giovedì 14 ottobre 2010

Regole per superare la crisi

Articolo di Abravanel Roger e D' Agnese Luca pubblicato su Corriere della Sera del 12 ottobre 2010
Perché Regole? Perché due consulenti e manager d'azienda hanno deciso di occuparsi di un tema che, all' apparenza, riguarda prima di tutto la politica, l' educazione civica e la giurisprudenza, e molto meno l' attività delle imprese? Per una ragione molto semplice: solo le regole permettono a una società di organizzarsi meglio e l' organizzazione è un elemento essenziale per lo sviluppo sia delle società sia delle aziende. Il nostro saggio affronta nei primi due capitoli il problema dello sviluppo economico delle società e delle regole che le governano. Vogliamo rovesciare l' ottica con cui in Italia si guarda alle regole: in genere riteniamo che le regole siano un freno. Costituiscono un limite (malvisto) alla nostra libertà o un limite (benvisto) alla prepotenza e alla furbizia degli altri. Invece le regole possono costituire un formidabile motore per lo sviluppo, perché le regole condizionano i comportamenti degli individui, e le regole giuste li spingono a lavorare insieme efficacemente in una società ben organizzata.  Da quasi mille anni le regole giuste favoriscono gli investimenti e l' innovazione in attività che creano ricchezza. Permettono a un agricoltore, i cui diritti di proprietà sulla terra sono garantiti dalle regole, di indebitarsi per acquistare i macchinari che aumentano la produttività. Permettono alle aziende farmaceutiche di creare farmaci che allungano e migliorano la nostra vita perché il loro investimento in ricerca e innovazione è reso remunerativo dalla protezione dei brevetti. Nel corso degli ultimi cinquant' anni il numero e la complessità delle regole sono molto aumentati. È un cambiamento inevitabile, causato dal passaggio a un altro paradigma economico: siamo passati da una società industriale a una società di servizi, una galassia di attività estremamente variegata, che va dal commercio alle professioni, dalle costruzioni agli ospedali, dalla finanza al turismo. I servizi sono spesso trascurati da economisti e politici: l' industria manifatturiera è un' attività economica molto più «visibile», che si concentra in grandi siti industriali, i suoi prodotti si possono vedere e toccare. In realtà nelle economie di tutti i Paesi avanzati le attività industriali hanno un peso da tre a cinque volte inferiore a quello dei servizi e crescono meno in tutto il mondo. Quando nei servizi mancano le regole giuste, il rallentamento economico è garantito: lo stiamo vedendo tutti, mentre subiamo da mesi una crisi causata dalle cattive regole della finanza mondiale. Il problema delle regole è una delle cause principali del ristagno economico del nostro Paese, che impedisce lo sviluppo di una moderna economia di servizi. Se l' Italia avesse nel settore dei servizi gli stessi occupati (in rapporto alla popolazione) della media europea, avremmo tre milioni di posti di lavoro in più. Il nostro settore manifatturiero, relativamente più sviluppato, ce ne fa recuperare solo mezzo milione. Il nostro sistema di regole favorisce le piccole imprese. Basta un esempio: l' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica solo alle imprese con più di 15 dipendenti, e dunque incentiva le imprese a restare piccole, e magari nel «sommerso», che nei servizi incide molto di più (il 20 per cento contro il 12 dell' industria). Le imprese del «sommerso» crescono poco, non attirano investimenti e sono poco produttive. I guadagni che ottengono da un lato (per esempio non pagando le tasse) spesso li perdono sul fronte dell' efficienza e della competitività. Senza trascurare i pesantissimi costi per la società nel suo complesso, perché le tasse che vengono evase dal sommerso sono pagate dalle attività in regola, sotto forma di imposte più elevate: in Italia si tassano le imprese più efficienti e produttive per sussidiare quelle del sommerso che sono meno competitive e fanno loro concorrenza sleale. Il primo degli slogan di Regole è dunque «piccolo è brutto anzi bruttissimo»: le piccole imprese che sopravvivono perché non rispettano le regole creano danni enormi a tutte quelle (piccole e grandi) che le regole le rispettano e tentano di competere grazie all' innovazione. Gli imprenditori che a gran voce chiedono allo Stato di ridurre il peso del fisco non capiscono che devono invece prendersela con quelli di loro che il fisco lo evadono da anni. Le cause di questa incapacità italiana di darsi le regole giuste e di rispettarle vanno purtroppo ben oltre i limiti della politica. La storia ci insegna che le società che sanno trovare le regole giuste non lo fanno grazie alle geniali intuizioni di qualche «inventore di regole», ma attraverso un processo evolutivo che procede per tentativi ed errori: alla fine le regole giuste emergono perché anche quelle sbagliate vengono rispettate e tutti partecipano poi a migliorarle. Ma purtroppo in Italia il «circolo virtuoso delle regole» diventa un «circolo vizioso»: le regole percepite come oppressive non vengono rispettate da moltissimi italiani, e questo da un lato genera una serie di condoni e sanatorie, dall' altro regole ancora più assurde, che giustificano le violazioni di massa. La difficoltà di perseguire milioni di imprese e individui porta al disinteresse per le regole e il circolo vizioso ricomincia. I «circoli virtuosi delle regole» non nascono solo grazie alla politica, ma poggiano su quattro «pilastri» importanti: l' educazione civica dei cittadini, una giustizia civile veloce, media indipendenti e regolatori autorevoli. In Italia questi pilastri delle regole sono traballanti. L' educazione dei cittadini è probabilmente il problema più grave, e forse il meno riconosciuto. Le capacità degli italiani adulti di comunicare e operare in contesti strutturati tipici della società post-industriale sono, ahinoi, molto scarse, da Paese del Terzo Mondo. La nostra scolarità è bassa (pochi laureati) e oltretutto quello che impariamo a scuola è spesso distante dalle competenze che ci potrebbero rendere protagonisti efficienti nell' economia del XXI secolo e cittadini consapevoli: sono quelle che l' Ocse definisce le «competenze della vita», valutando che quattro italiani su cinque sono «analfabeti». Una giustizia (soprattutto civile) tra le più lente del mondo e un sistema di mezzi di informazione asfittico e poco indipendente contribuiscono a deprimere la richiesta di regole giuste da parte della nostra società. Ma come possiamo spezzare questo «circolo vizioso»? La società italiana è riuscita, in aree purtroppo limitate, a far funzionare le regole: abbiamo individuato alcuni esempi, che illustriamo nel capitolo «I semi delle regole» e che ci hanno portato a formulare cinque proposte. Due puntano a creare «circoli virtuosi» nei servizi, e in particolare nei servizi pubblici locali e nel turismo. Le altre tre sono invece finalizzate a rafforzare i «pilastri» delle regole che traballano, innescando un processo di cambiamento nei settori della giustizia civile, della scuola e dell' informazione. L' idea di fondo di queste proposte è che per far funzionare le regole in Italia l' etica non basta: occorre dimostrare che seguire le regole conviene. Finché noi italiani non ne saremo convinti, troveremo sempre una buona ragione per non rispettarle: perché sono ingiuste, perché il nostro vicino non le rispetta, perché prima o poi arriva un condono... Queste motivazioni sono purtroppo giustificate da un punto di vista egoistico, se la società attorno a noi non rispetta le regole e non premia adeguatamente chi lo fa. Per spezzare il «circolo vizioso» è quindi essenziale creare delle «isole» in cui ci sono le regole giuste e coinvolgere un numero sufficiente di cittadini e imprese attivamente impegnato nel rispettarle e farle rispettare. Così si può raggiungere quello che abbiamo definito, con un termine preso a prestito, come tipping point, il punto di svolta: il punto in cui i cittadini si convincono che rispettare le regole può essere davvero un buon affare.

Nessun commento: