra il ministero e il prof. Michel Martone dal giugno al dicembre 2009, bensì al secondo contratto, decorrente dal 1° gennaio 2010, data nella quale il dott. Antonio Martone, padre di Michel, era già membro e presidente della Civit; e sottolineo che l’interrogazione stessa ha per oggetto non un episodio di “”clientelismo”, ma la “grave inopportunità” di quel contratto, sotto il profilo dell’indipendenza che deve caratterizzare - anche nell’immagine esterna - la presidenza della Civit nei confronti del ministero e più in generale del Governo;
B) “- nel merito, se il ministro non ritenga gravemente inopportuno lo stanziamento di 40.000 euro per una consulenza su di un tema di nessuna urgenza e di poco apprezzabile rilievo, quale quello dei problemi giuridici della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche di Paesi terzi“; qui osservo come dalla risposta di M.M. risulti una consulenza avente un oggetto del tutto generico e comunque diverso rispetto a quello - molto preciso e specifico - formalmente indicato nel sito del ministero; aggiungo dunque questa domanda al ministro: non ritiene che sia contrario al principio di trasparenza, di cui egli stesso dovrebbe essere il primo attuatore e garante, indicare nel contratto e nel sito ufficiale del dicastero un oggetto del rapporto di consulenza non corrispondente all’oggetto reale? E poi, perché l’oggetto reale della consulenza non è stato dichiarato apertamente?
Anche la Civit, del resto, dovrebbe vigilare sulla trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche: ritiene dunque l’Autorità indipendente che in questo caso il principio di trasparenza sia stato applicato in modo corretto? E poi, come può essere valutata l’utilità della consulenza e la congruità del relativo compenso, se il suo oggetto reale è stato occultato sotto l’apparenza di un oggetto fasullo?"

Leggi tutto...

martedì 7 dicembre 2010

Il d. lgs. 27 ottobre 2009 n. 150 negli enti locali

La riforma delle PA si poggia su tre pilastri essenziali: trasparenza totale, valutazione e benchmarking comparativo, i quali vengono introdotti nelle PA attraverso una pluralità di strumenti. Gli obiettivi che si intendono perseguire sono: - il miglioramento della performance; - il soddisfacimento dei destinatari dei servizi erogati dalle PA; la partecipazione dei cittadini.
La trasparenza consente di far conoscere ai cittadini l’attività amministrativa ed i dati della performance dell’Ente e, quindi, di transitare da un ruolo passivo ad una posizione di stimolo, di controllo sociale e di confronto anche serrato con la PA sulla qualità dei servizi pubblici erogati. Tale fattore ha, inoltre, la finalità di prevenire il fenomeno della corruzione nelle PA tramite la pubblicazione di determinate informazioni pubbliche.
Il D. Lgs. n. 150/2009 è applicato negli enti locali e nelle regioni in modo differente rispetto alle altre PA in quanto tiene conto dell’autonomia normativa ed organizzativa attribuita dagli artt. 114, c. 2, e 117, c. 6, della Costituzione e dall’art. 4 della legge n. 131/2003. Pertanto, le disposizioni di competenza esclusiva dello Stato sono applicabili immediatamente (trasparenza, integrità, trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della performance) e quelle afferenti all’autonomia delle regioni e degli enti locali, indicate espressamente dal decreto agli artt. 16 ( Titolo II Misurazione, valutazione e trasparenza della performance) e 31 (Titolo III Merito e premi), sono attuabili dopo l’adeguamento degli ordinamenti degli enti locali e delle regioni.
Occorre che gli Enti adeguino i propri ordinamenti agli strumenti manageriali (sistema di misurazione e valutazione della performance, piano e ciclo della performance, piano della trasparenza e dell'integrità) introdotti dalla riforma affinché vengano attuati negli enti locali e nelle regioni. Inoltre, si rende necessario raccordare gli strumenti esistenti ai principi contenuti nel D. Lgs. n. 150/2009. Pertanto, l’Anci propone di concentrare nel PEG (piano esecutivo di gestione) o nel RPP (relazione previsionale programmatica) per gli enti per i quali non è previsto il PEG gli strumenti previsti dal D. Lgs. N. 150/2009.
Il D. Lgs n. 150/2009 introduce due nuovi organismi esterni: - La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche; - L’Organismo indipendente di valutazione.
La Commissione esercita le attività di cui all’art. 13, commi 5, 6 ed 8 e indirizza, coordina e sovrintende all’esercizio delle attività, indicate dall’art. 14, comma 4, degli Organismi indipendenti, promuovendo sistemi e metodologie finalizzate al miglioramento della performance delle PA.
La Commissione ha sottoscritto protocolli d’intesa con l’Anci e Upi. L’Anci ha lanciato il progetto Performance e Merito al fine di sostenere gli enti locali nella fase di implementazione della riforma (modello di valutazione delle performances organizzative, validazione degli indicatori di performance, call center durante la fase di sperimentazione, linea diretta con personale qualificato, customer satisfaction). Il contributo per la partecipazione alla sperimentazione è il seguente: - Comuni fino a 5.000 l’adesione è gratuita; - Comuni tra 5.000 e 20.0000 abitanti 500 euro; - Comuni tra i 20.000 e i 60.000 abitanti 1.000 euro; - Comuni con più di 60.000 abitanti 2.000 euro; - Comuni Capoluogo di Provincia 3.000 euro; - Comuni metropolitani 4.000 euro.
L’Ente, che parteciperà alla sperimentazione, contribuendo alla raccolta dei dati necessari all’implementazione del ranking, sarà assistito in tutta la fase di adeguamento alle previsioni del D. lgs n. 150/2009 sarà considerato adempiente alle stesse, secondo quanto previsto dal Protocollo di Intesa. Hanno aderito al progetto 586 comuni su 8100.
All’Organismo indipendente di valutazione (OIV) compete la misurazione e valutazione della performance e la proposta di valutazione annuale dei dirigenti di vertice. Le disposizioni contenute nell’art. 14 non sono applicabili alle amministrazioni locali e, pertanto, le funzioni e le caratteristiche dell’OIV sono stabilite dagli enti locali e dalle regioni che dovranno definire struttura, composizione e compiti dell’organismo. Su tali aspetti è opportuno che gli enti facciano proprie le direttive della Commissione e dell’Anci.
L’OIV sostituisce i servizi di controllo interno e può essere costituito da un organo monocratico o collegiale (tre componenti) in rapporto alle dimensioni e alla complessità della struttura.
Per un efficace funzionamento dell’OIV sembra utile garantire la presenza di persone con requisiti di elevata esperienza e professionalità maturata nel campo del management, della misurazione e valutazione delle performance, dell’organizzazione e del controllo di gestione. L’organismo è nominato dal sindaco, previo parere della Commissione, per un periodo di tre anni tramite apposite procedure di selezione dei componenti. E’ prevista la costituzione dell’OIV in forma associata per i comuni di ridotte dimensioni.
Tutte le PA devono conformarsi alle direttive stabilite dalla Commissione. Le regioni e gli enti locali, nell’ambito della conformità alle linee guida della Commissione, possono adottare gli strumenti che ritengono più consoni per la misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale.
Le PA che si attengono al rispetto alle disposizioni del Titolo II, Misurazione, valutazione e trasparenza della performance, del decreto legislativo possono erogare premi legati al merito ed alla performance. La mancata adozione e realizzazione del programma triennale per la trasparenza e l’integrità comporta il divieto di erogare la retribuzione di risultato ai dirigenti responsabili degli uffici coinvolti.
Entro il 31 dicembre 2010 gli enti locali dovranno introdurre i cambiamenti prescritti, attraverso l’adeguamento del proprio ordinamento, e precisamente: - Piano della trasparenza e dell’integrità; Sistema di misurazione e valutazione della performance; - Ciclo di gestione della Performance; - Organismo indipendente di valutazione. Inoltre, gli enti locali e le regioni adeguano i propri ordinamenti ai principi indicati dagli articoli a cui fa riferimento l’art. 31, comma 1 (Premi e merito).
Per gli enti locali e le regioni che non rispetteranno le scadenze indicate dal 1° gennaio 2011 e fino all’emanazione della disciplina regionale e comunale si applicano le disposizioni previste dal Titolo II “Misurazione, valutazione e trasparenza della performance” e dal Titolo III “Merito e premi” del D. Lgs. n. 150/2009.

Schema normativo del D. Lgs. 150/2009 per le regioni ed enti locali
Link utili
Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche
ANCI – Progetto Performance e Merito

Leggi tutto...

lunedì 6 dicembre 2010

Innovazione dalle relazioni sindacali

Editoriale del senatore Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 6 dicembre 2010
Caro Direttore, a Torino Marchionne pone apertamente sul tavolo la richiesta che anche nello stabilimento di Mirafiori, come in quello di Pomigliano, il lavoro sia regolato soltanto da un contratto aziendale e non dal contratto collettivo nazionale. Non solo i sindacalisti, ma anche i funzionari di Confindustria, quando non gli danno dell’arrogante, gli danno almeno dell’eccentrico: perché mai non dovrebbe valere anche per la Fiat lo stesso contratto nazionale che vale per tutte le altre aziende metalmeccaniche che operano in Italia?
Marchionne potrebbe risponderci che, sì, in Italia per questo aspetto è lui l’eccentrico, ma nel mondo gli eccentrici siamo noi. E almeno in questo avrebbe ragione. In tutti gli altri numerosi Paesi in cui la Fiat opera, dagli U.S.A. al Brasile, dalla Polonia alla Serbia, è consentito assoggettare le condizioni di lavoro in azienda al solo contratto aziendale e quindi adattarle punto per punto alle esigenze specifiche del singolo piano industriale.  Anche in Germania, Paese nel quale il sistema delle relazioni industriali è sempre stato imperniato sulla contrattazione collettiva nazionale di settore, oggi è consentito e largamente praticato che la singola impresa contratti le condizioni di lavoro in casa propria; e in tal caso è soltanto il contratto aziendale ad applicarsi, non quello nazionale.
Cinque anni prima che si aprissero le vertenze di Pomigliano e di Mirafiori ho scritto un libro per mostrare come nell’ottobre 2000, quando la Fiat annunciò la chiusura dello stabilimento Alfa Romeo di Arese, proprio questo nostro sistema di relazioni industriali imperniato sul principio della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale abbia contribuito in modo decisivo a impedire che che quello stesso stabilimento si candidasse per l’insediamento della produzione della Micra coupé da parte della Nissan (A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005). Questo non perché la Nissan intendesse pagare retribuzioni inferiori ai minimi previsti dal nostro contratto nazionale dei metalmeccanici: al contrario, il suo piano industriale prevedeva livelli di produttività che avrebbero consentito retribuzioni molto più alte, come già a Sunderland nel nord-Inghilterra. Il problema era che quel piano prevedeva un’organizzazione del lavoro - la c.d. lean production - incompatibile con il sistema di inquadramento professionale previsto dal nostro contratto nazionale; e un sistema di determinazione delle retribuzioni, basato sulla performance review individuale (pur con l’assistenza del sindacalista di fiducia del lavoratore) anch’esso incompatibile con la struttura della retribuzione stabilita dal nostro contratto nazionale. Così stando le cose, o Cgil Cisl e Uil erano tutte e tre d’accordo per la deroga (e non lo erano), oppure la deroga non si poteva pattuire. E infatti la trattativa non venne neppure aperta.
Il punto è che in Italia oggi quasi tutti considerano la “deroga” al contratto collettivo nazionale come sinonimo di “peggioramento delle condizioni di lavoro”, “rincorsa al ribasso”, “concorrenza tra poveri”, “dumping sociale”. Ma le cose non stanno così: la deroga al contratto collettivo nazionale può anche consistere in una modifica della disciplina dei tempi di lavoro che consente all’impresa di sfruttare meglio gli impianti e ai lavoratori di guadagnare di più; oppure in una diversa struttura della retribuzione funzionale a un aumento di produttività di cui saranno i lavoratori per primi a beneficiare; e gli esempi di scostamenti dalla disciplina nazionale potenzialmente vantaggiosi anche per i lavoratori potrebbero moltiplicarsi all’infinito.
Certo, è ben possibile che la deroga al contratto nazionale sia destinata, invece, a rivelarsi dannosa per i lavoratori. Ma non si può, per paura dell’innovazione cattiva, sbarrare le porte anche a quella buona; a meno che il vero scopo sia quello di proteggere dalle più dinamiche imprese straniere le imprese nazionali nel loro sonnacchioso tessuto produttivo (questo potrebbe spiegare la tiepida e perplessa accoglienza delle proposte di Marchionne da parte dell’apparato di Confindustria). Se non è questo che vogliamo, abbiamo tutti bisogno di un sindacato “intelligenza collettiva dei lavoratori” che sia capace di valutare il piano industriale innovativo e l’affidabilità di chi lo propone; e che, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano, negoziandone le modalità di attuazione a 360 gradi.
Dovremmo per questo mandare il contratto collettivo nazionale in soffitta? Niente affatto: esso ben può – come in Germania – conservare la funzione di benchmark e di disciplina applicabile per default, laddove manchi una disciplina collettiva negoziata da una coalizione maggioritaria a un livello più prossimo al luogo di lavoro. E chissà che in questo modo, oltre agli investimenti di Marchionne, non riusciamo ad attirare anche quelli di molte altre multinazionali, che finora la vischiosità del nostro sistema di relazioni industriali ha contribuito a tenere alla larga dall’Italia.

Leggi tutto...