mercoledì 10 febbraio 2010

Diritto del lavoro e giovani

Editoriale di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 febbraio 2010
Il ministro Renato Brunetta ha molta ragione quando avverte che il diritto del lavoro, e in particolare l’articolo 18 dello Statuto del 1970, oggi si applica soltanto ai padri e non ai figli. Gli italiani, però, hanno diritto di sapere che cosa il ministro propone seriamente – e non soltanto con una battuta in un talk show – per superare il regime di apartheid che penalizza la nuova generazione di lavoratori.
È vero: da anni, ormai, a un ventenne o trentenne che cerca lavoro in Italia le aziende offrono di tutto, tranne che un rapporto di lavoro regolare. E anche un rapporto di lavoro di serie B “a progetto”, o comunque a termine è già considerato, in molte situazioni, un privilegio difficilmente ottenibile, rispetto alla “normalità”, costituita dal lavoro di serie C: stage semigratuiti in azienda tutto lavoro e niente formazione, assunzione con partita Iva per mansioni d’ufficio, di cantiere, di negozio, di call center, di magazzino, che erano tradizionalmente considerate come lavoro dipendente. Case editrici in cui da anni non si assume più un redattore o un correttore di bozze con un contratto normale di lavoro dipendente; case di cura private che formalmente non hanno alle proprie dipendenze neanche un solo medico, un solo infermiere, un solo barelliere: tutti a partita Iva, oppure soci di cooperative di lavoro a cui il servizio viene appaltato. Stessa musica nel settore pubblico, dove ormai domina sempre più diffusamente l’“esternalizzazione” delle funzioni mediante cooperative e altri appaltatori, che utilizzano ogni forma di lavoro atipico.
Accade pure che dopo un periodo più o meno lungo di anticamera anche un ventenne o trentenne finisca coll’ottenere l’agognato posto di lavoro stabile regolare; ma il punto è che il datore di lavoro ha di fatto la possibilità di scegliere che il lavoratore, anche se sostanzialmente dipendente, resti escluso dalla protezione regolare per decenni. In altre parole: il diritto del lavoro sta perdendo la sua natura di standard minimo di trattamento universale, per assumere la natura di un ordinamento eminentemente derogabile: chi vuole lo applica e chi non vuole no. Naturalmente, poi, quando viene la bufera, a pagare per primi sono sempre i non protetti: i 500.000 lavoratori italiani che hanno perso il posto nei mesi passati di recessione sono ovviamente quasi tutti di serie B e C.
Dunque: il ministro fa bene ad aprire gli occhi su questa realtà, a riconoscere che il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema di protezione sociale non sono affatto “i migliori del mondo”, come egli stesso ci ha detto solo pochi mesi or sono. Ma deve anche dire quale è la sua diagnosi del fenomeno e quale la terapia che propone.
Una cosa è certa: il problema non è soltanto di controlli e di repressione delle frodi. Controllo e repressione servono quando la violazione o elusione delle regole è un fenomeno marginale; quando invece – come oggi accade per il nostro diritto del lavoro – violazione ed elusione diventano un fatto normale su larga scala, è l’ordinamento stesso che deve essere rifondato. La disciplina italiana del rapporto di lavoro regolare è vecchia ormai di oltre quarant’anni. È stata scritta quando non esistevano né i computer, né Internet, ma neppure i fax e le fotocopiatrici; quando era normale che un giovane entrasse in un’azienda con la prospettiva di restarci per trenta o quarant’anni svolgendo la stessa mansione, più o meno con gli stessi strumenti e le stesse tecniche. Oggi il tempo di vita di una tecnica produttiva (ma anche di un prodotto o di un materiale) non si misura più in decenni, ma in anni o addirittura in mesi; le imprese nascono e muoiono con un ritmo incomparabilmente più rapido rispetto ad allora. Così stando le cose, la sicurezza economica e professionale dei lavoratori non può più essere affidata al modello del “posto fisso”. Ed è in larga misura inevitabile che le imprese facciano di tutto per eludere, nelle nuove assunzioni, una disciplina della stabilità del lavoro, come quella dettata dall’articolo 18 dello Statuto del 1970, che condiziona lo scioglimento del rapporto di lavoro per motivi economici od organizzativi a un controllo giudiziale che può richiedere due, quattro o sei anni; e al Sud anche otto o dieci.
La soluzione, allora, non è togliere l’articolo 18 ai padri, ma riscrivere il diritto del lavoro per i figli, per le nuove generazioni; in modo che esso torni capace di applicarsi davvero a tutti i rapporti che si costituiranno da qui in avanti. E garantire davvero a tutti non l’impossibile “posto fisso”, ma quella protezione contro le discriminazioni e quella rete di sicurezza nel mercato, da cui oggi la nuova generazione dei lavoratori italiani è per la maggior parte esclusa.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Purtroppo il ministro Brunetta è quanto di peggio poteva esserci a capo nella pubblica amministrazione: solo polveroni contro fannulloni e bamboccioni senza mai proporre nulla di nuovo, utile ed originale che possa andare incontro alla precarietà di tanti giovani ad esclusione dei raccomandati suoi e della lega. Credo che a questo ministro e al governo di cui fa parte serve una bella lezione a cominciare dalle prossime regionali.

Antonino Leone ha detto...

Condivido quanto scritto da anomino. Pertanto bisogna dare una risposta alle prossime regionali