martedì 1 giugno 2010

Pietro Ichino replica a Luigi Mariucci

Il dibattito sul lavoro e sulla possibilità di superare il dualismo del mercato del lavoro si amplia e diventa sempre più interessante. Non emergono proposte organiche in alternativa alle proposte di Ichino e Nerozzi ma soltanto critiche che non risolvono il problema di fondo: il futuro dei precari. Il decalogo di Fassina è condivisibile in gran parte solo che non affronta il problema dei meno protetti. Cesare Damiano è impegnato a bloccare i disegni degli altri e a non formulare una sua specifica ed organica proposta. Quest’ultimo modo di fare politica non è condivisibile ed apprezzabile perché è sterile la posizione di chi critica ed utilizza la posizione degli altri per bloccare il cambiamento nel mercato del lavoro.
Il senatore Pietro Ichino replica all’articolo di Luigi Mariucci pubblicato su Europa del 27 maggio 2010.
“Un inganno e una colpevole mistificazione”
“indebita concessione alle ideologie della destra, fatta fuori tempo e fuori fase”
“stereotipi tipici di una consunta impostazione liberista”
“misure tardive di una americanizzazione controtempo”
Queste non sono critiche, sono invettive.
Vogliamo stare al merito della questione senza questi nervosismi, che non aiutano a capirsi? Il mio progetto si propone di disegnare un diritto del lavoro per l’Italia del dopo crisi, per la nuova generazione, capace davvero di recuperare il carattere di universalità che dovrebbe essere proprio di qualsiasi ordinamento del lavoro in un Paese democratico, cioè di applicarsi davvero, in modo uguale, a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica dall’azienda per cui lavorano (carattere che il nostro diritto del lavoro attuale ha perduto del tutto). A Luigi Mariucci - come a Cesare Damiano e a Stefano Fassina - non piacciono le soluzioni proposte nel mio progetto, e neanche quelle proposte nel progetto Nerozzi. Bene: ne propongano delle altre. Ma che siano davvero universali, cioè applicabili a tutti in modo uguale, in modo che non ci siano più i protetti e i paria. E’ la questione che posi quattordici anni fa con il libro Il lavoro e il mercato: da allora la percentuale dei paria sul totale dei lavoratori dipendenti è aumentata e la loro condizione è mediamente peggiorata (per via dell’allargarsi del ricorso alla “partita Iva”). Forse è ora che la affrontiamo sul serio questa questione. Luigi Mariucci non la affronta, perché teme che affrontarla comporti mettere in discussione “l’asse di fondo del diritto del lavoro italiano … costituito dall’intreccio tra Costituzione e Statuto dei diritti dei lavoratori” del quale “l’art.18 dello Statuto è la norma-simbolo “. Fatto sta che questo “asse di fondo” non è destinato ad applicarsi ai milioni di lavoratori che oggi ne sono esclusi. Per loro sono previsti soltanto “meccanismi di inclusione”, “meccanismi di incentivazione [che rendano] conveniente, sul piano fiscale e contributivo, l’assunzione a tempo indeterminato”. Meccanismi. Ma i paria del mercato del lavoro non vogliono “meccanismi”, vogliono parità di trattamento. Finché sarà consentito assumere nella stessa azienda per uno stesso lavoro un lavoratore dipendente regolare e uno “a progetto”, o”con partita Iva”, continueranno a esserci un lavoratore di serie A che gode del diritto del lavoro, e uno di serie B o di serie C che ne gode soltanto in parte o per nulla. E non si dica che i paria dovrebbero far causa alle aziende per ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro regolare: sappiamo bene perché questo non avviene se non in pochissimi casi. Né si obietti che “basta mandare gli ispettori” per stanare le evasioni: di fronte a milioni di rapporti di lavoro sedicente autonomo, i duemila ispettori non basteranno mai, neanche se li raddoppiamo o li quadruplichiamo. Occorre una definizione, come quella delineata nel disegno di legge n. 1873/2009 all’articolo 2094, e nel progetto Nerozzi, che consenta di individuare il “lavoro dipendente” direttamente attraverso i tabulati dell’Inps e dell’Erario. E occorre, come è ovvio, scrivere un diritto del lavoro - semplice, essenziale, incisivo - che sia davvero e realisticamente suscettibile di applicarsi d’ora in avanti davvero a tutti in questa area, senza togliere nulla ai vecchi lavoratori “di serie A” e senza aumenti del costo complessivo per le aziende, né della rigidità complessiva del sistema. Ripeto: un nuovo diritto del lavoro, non soltanto “meccanismi di incentivazione”.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Siamo allo sfascio del mercato del lavoro, l'introduzione della meritocrazia è stato un fallimento, è chiaro che bisogana percorrere altre strade. Intanto unire tutti i lavoratori, perchè tutti i lavori hanno valore e tutti hanno pari dignità. Anzi, nell'era della globalizzazione sono i lavori più umili, e i lavori manuali che sempre meno persone sanno fare che acquistano un valore esponenziale. Quando in una squadra ci sono 10 capi e due operai....c'è qualcosa che non va.
Il mondo senza il lavoro manuale si fermerebbe subito....pensiamoci.

Antonino Leone ha detto...

Il mercato del lavoro non si è adattato ai cambiamenti intervenuti nell'economia e nel lavoro. Nel mondo del lavoro occorre pari dignità e pari diritti senza distinzioni. La valorizzazione delle competenze e delle capacità non sempre viene valorizzata dipende dal tipo di organizzazione. Il lavoro manuale come lo definisci tu è ricco di conoscenze tacite che conoscono sono le persone che lo praticano. Nelle squadre occorre lavorare in modo diversoe senza gerarchia per gli obiettivi assegnati. L'esempio che citi e che viene appllicato è sbagliato tanti capi e pochi operari ..... cosi aumentano i costi e le persone hanno poca soddisfazione.