lunedì 22 novembre 2010

David Cameron convoca Richard Florida

Editoriale di Irene Tinagli, pubblicato su la Stampa del 20 novembre 2010
“David Cameron sorprende ancora con la scelta del nuovo «guru» che lo aiuti a mettere a punto una nuova visione della società e dell’Inghilterra. Cameron ha infatti convocato Richard Florida, professore all’Università di Toronto, uno dei nomi più noti in materia di innovazione, creatività e sviluppo regionale. Per chi conosce il lavoro di Florida la sorpresa è più che comprensibile: la sua fama infatti è legata alle sue idee sulle società creative, multiculturali, aperte alle diversità di religione, cultura, orientamento sessuale e anche alle sue battaglie spesso in controtendenza. All’indomani dell’11 Settembre 2001, quando il governo Usa irrigidiva i requisiti per entrare nel Paese, Florida chiedeva di aprire di più le frontiere per studenti e lavoratori. Quando Bush lanciò la campagna per stimolare l’acquisto della casa da parte degli americani, Florida replicò che il possesso della casa inchioda le persone, limita la mobilità e la crescita economica e non va incentivato.
Qui il resto del postPer non parlare poi delle sue battaglie sull’importanza di investire in cultura e arte, in rinnovamento urbano, in diversità, immigrazione, diritti civili, e altre cose invise a molti economisti e politici più tradizionali. Perché dunque il primo ministro inglese Cameron ha deciso di convocare un personaggio così controverso e potenzialmente in conflitto con il suo elettorato? Perché, come ha scritto il ministro della Cultura inglese Jeremy Hunt in un articolo sul Times, «Florida descrive la vita com’è adesso, non com’era un tempo», e Cameron ha capito che se vuole davvero sviluppare la sua idea della Big Society in modo innovativo e accattivante deve innanzitutto essere capace di capirla questa grande società, di intravedere le forme che prende, i desideri che ha, i modi in cui può essere guidata, motivata, incoraggiata. E per fare questo deve mettere da parte ideologie o vecchi armamentari politici e confrontarsi con accademici, analisti, opinionisti internazionali, persone abituate a vedere e analizzare il mondo con una visione più ampia di quella del funzionario di partito o del proprio centro studi.
Questa sete di idee, di confronto, di elaborazioni intellettuali da tradurre poi in nuove proposte politiche è ciò che in passato ha caratterizzato molti leader di successo. L’idea di New Labor che cavalcò Tony Blair, per esempio, fu il frutto di un confronto profondo con intellettuali del calibro di Anthony Giddens, uno dei sociologi più noti del mondo. Così come la nuova idea di sogno americano lanciata da Obama nel 2008 (yes we can!) nacque da una serie di ricerche, analisi sulla mobilità sociale negli Stati Uniti, sui problemi emergenti della società americana. Ecco, questo è il potere delle idee, delle analisi genuine, e questa è la forza della politica quando è capace di far leva sulle migliori menti e valutazioni per capire i cambiamenti in atto e scommettere su qualcosa di nuovo, senza cavalcare paure contingenti, ideologie o nostalgie del passato, ma cercando di costruire il futuro, anche col rischio di fare errori. Purtroppo questo coraggio e questa energia è ciò che manca alla politica italiana. Una politica che anziché andare a caccia di intellettuali, analisti e opinionisti che possano offrire nuove interpretazioni ed elaborazioni, li teme e li evita; e che, pur sbandierando spesso la necessità di nuove idee, finisce poi per propinarci solo quelle più vecchie e rassicuranti, legate all’immagine dell’Italia gloriosa del passato, ma incapaci di delineare quella che potrebbe essere in futuro.
Una politica che, per esempio, continua a fare retorica sulla nostra manifattura e su un’immagine del «Made in Italy» da dopoguerra, ignorando i dati che ci mostrano come in Italia ormai solo il 27% del valore aggiunto deriva dall’industria, un dato che ci avvicina a Paesi che noi consideriamo de-industrializzati da tempo come la Gran Bretagna (23,6%), così come ha lucidamente descritto in questo stesso giornale l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. E una politica che continua a incitare i giovani ad accettare lavori più umili, ignorando i dati dell’Ocse secondo cui l’Italia ha già uno dei tassi di «sottoimpiego» maggiori d’Europa e che quindi la nostra sfida non sarà abbassare le ambizioni dei ragazzi, ma alzare il livello delle opportunità. Ma ormai persino i dati vengono negati e delegittimati per paura di misurarsi con problemi nuovi e difficili. Questa paura e questa chiusura non fanno che allontanare la politica dalla realtà, dalla gente, impoveriscono il dibattito pubblico e la possibilità di un riscatto.
Certo, i dati e le analisi offrono solo spunti, idee, fotografie di una realtà in evoluzione, possono essere incompleti, richiedono interpretazioni, formulazione di ipotesi sul futuro e anche l’assunzione di rischi e possibili fallimenti. Tuttavia, finché mancherà questo coraggio, finché chi osa guardare oltre la siepe e immaginare un futuro diverso sarà temuto e marginalizzato, la politica non potrà mai rinnovarsi del tutto, emozionare, né tanto meno aiutare questo Paese a rialzarsi”.

La politica intesa in senso stretto, senza competenze e creatività, non è sufficiente per costruire il futuro ed affrontare i nuovi problemi della società. Condivido l'articolo di Irene e prendo atto positivamente della decisione di Cameron. In Italia purtroppo la politica è legata a vecchi paradigmi che non aiutano a capire il presente ed a costruire una visione per il futuro.

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