venerdì 28 gennaio 2011

I problemi dell'economia? Avanti tutta!

di Emanuele Costa
Dal lontano 1971, nell’incontaminata cittadina svizzera di Davos, le cosiddette menti più illuminate del pianeta si riuniscono annualmente in un think tank per discutere, durante le numerose riunioni di brainstorming, in merito a quelle che possono essere le soluzioni più idonee per risolvere i dilemmi di natura economica. Gli argomenti sul tavolo del World Economic Forum sono molti ed i partecipanti non sono meno. Anche le contraddizioni faranno sentire la loro presenza. Da un lato, l’economia dei “grandi” che arranca ogni giorno, cercando di rimanere aggrappata con le unghie a quei principi e valori cui si ispira il libero mercato e la democrazia di stampo occidentale. Dall’altro, la situazione economica dei “piccoli” che gode di ottima salute, affilando gli artigli per aggredire la crisi internazionale, rincorrendo quelle prospettive di benessere diffuso. L’obiettivo del Forum è quello di approfondire le questioni economiche e sociali con le quali si confronta il mondo. L’anno scorso, si era concluso con una dichiarazione che, alla luce dei risultati raggiunti, può sembrare paradossale: “E’ giunto il momento di ripensare ai valori sui quali il mondo intende ricostruire la prosperità”. Infatti, pur ragionando con il senno di poi, ciò che è stato fatto e le mete traguardate sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso fenomeno della globalizzazione, di cui si parla da oltre un decennio, anziché portare con sé quei benefici indotti dall’apertura dei mercati e degli scambi a 360°, ha, al contrario, esteso l’epidemia dei problemi, il cui contagio si è esteso a macchia d’olio ad una velocità paragonabile ad un battito di ciglia o, per dirla in termini globali, a quella di un click. L’unica certezza è che, al termine dei lavori, tutti saremo impegnati a rincorrere i soliti problemi, perché dal meeting uscirà solo una montagna di parole con la triste constatazione che saranno sempre le stesse. Eppure, intrugli di cervelli ce ne sono: dai gotha della finanza, ai guru dell’economia, per finire con i baroni della politica. Una vetrina internazionale nella quale i manichini da anni indossano gli stessi vestiti. Uno scontro di culture, grazie al quale ognuno ci mette un ingrediente nella speranza di far digerire meglio agli abitanti del pianeta la solita zuppa. Questo è il menù che sarà presentato a conclusione dei lavori. Le medesime questioni condite con una salsa diversa, in modo da far percepire ai comuni mortali la sensazione di dover fronteggiare qualcosa di nuovo. Ma se si osserva attentamente la passerella dei partecipanti, sarà facile accorgersi che il copione recitato sul palcoscenico non è mutato, come i protagonisti chiamati a discutere sui problemi dell’umanità. Riusciranno i nostri eroi a trovare una soluzione? Qualche anno fa, Albert EINSTEIN disse: «Non possiamo pensare di risolvere i problemi con lo stesso modo di pensare che li ha generati».

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Anno nuovo, crisi vecchia

di Emanuele Costa
L’arrivo di un nuovo anno ci ha ormai abituati ad essere consapevoli che l’inesorabile trascorrere del tempo non lascia alcuna speranza. La sua corsa in avanti è un processo inarrestabile che progredisce con costanza, senza mostrare alcun segno di stanchezza. La stessa cosa non si può affermare per la situazione economica che sta attraversando il Paese. Dopo essere stata drogata negli ultimi giorni del mese di dicembre con iniezioni di dosi di eccessivo ottimismo, ha fatto sniffare agli Italiani la sensazione che il futuro sarebbe stato all’insegna di un miglioramento della congiuntura. Invece, dopo aver brindato al 2011, si è lentamente preso coscienza, ancora ubriachi, che la strada da percorrere per uscire dal tunnel della recessione è ancora molta. Anzi, a dire il vero, ci si trova ancora al punto di partenza. In altre parole, ci si è sottoposti inutilmente ad un periodo di terapia intensiva per sentirsi dire che i sacrifici fino a questo momento sopportati non sono assolutamente serviti a nulla. Ci si trova ancora in fase di diagnosi, alla ricerca estenuante di una cura, se esistente, idonea a risolvere i problemi. Qui il resto del post E così, di fronte ad un nuovo anno, si ritrovano le vecchie questioni, che il passare del tempo ha contribuito ad ingigantire e che nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare seriamente. Occorre sviluppare politiche economiche alternative rispetto a quelle messe in campo fino ad oggi, degne di un Paese ricco di risorse, ma incapace di investirle per creare ed alimentare quel circolo virtuoso che contribuisce a migliorare un clima che da tempo sta togliendo fiato alla fiducia collettiva. E’ sempre più necessario dedicare le energie alle reali esigenze del Paese, prima che il virus della speculazione internazionale infetti l’ingente massa di debito pubblico, che grava per circa trentamila euro sulla spalle di ognuno. Non serve sperimentare soluzioni una tantum, perché risolverebbero solamente emergenze momentanee, senza contribuire a far rimarginare le ferite del tessuto economico. E’ giunta l’ora di agire tempestivamente con interventi strutturali sulla spesa pubblica, in grado di stroncare sul nascere il male degli sprechi, estirpandolo alla radice, altrimenti, tra qualche mese, ci si potrebbe sentir dire che è stato nuovamente somministrato un trattamento sbagliato e che ora per stimolare le prospettive economiche non serve altro che un defibrillatore.

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Sylvia Kranz scrive a Pietro Ichino sulla riforma delle PA

Caro Pietro Ichino,
intervengo nella vicenda delle dimissioni dell’Ing. Pietro Micheli e della lettera aperta da lui inviata al Ministro Brunetta.
Parlo da tecnico della pubblica amministrazione locale, con un discreto bagaglio di esperienza, avendo visto il susseguirsi di diverse riforme della Pubblica Amministrazione dal 1990 in qua.
Sono dirigente dell’Ufficio Associato Interprovinciale, che ha sede a Cesena (FC) e che per 55 Comuni di sei province dell’Emilia Romagna, gestisce alcune delle funzioni “core” della Riforma Brunetta: Funzione Disciplinare e contenzioso del lavoro, Relazioni sindacali e Servizio Ispettivo. Pubbliche amministrazioni locali che, credendo nelle potenzialità di “fare rete”, dall’inizio del 2010 stanno lavorando per prepararsi all’avvio della fase applicativa cercando di uniformare Regolamenti, sistemi di valutazione, regole condivise e individuazione degli OIV.
Vorrei esporre alcune considerazioni sulla vicenda delle lettere di Micheli al Ministro, della risposta della residua componente della Civit a Micheli e dell’editoriale di Carlo Mochi Sismondi in risposta ad entrambi, apparsa sul sito di ForumPA.
In occasione di due iniziative organizzate da alcuni dei miei Comuni, ho conosciuto e apprezzato l’approccio del Prof. Micheli, che si è messo a disposizione delle amministrazioni locali per meglio comprendere le nostre realtà gestionali e amministrative per adattare le sue conoscenze e competenze acquisite nell’Audit Commission e nelle pubbliche amministrazioni inglesi alle realtà italiane e poter contribuire a impostare moderni sistemi di valutazione delle performance delle pubbliche amministrazioni. Perché le realtà delle pubbliche amministrazioni italiane sono talmente variegate e complesse che non è possibile immaginare che un unico strumento possa rappresentarle tutte. Ed ha ragione, a mio avviso, il prof. Micheli, quando parla di eccessiva rigidità della Riforma. Non possiamo dimenticare che la Riforma ha subito una metamorfosi imponente nei vari passaggi parlamentari. Inizialmente prevedeva un unico “modello” che soltanto nelle ultime versioni del Decreto ha recepito le istanze della Amministrazioni non Statali. E le modifiche del modello originale, inutile nascondercelo, sono il frutto di un compromesso tra il modello immaginato dal Ministro e le richieste di adattamento avanzate dalle altre Amministrazioni, per non parlare di altri “soggetti” intervenuti a vario titolo nella stesura del testo definitivo. Quel compromesso di modello ha consentito varchi interpretativi nei quali in questi mesi si sono inserite le resistenze di altri soggetti (come alcune Organizzazioni Sindacali ad esempio) cui si sono aggiunte sentenze interpretative della Giustizia lavoristica e Contabile. Abbiamo nel frattempo assistito all’approvazione di due manovre correttive e di un Decreto Collegato Lavoro che, posso affermarlo senza tema di smentite, hanno via via paralizzato in moltissimi casi l’azione degli Uffici del Personale, stretti tra obblighi attuativi e pesanti responsabilità contabili e amministrative. Ciononostante le pubbliche amministrazioni locali hanno continuato a studiare la Riforma e le possibili modalità attuative per approvare nei tempi stabiliti le modifiche ai sistemi di valutazione delle prestazioni già da tempo vigenti. Perché le pa locali hanno da tempo dei sistemi di valutazione delle prestazioni. Più o meno validi, più o meno complessi. Qualche collega fin dal novembre 2009 ebbe occasione di dire che nelle Amministrazioni Locali non eravamo all’anno zero per quanto concerneva i sistemi di valutazione. Abbiamo sempre avuto consapevolezza che erano le Amministrazioni Statali, per lo più, a trovarsi all’anno zero. Anche la funzione disciplinare era esercitata prevalentemente nelle amministrazioni locali più che in quelle Statali. Ma abbiamo accolto con umiltà e attuato anche quella parte della Riforma Brunetta, onestamente per alcuni versi eccessivamente draconiana, come qualunque strumento deve esserlo quando ha il compito di “raddrizzare” le schiene eccessivamente deboli. In un versante la Riforma ha mancato a mio avviso l’obiettivo, mi riferisco all’individuazione degli elementi costitutivi dell’insufficiente rendimento e dell’incompetenza. Ha stabilito sanzioni pesantissime ma ha legato ai nuovi sistemi di valutazione delle prestazioni l’individuazione degli elementi “disciplinarmente rilevanti” dell’insufficiente rendimento. Dal mio osservatorio posso dire che siamo tutti in estrema difficoltà poiché la Riforma, legando al sistema di valutazione della prestazione l’individuazione dei comportamenti rilevanti, comunque derivanti (così pretende la Brunetta) da inosservanza di leggi regolamenti ecc., ha negato in radice il valore della valutazione come strumento di valorizzazione delle competenze, riconducendolo a strumento di repressione. Le amministrazioni sono dunque di fronte ad un bivio. Scegliere di impostare un sistema di valutazione che valorizzi le persone ignorando l’esigenza di costituirlo quale fonte di prova di comportamenti disciplinarmente scorretti. Oppure recepire questa parte della Riforma rassegnandosi a che la valutazione costituisca, o comunque venga visto dai dipendenti, quale strumento per bastonare anziché premiare.
In questo quadro di estrema difficoltà ad operare nel quotidiano, abbiamo nel frattempo registrato il prosciugarsi delle possibilità di introdurre miglioramenti economici fino al 2013 imposto a tutte le amministrazioni indipendentemente dallo stato, magari florido, dei loro bilanci. E da ultimo il sottrarsi di ben tre Ministeri alla Riforma. Si cita la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero delle Finanze tacendo dell’eccezione del Ministero della Pubblica Istruzione e Ricerca, sottratto dallo stesso Decreto Brunetta all’attuazione del sistema di valutazione come stabilito dall’art. 74, comma 4. Vediamo anche nelle delibere approvate dalla Civit in questi mesi e in atti e interpretazioni di una molteplicità di soggetti istituzionali, il lento inesorabile movimento all’affossamento Gattopardesco della Riforma. Trovo che in questo quadro desolante sia inane l’esortazione di Mochi Sismondi nell’ultimo editoriale apparso sul sito di ForumPA al serrare le fila e armarsi per la “guerra”. E’ nei vertici del Governo la volontà di affossare questa Riforma. E’ nel “Sistema” che ha inglobato coloro che dovevano innovare, mi riferisco anche alla Civit, che appare impegnata all’esecuzione degli adempimenti formali e non in grado di attuare gli impegni veramente riformatori di cui era promotore il Prof. Micheli. Chi attuerà la Riforma Brunetta? Uno sparuto drappello di amministrazioni destinate a resistere per propria vocazione, come giapponesi sull’isola deserta, assumendosi grandi responsabilità senza alcun riconoscimento. Il prof. Micheli a mio avviso si è ribellato a questo destino. Avrebbe potuto restare, tacendo le proprie perplessità sullo stato di attuazione della Riforma, continuando a percepire il corposo assegno che i membri della Civit incassano e facendo finta di raccogliere l’acqua con un mestolo forato. Per un reale cambiamento dell’attuale condizione della Pubblica Amministrazione ha fatto più il prof. Micheli con la sua lettera aperta ad un Ministro che non risponde, di quanto non facciano i troppi consulenti ben pagati, quanto spesso scarsamente titolati, che stanno sfruttando la situazione, in attesa della prossima Riforma epocale della Pubblica Amministrazione. Purtroppo registro che la reazione alla sua lettera è il silenzio. Ha scritto una lettera denuncia che avrebbe dovuto provocare una reazione indignata sia nel Ministro che nei giornali, se non fosse fondata su considerazioni cui è difficile ribattere sapendo che ha molte ragioni. L’oblio è la risposta. Una risposta che conferma.
Sylvia Kranz
(Ufficio Associato Interprovinciale prevenzione e risoluzione patologie del rapporto di lavoro – Cesena –FC)

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Donne o bambole?

articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa il 25 Gennaio 2011
Molte donne in questi giorni si stanno interrogando sul loro ruolo nella società italiana, come è accaduto ogni volta che, in questi ultimi anni, qualche scandalo sessuale ha scosso il mondo della politica.
Eppure la questione del ruolo femminile in Italia ha radici più profonde e diffuse di quanto emerga dalle ultime vicende di cronaca e va ben oltre i confini di Arcore o di via Olgettina. Se l'ennesimo scandalo che coinvolge il premier serve a riaprire il dibattito su un tema così importante, va bene, ma se vogliamo davvero cogliere l'occasione per una riflessione approfondita, non possiamo fermarci lì.
Forse val la pena ricordare alcuni dati resi noti pochi giorni fa dall'Istat e passati quasi sotto silenzio: in Italia una donna su due non lavora e non cerca lavoro. Donne semplicemente «inattive». Si tratta di un tasso di inattività che supera quello di tutti gli altri 26 Paesi europei (con l'esclusione di Malta, se questo può consolare).
Specularmente, le donne «attive» sono il 46,3%, un dato che fa vergognare di fronte al 66,2% della Germania, al 60% della Francia, per non parlare del 71,5% dei Paesi Bassi. Perché le donne in Italia non si mettono nemmeno alla prova? Preferiscono veramente altre strade di realizzazione personale (maternità e famiglia, per esempio) o rinunciano a priori perché consapevoli di un Paese in cui i loro sforzi e i loro sacrifici non verranno riconosciuti e non incontreranno gratificazioni né nel settore pubblico né in quello privato?
L'ultimo rapporto del World Economic Forum sulla parità di genere nel mondo del lavoro e delle imprese ci pone al 74° posto, dopo Malawi, Ghana e Tanzania, per fare alcuni esempi. A far scendere il nostro Paese nella classifica è soprattutto la scarsa performance sul fronte delle opportunità di lavoro e di carriera. Una difficoltà legata, secondo i risultati dell'indagine, ad una carenza di servizi di supporto (come gli asili), ma anche alla mancanza di modelli femminili di riferimento e ad un clima generale molto maschilista. E dove potrebbero trovare questi modelli le donne italiane? Tranne alcune recenti eccezioni che iniziano a farsi strada in importanti istituzioni di rappresentanza (Marcegaglia e Camusso), il mondo politico non offre certo grandi esempi. Nonostante il governo possa contare sulla presenza di alcune donne, è indiscutibile che i ruoli chiave della politica italiana restano saldamente in mano a uomini, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. La lotta di successione in entrambe le coalizioni ha sempre visto e continua a vedere uomini come protagonisti. Nel centrodestra si sono via via fronteggiati Fini, Bossi, Tremonti, con saltuarie incursioni di Sacconi e Brunetta; al centro Casini, Rutelli raggiunti ora da Fini; identica cosa nel centrosinistra: Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Vendola. Neppure tra i nomi dei giovani emergenti troviamo delle donne. In pole position ci sono Renzi e Zingaretti.
Dove sono le donne? Nel centrodestra sono a far quadrato attorno al premier. Nel centrosinistra hanno appena dato avvio ad una campagna di protesta dal titolo «non siamo bambole». Una polemica che, all'indomani del Lingotto 2, in cui gli invitati a parlare erano esclusivamente uomini, poteva sembrare diretta agli stessi leader del centrosinistra, ma che risulta invece diretta al premier. Ma cosa cambierà davvero per le donne italiane una volta che questo presidente del Consiglio non calcherà più, per motivi legali, politici o semplicemente biologici, la scena politica? A quali leadership innovative ed illuminate potranno guardare le donne per cercare supporto, identificazione, attenzione, rispetto e, soprattutto, opportunità di crescita per loro stesse e per il Paese? A guardare bene viene anche da chiedersi se le donne stesse siano pronte. Pronte non solo e non tanto a dichiararsi «esseri pensanti» invece di bambole, come facevano le suffragette di un secolo fa, ma pronte ad assumersi vere responsabilità di leadership. E soprattutto pronte a smarcarsi dall'ala protettrice dei loro mentori, a uscire dall'ombra, a sentirsi responsabili e artefici del loro successo e non eternamente grate a chi ha dato loro una opportunità come se non fosse meritata. Come se la gratitudine la si dimostrasse con la sottomissione e non con l'assunzione della piena responsabilità del proprio ruolo ed il semplice svolgimento del proprio lavoro. Ma qua si entra in un terreno che travalica la mera questione femminile e che chiama in causa un cambiamento culturale che non riguarda solo le donne, ma un Paese intero.

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mercoledì 26 gennaio 2011

Antonino Leone. Fiat, quali prospettive?


Stralcio dell'intervento di Antonino Leone.

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Roberto Fasoli. Fiat, quali prospettive?


Stralcio dell'intervento di Roberto Fasoli, consigliere regionale del Partito Democratico.

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Fiat, quali prospettive dopo il referendum?

Il circolo della terza circoscrizione di Verona “Enzo Biagi” ha avuto il merito di organizzare un incontro di grande attualità ed importanza per il paese: Fiat. Dopo il referendum quali prospettive?
L’incontro si è posto l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini alle problematiche del lavoro e di avviare un confronto su argomenti che molto spesso dividono anziché unire in una prospettiva comune.
Ha introdotto i lavori Federico Benini, segretario del circolo, che ha illustrato con puntualità le condizioni della Fiat in Italia ed in Europa ed i contenuti dell’accordo di Mirafiori.
Nonostante le luci e le ombre che si presentano nell’affrontare l’argomento in questione, l’incontro è proseguito tra l’interesse dei partecipanti e l’impegno di costruire una strada comune che possa contribuire a superare le diffidenze, le divisioni ed i conflitti legati alle diverse posizioni assunte dalle organizzazioni sindacali nel referendum per contribuire a migliorare il sistema Italia.
Le domande poste da Antonino Leone a Roberto Fasoli, consigliere regionale del Partito Democratico, nell’intervista hanno riguardato diversi temi a partire da una breve analisi della situazione economica a livello internazionale e nazionale:
- La mancanza di regole chiare circa il rapporto tra il contratto collettivo nazionale ed il contratto aziendale;
- L’inefficacia della clausola di tregua;
- Il diritto di veto che può essere esercitato dall’organizzazione minoritaria che non ha firmato il contratto;
- La esclusione dalla rappresentanza aziendale dell’organizzazione sindacale che non ha firmato il contratto;
- La partecipazione dei lavoratori nell’impresa e le regole sulla rappresentanza.
A tutti questi argomenti ed a quelli che hanno posto gli intervenuti ha risposto Roberto Fasoli, consigliere regionale del PD Veneto, il quale si è mosso con spirito di responsabilità nell’unico interesse di proporre una strategia comune per gestire il dopo referendum nell’interesse dei lavoratori e dell’impresa. Fasoli ha criticato alcune prese di posizioni che hanno acuito il conflitto e la posizione di Marchionne che non ha costruito il consenso necessario intorno alla sua proposta. Infatti, il consenso a Marchionne è basso da parte dei lavoratori a prescindere dalle posizioni assunte nel referendum.
“ Ritengo necessario- ha concluso Fasoli- che si sviluppi un’ampia, seria e approfondita discussione sui temi aperti dalla vicenda Fiat perché riguardano direttamente il futuro delle relazioni industriali e sindacali nel nostro Paese. Il PD deve essere e svolgere un ruolo da protagonista nel promuovere un confronto serrato con le organizzazioni sindacali per ricostruire un tessuto unitario oggi lacerato. Deve inoltre costruire un rapporto solido con il mondo del lavoro dipendente, e del lavoro manifatturiero in particolare, che non può essere lasciato in una condizione che Marco Revelli ha definito come “inedita solitudine del mondo del lavoro”. Se vogliamo rappresentare il lavoro dobbiamo ascoltare e comprendere le ragioni di questi lavoratori e saper proporre ad essi una prospettiva credibile in termini di sicurezza del lavoro, dignità, riconoscimento anche economico della professionalità. Devono sentire che il PD è al loro fianco. Sui temi del lavoro l’azione del PD dovrà quindi essere più concreta e continua ed è bene che i nostri circoli prevedano momenti di riflessione attorno ad un tema che è la condizione dell’autonomia e della libertà della persone”.
Gli intervenuti hanno ribadito la necessità di rappresentare in altri incontri nella Provincia gli argomenti trattati. Fasoli e Leone hanno espresso la loro disponibilità per altri eventi che avvicinino il PD alle persone ed a coloro che vivono sulla propria pelle i problemi del lavoro.

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lunedì 24 gennaio 2011

Pietro Ichino interroga Renato Brunetta sulla riforma PA

I contenuti della lettera di dimissioni di Pietro Micheli dalla CiVIT e la risposta insufficiente dei membri della commissione vengono valutati da Pietro Ichino, il quale decide di presentare una interrogazione al Ministro per la Funzione pubblica.
Interrogazione presentata al ministro per la Funzione pubblica il 25 gennaio 2011 del senatore Pietro Ichino al ministro per la Funzione pubblica
Premesso che:
con lettera aperta inviata al ministro della Funzione pubblica il 14 gennaio 2011, parzialmente pubblicata sul quotidiano la Repubblica il giorno successivo, il professor Pietro Micheli ha comunicato le proprie dimissioni da componente della Commissione indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT); in tale lettera sono indicate criticità e fattori di blocco che impediscono alla Commissione di perseguire la missione istituzionale per la quale essa è stata istituita, sia in ragione delle lacune nella conduzione dello stesso organismo, sia per ragioni di contesto riconducibili a scelte compiute dal Governo.  In particolare nella lettera sono evidenziati come fattori cruciali: il peso eccessivo dato alla valutazione individuale rispetto alla valutazione della performance delle strutture amministrative; la rigidità del ranking nelle valutazioni individuali (il 25-50-25) che sta determinando la fuga dei dicasteri più importanti dal campo di applicazione del d.lgs. n. 150/2009 (Presidenza del Consiglio dei ministri, ministero dell’Economia); l’assenza di fondi per i meritevoli; i limiti dei poteri della Commissione e le ingerenze del Governo nelle scelte puntuali connesse alla sua azione, che ne determinano un difetto grave di indipendenza;
si chiede
- come intenda il Ministro Brunetta porre rimedio al paradosso di una riforma progettata sul principio cardine della valutazione e tuttavia bloccata nei suoi possibili effetti a seguito delle misure riguardanti il personale delle pubbliche amministrazioni contenute nel decreto-legge n. 78/2010;
- se il Ministro non intenda intervenire sulla disciplina del decreto legislativo n. 150/2009 per promuovere migliori forme di valutazione delle strutture amministrative o di unità organizzative complesse di singole amministrazioni, basate sulla misurazione della rispettiva performance, in modo da superare, per queste ultime, il vincolo rigido nell’attribuzione delle valutazioni individuali (il 25-50-25);
- se non intenda il Governo sostituire la logica dei tagli lineari alle amministrazioni con un più maturo sistema basato sulla misurazione della performance delle amministrazioni, per evitare di ridurre gli stanziamenti a quelle più efficienti, alla stregua di quanto si propone nel disegno di federalismo fiscale nei confronti delle amministrazioni territoriali, e che tuttavia non si è ancora applicato in quelle centrali;
- per quali ragioni la Presidenza del Consiglio dei ministri e recentemente anche il ministero dell’Economia e delle Finanze non debbano sottoporsi al medesimo regime di trasparenza e valutazione delle altre amministrazioni centrali;
- se il ministro non ritenga che la suddetta esclusione leda gravemente la credibilità del sistema e incentivi altre amministrazioni a sottrarsi dal modello di valutazione proposto, con il paradosso che mentre la normativa previgente (il d.lgs 286/1999) si applicava indistintamente a ciascuna amministrazione, la più recente riforma si ferma davanti alle amministrazioni più rilevanti;
- come intenda il ministro assicurare che non si ripetano le gravi disfunzioni denunciate nella lettera del professor Pietro Micheli.

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sabato 22 gennaio 2011

Federico Testa, nomine authority per l’energia

Il Consiglio dei ministri ha designato Guido Bortoni presidente dell’Autorità per l’energia, attuale responsabile del dipartimento energia al ministero dello sviluppo economico, ed i nuovi consiglieri nelle persone di Valeria Termini, Luigi Carbone, Alberto Biancardi e Rocco Colicchio. In definitiva ad eccezione di Colicchio tutte le altre nomine sono state confermate.
Adesso occorre il placet dalle commissioni Industria e Attività produttive di Camera e Senato, che con un voto a maggioranza di due terzi dovranno dare rapidamente il via libera definitivo.
Il PD, con una nota ufficiale, garantisce sostegno e quindi il voto positivo nel dibattito in commissione previsto la prossima settimana «per evitare il collasso istituzionale e per assicurare al sistema e agli operatori un quadro di certezze e regole indispensabili».
Ad esprimere giudizi negativi sulle proposte di nomina sono il parlamentare Federico Testa ed il senatore Enrico Morando del PD.
"L'Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas svolge un ruolo fondamentale per garantire la concorrenza nel mercato e tutelare i consumatori che, nel settore energetico, si trovano a dover fronteggiare autentici colossi economici, dotati di un forte potere di condizionamento. Per questo è importante", afferma Federico Testa, che su questa questione lo scorso dicembre ha rassegnato le dimissioni da responsabile nazionale dell'energia del PD " che l'Autorità sia autorevole e indipendente, e che i commissari debbano avere le competenze e la reputazione per non prestarsi, neppure inconsapevolmente, a operazioni gradite ai loro referenti politici ma dannose per il mercato ed i consumatori". Le nomine di oggi, conclude Testa, -senza voler dare giudizi sulle qualità più generali delle persone- non corrispondono a queste caratteristiche: basti pensare che la maggioranza dei componenti designati non è nota nel settore per possedere specifiche competenze in materia energetica"."Si tratta quindi" conclude Testa "di un accordo che privilegia gli assetti di potere e le logiche di appartenenza rispetto all'autorevolezza e alla competenza in materia di energia, prefigurando un grave danno all'Istituzione stessa dell'Authority".
“In quelle cariche, afferma Enrico Morando, occorrono straordinarie competenze tecniche e capacità di influenza sul sistema politico e dei media e le nomine proposte dal governo, al di là delle qualità dei singoli, non sembrano meritare affatto un giudizio positivo”.
La fretta e le scadenze non devono rappresentare per il governo ed il PD la giustificazione per nomine non all’altezza della situazione. Il PD ha, infatti, confermato Alberto Biancardi e Valeria Termini riproponendo gli stessi problemi che si erano presentati nel mese di novembre.

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venerdì 21 gennaio 2011

CiVIT, risposta debole a Pietro Micheli

La replica dei membri della Commissione alla lettera di dimissioni di Pietro Micheli è parziale, non tiene conto del tempo che viviamo, della urgenza e necessità di realizzare il cambiamento delle PA. Un’occasione mancata per riflettere sulle questioni poste da Pietro Micheli.
I membri della Commissione dichiarano che “l’introduzione e il pieno funzionamento di questi meccanismi di valutazione e trasparenza, come chi ha studiato e lavorato all’estero ben sa, richiedono molti anni”.
Oggi nel terzo millennio la velocità con cui avvengono i cambiamenti è un fattore molto importante di cui la Commissione deve tener conto, altrimenti si corre il rischio di inseguire il cambiamento senza realizzarlo.
Le disposizioni del D. Lgs. n. 150/2009 e la commissione con proprie delibere hanno stabilito delle scadenze (l'ultima scadenza è stata il 31/12/2010) entro le quali occorreva introdurre nelle PA gli strumenti manageriali previsti dal decreto e adeguare l’ordinamento delle Regioni e degli enti locali ai principi del decreto stesso.
I membri della Commissione affermano che occorre “pazienza” e “lavoro quotidiano”.  Essi dimenticano che la validità e l’efficacia di un riforma dipende dalla velocità con cui essa viene realizzata, cioè dal tempo che intercorre tra la data della sua approvazione e quella della sua implementazione. La qualità è alta se i tempi di realizzazione sono brevi e bassa nel caso in cui i tempi sono lunghi. In questo ultimo caso spesso non conviene più attuare la riforma in quanto è superata dalle nuove condizioni e dai cambiamenti che sono intervenuti nel pianeta e nel paese. Pertanto, non bisogna correre questo rischio ed occorre velocizzare i tempi di attuazione della riforma delle PA.
Per quanto riguarda il lavoro quotidiano faccio riferimento all’attività degli operatori pubblici, i quali in diversi casi lavorano senza produrre valore per i cittadini se non sono guidati dal management e dagli obiettivi da conseguire con il proprio lavoro. E’ una forma di lavoro inconcludente che crea sprechi e diseconomie. Di conseguenza il lavoro quotidiano della Commissione va certamente bene se è guidato dall’obiettivo dell’attuazione veloce del cambiamento delle PA.
Occorre ricordare che la commissione ha stipulato con l’Anci e l’Upi un protocollo d’intesa rispettivamente il 16 settembre ed il 30 giugno del 2010 con notevole ritardo rispetto all’approvazione del D. Lgs n. 27 ottobre, n. 150. L’Anci ha promosso il progetto “Performance e Merito” ed ha emanato linee guida per i comuni e l’Upi ha inviato delle note applicative il 13 maggio del 2010, chiedendo notizie sull’attuazione della riforma alle Province. Non è stata stipulata alcuna intesa tra la Commissione e la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e solo il 14 dicembre 2010 si è insediato il tavolo tecnico tra la Commissione e l’Upi. I ritardi nell’espletamento dei protocolli pesano in modo enorme sull’adeguamento dei comuni, province, regioni e amministrazioni del servizio sanitario nazionale ai principi del decreto.
I pochi dati disponibili sull’attuazione della riforma nelle PA, che si indicano di seguito, non consentono una valutazione completa e puntuale sull’evoluzione della riforma e nello stesso tempo non lasciano intravedere dei buoni risultati:
- Anci. Fino al 30 agosto 2010 solo 586 comuni su 8100 hanno aderito al progetto Performance e Merito. Questo dato indica lo scarso coinvolgimento degli enti locali a causa del sistema adottato dal decreto e dei ritardi registrati nella sua attuazione;
- CiVIT. L’Organismo indipendente di valutazione è stato costituito in 80 amministrazioni (tutti i 13 ministeri e 67 su 78 enti pubblici nazionali). I documenti sui sistemi di misurazione e valutazione della performance trasmessi dalle amministrazioni alla CiVIT sono 65 (13 ministeri, 38 enti pubblici nazionali e 14 enti territoriali). Al momento non risultano delibere della CiVIT con parere favorevole su tali documenti. Per quanto riguarda il piano della performance ed il programma per la trasparenza e l’integrità non risulta che siano stati presentati dalle amministrazioni ed esaminati e deliberati dalla Commissione.
La trasparenza della CiVIT sull’andamento dell’attuazione della riforma lascia molto a desiderare. La CiVIT poteva facilmente realizzare nel proprio sito un link aggiornato in tempo reale con i dati statistici relativi all’andamento della riforma. E’ un paradosso che la Commissione per la trasparenza non sia trasparente.
La CiVIT è un organo e non un’authority e, pertanto, non possiede l’autonomia e l’indipendenza di quest’ultima. Infatti, il comma 11 dell’art. 13 evidenzia in modo chiaro la relativa autonomia della Commissione, stabilendo che “con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabilite le modalità di organizzazione, le norme regolatrici dell’autonoma gestione finanziaria della Commissione e fissati i compensi per i componenti”. Inoltre, la commissione non ha poteri sanzionatori ed ispettivi nei confronti delle PA che non si adeguano alle disposizioni del decreto.
A tal proposito si ricorda l’interrogazione del senatore Pietro Ichino del Partito Democratico, presentata il 12 maggio 2010, finalizzata a sollecitare l’emanazione dei decreti necessari per il funzionamento della Commissione.
L’indipendenza viene stabilita dalle leggi e conseguita dalle persone. Nel caso della CiVIT la sua autonomia ed indipendenza, stabilita dal comma 1 dell’art. 13 del decreto, dipende dai comportamenti del Ministro e dei membri della Commissione.
Pietro Micheli afferma, senza alcuna risposta, “come può esserci indipendenza quando il Governo si riserva ogni potere di determinare nomine, compensi e ambiti di operatività della Commissione stessa, e per di più opera quotidianamente trattando la CiVIT come parte del proprio staff? E lo stesso interrogativo vale per gli Organi Indipendenti di Valutazione recentemente costituiti presso molte amministrazioni”.
“La Commissione, dichiara Pietro Ichino in una sua interrogazione, non ha brillato per trasparenza e devozione all’interesse pubblico nei primi atti di impiego delle proprie risorse”. 
Occorre ricordare un’altra interrogazione del senatore Pietro Ichino riguardante l’assegnazione di consulenze da parte del Ministro Renato Brunetta a Michel Martone, figlio del Presidente della CiVIT, mettendo in discussione l’indipendenza della CiVIT.
Un altro problema è rappresentato dal sistema rigido di incentivazione, previsto dall’art. 19 del decreto, il quale stabilisce ex ante che il 25% del personale collocato nella fascia di merito bassa è composto da fannulloni e, pertanto, non ha diritto al salario accessorio. Tale sistema non tiene conto che nelle organizzazioni innovative si opera per gruppi di lavoro e per progetti e di conseguenza non può essere effettuata una distinzione tra gli operatori nel caso in cui vengono conseguiti gli obiettivi assegnati. Inoltre, il sistema incentivante non fa distinzione tra le strutture pubbliche che conseguono gli obiettivi programmati e quelle che non li realizzano.
“Performance e valutazione, afferma Pietro Micheli, sono le parole chiavi della riforma; ma in nessuna organizzazione la valutazione individuale può dare buoni frutti se non c’è una buona gestione organizzativa”.
Condivido quanto scritto nel suo sito il senatore Pietro Ichino: “La CiVIT avrebbe dovuto dimostrare da subito di rivestire un ruolo strategico nella strategia di cambiamento del settore pubblico, con risultati anche mirati, ma esemplari e a forte significato di esempio. Questo è invece mancato del tutto, lasciando il campo – come la risposta spiega – alle (sole) “oltre cento delibere. Il cambiamento misurato in delibere, mentre fuori della CiVIT nessuno avverte il beneficio derivante dalla sua esistenza! Questo è purtroppo, ad oggi, il poverissimo bilancio di un anno di esperienza". Infatti il bilancio di un anno di lavoro della Commissione è scarso ed il lavoro della Commissione non è stato coinvolgente per le PA con il rischio che il modello organizzativo e una nuova cultura d'impresa da introdurre nelle PA rischiano di essere interpretati come adempimenti, offuscando il grande cambiamento che doveva essere realizzato con l'integrazione e la condivisione di tutti gli attori.
Occorre infine ricordare il comunicato dei senatori del PD della commissione Lavoro e la richiesta di dimissioni di A. Martone da presidente della CiVIT, presentata dall’on. Oriano Giovannelli del PD, per le notizie apparse sulla stampa in merito alla P3 ed all’eolico in Sardegna.
Risposta dei membri della CiVIT

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Riforma PA nei comuni scaligeri

Nota del Segretario Provinciale del Partito Democratico di Verona Vincenzo D'Arienzo sui ritardi nell'attuazione della riforma delle PA nella provincia di Verona
La riforma delle pubbliche amministrazioni, tanto sbandierata dal centrodestra, si è fermata al tornello per i dipendenti pubblici. La parte che riguarda gli enti locali giace praticamente inapplicata. Basti dire che a Verona solo 5 Comuni su 98 (Verona, Lazise, San Giovanni Lupatoto, Bussolengo e Cazzano di Tramigna) hanno aderito al progetto di sperimentazione “Performance e Merito” promosso dall'Anci, l'associazione dei Comuni italiani, per tutti gli altri è buio pesto!
L’inefficienza della Pubblica Amministrazione incide sulla competitività del Paese e sulla qualità della vita dei cittadini, acuendo problemi come: tempi lunghi per l’erogazione dei servizi, ritardi nei pagamenti alle imprese, burocratizzazione delle richieste, alti costi. La trasparenza, la valutazione e l’introduzione di specifici strumenti manageriali offrono invece la possibilità di superare le difficoltà.
Entro il 31 dicembre 2010 i Comuni avrebbero dovuto introdurre questi cambiamenti. Chi non ha rispettato la scadenza non può erogare i premi legati al merito e alla performance dei propri dipendenti né avvalersi dell’autonomia fino all’emanazione della disciplina comunale.
Alcuni Comuni hanno soltanto approvato i criteri generali per l’adeguamento del regolamento degli uffici e dei servizi e procedendo con delibere di Giunta anziché attraverso il previsto confronto in Consiglio Comunale, ma non hanno aggiornato il regolamento comunale. Ma il solo adeguamento ai principi del D. Lgs. n. 150/2009 non è sufficiente ad attuare la riforma. Infatti, occorre: adottare un sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale; attuare la gestione del ciclo della performance; introdurre standard di qualità dei servizi pubblici; costituire l’Organismo indipendente di valutazione (è possibile istituirlo anche in forma associata per i comuni di ridotte dimensioni); realizzare un sistema di premi legati al merito ed alla performance; raccordare il piano della performance con gli strumenti di pianificazione e programmazione economico finanziaria.
L’immediata attuazione della norma garantisce trasparenza che consente ai cittadini di conoscere la qualità dei servizi, l'accessibilità totale alle informazioni, l'integrità per combattere il fenomeno della corruzione, l'esercizio delle forme di controllo e di confronto anche serrato con le Pubbliche Amministrazioni per il miglioramento dei servizi.
Disimpegnarsi sulla riforma significa negare ai veronesi i loro diritti!
Il Partito Democratico insisterà affinché i diritti dei cittadini siano tutelati e come già fatto con le interrogazioni presentate presso la Provincia di Verona ed i Comuni di Verona, Legnago, San Bonifacio, San Giovanni Lupatoto ed altri ancora, chiederà la piena attuazione delle condizioni favorevoli per la comunità veronese.

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giovedì 20 gennaio 2011

Le prospettive della Fiat

Il Circolo della terza circoscrizione “Enzo Biagi” di Verona ha organizzato, per martedì 25 gennaio alle ore 20,45 presso la Sala Brunelleschi in via Brunelleschi, un incontro molto interessante sulle prospettive industriali della Fiat. Il tema dell’incontro è

FIAT. Dopo il referendum quali prospettive?

Aprirà l’incontro Federico Benini, coordinatore del circolo

Intervengono

Roberto Fasoli, consigliere regionale del Partito Democratico, che verrà intervistato da

Antonino Leone, fondatore del blog “Cambiamento nelle organizzazioni”.

L’incontro è importante perché tratterà i temi della democrazia sindacale, dei contratti di lavoro, dei contenuti di alcuni disegni di legge presentati da esponenti del PD che giacciono nelle Commissioni competenti e dei ritardi del Governo rispetto alla crisi economica del paese.

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martedì 18 gennaio 2011

Pubblica Amministrazione tra principi e responsabilità

Articolo di Emanuele Costa pubblicato sulla Rivista SEMPLICE n° 9/2010"
Sono ormai passati diversi mesi da quando il Parlamento ha licenziato il Decreto Legislativo n° 150/2009 «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n° 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni», ma il tema trattato non cessa di essere oggetto di critiche, dibattiti e opinioni, a dimostrazione che il susseguirsi delle stagioni non ha comportato modifiche negli stili di vita, perpetuando una moda intramontabile.
Eppure, al di là del contenuto delle discussioni, siano esse favorevoli o contrarie, la lettura del dettato normativo non fa trasparire quelle novità che hanno fatto aumentare la temperatura della preoccupazione tra gli addetti ai lavori per un cambiamento che, in realtà, non c’è ancora stato, non sembra previsto e, probabilmente, non si verificherà.
La riforma della Pubblica Amministrazione è un processo in itinere, iniziato ormai vent’anni fa, anche se, per cause dipendenti dalla volontà di tutti e di nessuno, i risultati che risiedevano nell’intenzione del Legislatore continuano a non manifestarsi.
Qui il resto del postInfatti, come avviene in qualsiasi processo continuo che si ispira al cambiamento, dovrebbe avere la finalità, se perseguita nel rispetto della metodologia "kaizen", di individuare ed apportare sensibili miglioramenti all'intera Struttura Organizzativa.
Nella realtà, invece, si assiste ad uno strano fenomeno, inquietante quanto misterioso, che consiste nel valutare attentamente le trasformazioni positive prospettate dalle nuove regole, per iniettare un virus letale capace di inibirle, anziché cavalcare l'onda del progresso che va nella direzione di assicurare livelli qualitativi superiori nei servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione.
La filosofia storica che ha ispirato il processo di rinnovamento ha investito, soprattutto, il comportamento organizzativo, sancendo con l’articolo 3 del Decreto Legislativo n° 29/1993 «Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego» (oggi articolo 4 del Decreto Legislativo n° 165/2001 «Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche») quel principio di separazione dei poteri, che da tempo memorabile aveva collocato la volontà politica al vertice di tutto il processo decisionale.
La piramide dell'Organizzazione iniziava così lentamente a schiacciarsi verso il basso, senza, tuttavia, implodere, perché gli interessi in gioco erano ancora molti e non era ammissibile tranciare di netto quel cordone ombelicale che tiene ancora imbrigliata la classe dirigente agli umori della politica.
Il primo passo del legislatore fu quello di separare il processo di formazione delle decisioni in due grandi aree:
a) da un lato, l’azione di governo da proporre nel periodo di mandato (potere di indirizzo);
b) dall’altro, l’azione di amministrazione da sviluppare nel corso dell’anno (potere di gestione).
L’impronta riformatrice non era stata disegnata esclusivamente con l’idea di evitare (o almeno limitare) ingerenze di una parte nell’attività tipica dell’altra, ma si proponeva l’ambizioso obiettivo di far percepire a tutti gli attori quel senso di appartenenza ad un’Organizzazione, attraverso coinvolgimento, consapevolezza e responsabilità nell’adozione delle decisioni: politiche (nel primo caso), tecniche (nel secondo).
Tutto ciò ha prodotto una forte spinta innovativa per individuare moderni modelli organizzativi e adeguati processi operativi.
I primi, toccano da vicino la responsabilità politica, che deve preoccuparsi di costruire un’architettura organizzativa dotata di strumenti flessibili per generare consenso nella comunità di riferimento, in coerenza con il processo di pianificazione degli interventi da realizzare, per conseguire gli obiettivi sbandierati nel programma elettorale.
Se correttamente intesa, rappresenta il punto dal quale partire per attuare quella trasformazione radicale nella gestione affidata alla politica che si traduce nel passaggio dalle tecniche di government, indirizzate alla produzione e implementazione di politiche pubbliche, a quelle di governance, orientate a valutare gli effetti dei comportamenti posti in essere sui soggetti investiti dalle policy.
I secondi, investono in pieno la responsabilità manageriale, che deve sforzarsi di individuare meccanismi idonei a stimolare un’accelerazione nel passo burocratico per consentire il raggiungimento dei target fissati dalla classe politica.
Resta ferma l'ipotesi che il modus operandi deve avere sempre in primo piano la cognizione che da ogni processo decisionale scaturiscono responsabilità:
a) politiche (connesse agli obiettivi da realizzare);
b) manageriali (legate alla realizzazione degli obiettivi);
c) patrimoniali (relative ai danni cagionati dall’azione);
d) penali (derivanti dall’adozione di comportamenti illegali).
Occorre, pertanto, improntrare lo sviluppo dell’azione amministrativa all'osservanza di due principi fondamentali:
1) buon andamento;
2) imparzialità;
dai quali, se rispettati, discendono automaticamente quelli di:
a) efficacia;
b) efficienza;
c) economicità;
d) legalità;
e) partecipazione;
f) pubblicità;
g) trasparenza.
Non è un caso se i due principi guida richiamati sono stati volutamente incastonati all'interno della Carta Costituzionale (all'articolo 97) per illuminare costantemente il decisore pubblico che qualunque linea di condotta della Pubblica Amministrazione deve essere estrapolata da essi.
Per questo, è possibile individuare la loro giusta interpretazione all'interno della produzione normativa, laddove si tenta di far comprendere l'importanza del processo di programmazione delle attività, se esistente, dal quale dovrebbero scaturire decisioni che prevedono l'adozione di comportamenti razionali.
Pertanto, l'imperativo del "buon andamento" si converte sul piano operativo nel prestare particolare attenzione:
- alle scelte da adottare, che devono essere guidate dai principi enunciati dalle tre "E";
- alle procedure da seguire, che impongono il coinvolgimento degli altri principi;
mentre la "imparzialità" chiama in causa quella posizione di neutralità che deve permeare il comportamento di tutti gli operatori, dovendo evitare disparità di trattamento nel prendere in considerazione l'intreccio degli interessi coinvolti.
Questi ultimi trovano ulteriore garanzia nell'articolato della norma sul procedimento amministrativo (Legge n° 241/1990 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi») che prevede:
- l'esistenza di un Responsabile del Procedimento (articolo 5);
- la partecipazione e l'intervento al/nel procedimento (articolo 7 e articolo 9);
- la pubblicità del fascicolo (articolo 10);
- l'obbligo di motivazione (articolo 3);
- la predeterminazione dei criteri per l'ottenimento di vantaggi economici (articolo 12).
Infine, la mancata conformità dell'azione amministrativa al dogma della trasparenza, che, in un certo senso, fa da cornice agli altri principi, impatta negativamente su quelli fondamentali, poiché stimola la diffusione di atteggiamenti promossi dalla volonta di tutelare interessi di parte.
E' facile comprendere, quindi, come dal rispetto delle regole sancite dalla Costituzione possano discendere implicitamente tutta una molteplicità di condotte, la cui combinazione configura il pubblico agire, che nella responsabilizzazione trova l'asse portante di una Pubblica Amministrazione più credibile.

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lunedì 17 gennaio 2011

Pietro Ichino ad Annozero

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sabato 15 gennaio 2011

Confronto Cofferati - Ichino

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Pietro Micheli si dimette dalla CiVIT

In una lettera al Ministro Brunetta Pietro Micheli, professore di analisi delle politiche pubbliche nell’Università di Cranfield, rassegna le dimissioni dalla CiVIT con motivazioni reali e condivisibili che sono alla base del processo di riforma delle PA. Gli ostacoli alla realizzazione del cambiamento indicati da Micheli li condivido tutti e rappresentano le contraddizioni di una riforma che stenta a realizzarsi. Purtroppo Brunetta ha ascoltato solo se stesso e lasciato fuori dalla porta chi seriamente voleva innovare le PA per consentire al sistema Italia di migliorare la propria posizione competitiva nel contesto globale, ai cittadini di elevare la qualità della vita ed alle imprese di essere sostenute da una PA efficiente ed efficace. Le contraddizioni di questa riforma purtroppo non pagano e costringe le persone preparate professionalmente e serie, come Pietro Micheli, a gettare la spugna. Purtroppo i nostri talenti mal si adattano al contesto italiano e ritornano all’estero.
Si riporta la lettera di Pietro Micheli
Egregio Ministro Renato Brunetta,
Le scrivo per comunicarLe le mie dimissioni da componente della Commissione indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT).
Avevo lasciato il mio lavoro in Gran Bretagna come professore universitario e consulente per dare il mio contributo a quella che nel 2009 fa si profilava come un’ambiziosa e storica riforma della Pubblica Amministrazione (PA). Ebbene, dopo un anno, non credo vi siano più i presupposti per continuare.
Sebbene la riforma che porta il Suo nome abbia inizialmente conseguito dei risultati positivi, qualche difetto del suo impianto originario e soprattutto i gravi difetti nel modo in cui essa sta essendo attuata rischiano di farla naufragare in una palude di adempimenti burocratici, appesantendo le amministrazioni invece che renderle più efficienti. La mia valutazione attuale, purtroppo, è che i limiti stiano prevalendo sul cambiamento e che i vizi di un sistema da riformare non siano stati affrontati in modo corretto e con l’intensità di energie politiche e di risorse economiche che la sfida richiede.
Performance e valutazione sono le parole chiavi della riforma; ma in nessuna organizzazione la valutazione individuale può dare buoni frutti se non c’è una buona gestione organizzativa. Invece, il consenso ottenuto con la campagna “anti-fannulloni” e la presenza nella legge di riforma di alcuni elementi esageratamente prescrittivi (ad es., la ripartizione dei valutati in fasce definite ex ante) hanno focalizzato l’attenzione di tutti sulla performance individuale. Il pressing sui “fannulloni” ha dato i suoi frutti all’inizio (riduzione dell’assenteismo), ma ha finito anche per deprimere la reputazione e il senso di appartenenza di tanti dipendenti pubblici. E dato che queste sono le leve motivazionali più potenti, sarà dura riuscire a (ri)motivare il personale pubblico a far meglio con l’uso di tornelli, telecamere, bastoni e carote (per altro sparite dopo la recente legge di stabilità).
Per rendere la PA più efficiente e competitiva bisogna risolvere prima problemi a livello organizzativo e di sistema: è qui che la Sua riforma avrebbe potuto fare la differenza, puntando sulla creazione di valore pubblico e sulla valutazione degli impatti dell’azione amministrativa, in un ambiente troppo spesso autoreferenziale. Perché è questo, in ultima istanza, l’interesse principale dei cittadini e delle imprese: la qualità dei servizi che gli vengono resi. Il meccanismo del premio e della sanzione è strumentale a questo obiettivo, mentre è finito per essere (specie la sanzione) il vero fulcro dell’azione. Poi, se la Sua riforma voleva essere di stampo manageriale, allora perché nominare una Commissione prevalentemente composta da giuristi? E in ogni caso, come può una Commissione con 30 persone in organico, senza poteri ispettivi o sanzionatori, spingere a migliorare non solo chi è già incline a farlo, ma anche chi non ne ha alcuna intenzione? Inoltre, se la riforma fosse davvero una priorità, come spiegarsi l’auto-esclusione sia della Presidenza del Consiglio che del Ministero dell’Economia e delle Finanze?
Quanto all’indipendenza della CiVIT, come può esserci indipendenza quando il Governo si riserva ogni potere di determinare nomine, compensi e ambiti di operatività della Commissione stessa, e per di più opera quotidianamente trattando la CiVIT come parte del proprio staff? E lo stesso interrogativo vale per gli Organi Indipendenti di Valutazione recentemente costituiti presso molte amministrazioni.
Con sincero rammarico,

Pietro Micheli

Articolo La Repubblica

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giovedì 13 gennaio 2011

Isola della Scala: discriminazione tra famiglie italiane e immigrate

L’Amministrazione Comunale di Isola della Scala ha stabilito - con deliberazione del 15/11/2010 - di sostenere economicamente parte delle spese scolastiche alle famiglie residenti da almeno 3 anni nel paese distinguendo ancora una volta le famiglie italiane da quelle immigrate.
Si fa presente che il Sindaco del Comune di Villafranca è Giovanni Miozzi, presidente della Provincia, che guida una amministrazione di destra. 
Alcuni cittadini di Isola della Scala, con il sostegno del circolo ARCI Pane e Rose, del Partito Democratico di Isola della Scala e del circolo Legambiente Il Tiglio hanno chiesto al Sindaco di modificare i criteri di assegnazione.
Hanno chiesto di sapere anche quali siano le fonti su cui si basa questa distinzione:
contraria all’art. 41 del T.U. sull’immigrazione: ..”Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, … sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale… incluse quelle previste per gli indigenti “, contraria all’art. 3 della Costituzione, "tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali";
contraria ai principi stabiliti dell’articolo 3 dello Statuto Comunale contraria alle raccomandazioni del Presidente Napolitano nella giornata del Migrante sull'esigenza di facilitare l'integrazione fondata sul rispetto reciproco, sul riconoscimento dei diritti di quanti sono giunti in Italia e vi risiedono laboriosamente osservandone le leggi ”.
Le famiglie immigrate destinatarie del minor sostegno sono regolarmente soggiornanti a Isola della Scala da almeno 3 anni, accudiscono i nostri anziani, puliscono le nostre case, lavorano con noi nei campi e nelle fabbriche, pagano tasse e contributi: perché dunque a fronte di uguali doveri corrispondono minori diritti? Gli immigrati fanno spesso lavori che gli isolani non fanno più, contribuiscono a pagare le nostre pensioni con versamenti che non utilizzeranno mai e secondo i dati della Caritas contribuiscono alla produzione del Pil per l'11%.
La delibera - oltre che profondamente ingiusta e ingiustificata- è anche pericolosa, perché fomenta inutili divisioni tra persone che provengono sì da paesi diversi, ma che nel nostro paese convivono ormai in armonia, con ottimi rapporti di studio, di lavoro, di amicizia.
Le difficoltà economiche di una famiglia con bambini immigrati non sono meno pesanti di quelle di una famiglia con bambini italiani! Forse questa delibera vuole rassicurare gli elettori isolani che pensano che gli stranieri "rubino loro il posto di lavoro e i soldi per l'assistenza", ma la risposta a questa paura non può essere una delibera discriminatoria, che alimenta la percezione che ci sia un “NOI” e un “LORO”.
Per tutti questi motivi si è chiesto all’Amministrazione di Isola della Scala che cambi i criteri di assegnazione deliberati in novembre e che non discrimini mai più le famiglie immigrate.

E’ possibile comunicare la propria l’adesione alla iniziativa comunicandola all’indirizzo
sindaco@comune.isoladellascala.vr.it e per conoscenza a panerose.arci@virgilio.it

Primi firmatari:
Chiara Chiappa, Stefania Crozzoletti, Paola Bonfante, Stefania Chiappa, Massimo Belloni, Virginia Bonfante, Andrea Belluzzo, Guerrino Zandonà, Ronconi Laudice, Carla Zecchetto, Mario Guarnieri, Laura Adami, Virgilio Chiappa, Antonio Tesini, Giuliana Targa, Alberto Lonardi

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lunedì 10 gennaio 2011

Claudia Crescenzi risponde sul cambiamento

L’impresa, specie in questo momento di grave crisi economica, è un argomento che continua ad interessare gli imprenditori, il management e gli operatori. Si afferma che le imprese devono cambiare continuamente, operare su scala internazionale, reinventare l’impresa stessa ed innovare il settore di riferimento, i prodotti e servizi che producono. Gli approcci manageriali sono conosciuti e diventati ormai un patrimonio comune degli imprenditori e dei manager. Tutte le teorie manageriali per essere realizzate nelle organizzazioni fanno leva sulle persone, le quali rappresentano un fattore strategico. Le imprese sono fatte da persone e per le persone e, pertanto, è necessario che gli interventi del management siano rivolte a potenziare lo sviluppo del sapere nella performance dell’organizzazione sia dal punto di vista gestionale che secondo aspetti relazionali e legati alla sfera della leadership. Nonostante questo riconoscimento “unanime” le imprese presentano numerosi problemi legati alla gestione delle persone.
Di questi argomenti ne discutiamo con Claudia Crescenzi, managing director della società Growbp.
Il cambiamento è l’argomento più interessante e dibattuto da studiosi, manager, operatori e forze sociali perché da esso dipende il successo e la sopravvivenza dell’impresa. Il management, il quale ha la responsabilità di guidare il cambiamento, quale tipo di organizzazione dovrebbe realizzare, quali relazioni dovrebbe stabilire con le persone che operano nell’impresa e quali sono le testimonianze da lasciare come modello?
Indubbiamente lo scenario economico-sociale attuale richiede grande capacità di adattamento a cambiamenti continui e immediati. Tale capacità di adattamento è data dal grado di flessibilità e di responsabilità che i sistemi aziendali e le persone che li governano hanno. La responsabilità intesa come respons-able ovvero abilità nel rispondere prontamente agli eventi, situazioni che cambiano, fatti non previsti che accadono. Le aziende sono fatte dalle persone che operano all’interno del contesto nel rispetto di norme e procedure ma nel rispetto anche delle loro regole personali ed interiori.
Non possiamo prescindere dalla tridimensionalità dell’azienda. La dimensione AZIENDA che ha una sua mission e un modo (valori) di operare - più o meno - scritto esplicitato e dichiarato; sicuramente adottato perché “da noi si fa così”.
La seconda dimensione dalla quale non possiamo esimerci è la dimensione del SINGOLO, ovvero della singola persona che vi lavora nel rispetto del proprio ruolo e funzione adempiendo il proprio lavoro secondo come “lo ritiene più opportuno” (tenuto ovviamente conto delle regole aziendali).
La terza dimensione è quella INTERPERSONALE attraverso la quale le persone - incluso il management - svolgono le funzioni. Nei momenti di cambiamento si ha incertezza, si ha timore di ciò che possa accadere. Ecco che le relazioni diventano essenziali. Le informazioni da veicolare il modo di veicolare le stesse informazioni e la qualità delle relazioni, il rapporto fiduciario che si è creato sino ad ora diventano i presupposti base essenziali per far si che l’azienda sia flessibile ed immediata nel rispondere al cambiamento.
La FIDUCIA diventa l’ingrediente BASE che il management deve creare, mantenere per far sì che le persone permettano il cambiamento richiesto per rispondere velocemente al mercato economico-sociale.

In molti casi il management è prigioniero dello status quo e non pone attenzione ai cambiamenti che avvengono nel pianeta. In questi casi come bisogna intervenire per rompere questo circolo vizioso?
Il management è prigioniero dello status quo fintanto che non decide il contrario. Non vuole essere polemica ma spesso e volentieri la tendenza è di pensare “tanto a me non accade nulla” dimenticando che oggigiorno o si vince tutti o si perde tutti. Non è semplicemente un modo di dire, ma se leggiamo i giornali (basti pensare agli ultimi eventi della FIAT) e/o ci confrontiamo con manager di altre aziende e/o se osserviamo le aziende internazionali ci rendiamo conto che quando si parla di rispondere prontamente ai cambiamenti non si parla più di normali revisioni organizzative, ma piuttosto di ripensamento del core business, di accorpamenti, fusioni o di incorporazioni aziendali che toccano tutti i livelli a partire dal top management come amministratori delegati, direttori generali.
Ciò significa che occorre essere pronti per rispondere al mercato immediatamente. Ciò che è fondamentale è rispondere REPENTINAMENTE ed EFFICACEMENTE al cambiamento. E’ questo può essere fatto solo con il supporto di tutte le persone che sono parte integrante dei servizi/prodotti che l’azienda offre/produce. Il punto è cosa serve al management per “risvegliarsi”? Per prima cosa la consapevolezza che il proprio status quo non è poi così certo che possa rimanere tale. In secundis una visione meno personalistica e più aziendale. Immaginiamo l’azienda come un essere umano e le procedure i sistemi come il sistema respiratorio e cardio circolatorio. Immaginiamo ora le singole persone come cellule. Che cosa accade quando alcune cellule invece di operare per agevolare il sistema respiratorio e cardiocircolatorio operano in controtendenza? Chi ne fa le spese?
Terzo una capacità relazionale diversa da quella utilizzata sino ad ora; una capacità relazionale coaching oriented. Ovvero una relazione dove il manager sia meno capo e più coach.

Si dibatte spesso sulla importanza delle risorse intangibili, rappresentate dal patrimonio di conoscenze e competenze possedute dalle persone che operano nell’impresa. Quali interventi sono necessari per elevare il senso di appartenenza, per favorire la collaborazione creativa e per aumentare il livello di soddisfazione e di realizzazione delle persone?
Sino a qualche tempo fa il potere era dato dall’informazione. Oggi ciò che più conta perché è richiesto dal mercato è la CONDIVISIONE delle informazioni delle competenze e delle conoscenze; è la MUTUA PARTECIPAZIONE - sempre nel rispetto dei ruoli e funzioni – ai progetti. Se ci soffermiamo ad osservare ciò di cui a noi necessita per sentirci parte di un gruppo, è possibile che emergano i fattori quali conoscenza del gruppo, conoscere (ovvero CONSAPEVOLEZZA) le finalità del gruppo, comprendere come possiamo partecipare (ovvero RESPONSABILITA’) alla crescita del gruppo ma fondamentalmente ciò che ci serve è RICONOSCERCI nella finalità e nelle modalità COMPORTAMENTALI del gruppo. La medesima cosa accade in un’azienda; ogni persona è naturalmente collaborativa se si identifica in ciò che fa. Ogni persona è assolutamente non collaborativa se si sente semplicemente utilizzata senza essere considerata. Ecco che interviene la relazione, lo scambio di informazioni, la condivisione del modo di come effettuare un’azione, il trasferimento della conoscenza di una dimensione più ampia magari dell’intero processo per cui è importante il contributo del singolo. Oggi non basta più il dire “fai questo e basta”. Oggi occorre condividere il perché a cosa serve e il come farlo, in modo che le persone si possano sentire CORRESPONSABILI e protagoniste. Allora si che si sentono parte integrante, appartenenti e si identificano con l’azienda. Ma ricordiamoci che l’azienda è veicolata dalle persone, il management che si relaziona con i dipendenti.

L’attuale momento è caratterizzato dalla crisi economica, dall’aumento della competitività e dall’incertezza del futuro. Questi fattori hanno un impatto negativo sulle persone che non sempre è riconosciuto dal management. Le persone che vivono le difficoltà dell’incertezza come possono essere sostenute ed incoraggiate?
L’incertezza, il non conosciuto, il non chiaro sono fattori che quasi sempre sono letti in modo negativo. O per meglio dire con paura e con timore. Ecco che la paura si rivela essere il denominatore comune. E’ la paura che ci impedisce di affrontare il “nuovo” il non conosciuto con occhi diversi. E’ la paura che si traduce in elemento frenante e ci rende faticoso abbandonare vecchie abitudini per allenarne di nuove. Mentre invece può risultare spesso vincente utilizzare dinamiche comportamentali diverse da quelle che siamo abituati a utilizzare, anche se pienamente consapevoli del fatto che non sempre si mostrano efficaci. Le persone vanno accompagnate supportate allenate ad utilizzare nuove modalità comportamentali non in sostituzione di quelle utilizzate sino al momento bensì come modalità complementari in aggiunta. Ma le modalità comportamentali sono l’effetto dei pensieri e delle emozioni. I pensieri sono anche il frutto delle conoscenze e competenze, ovvero di tutto ciò di cui ciascuno è consapevole. Ecco che la CONSAPEVOLEZZA diventa la base del fattore di successo di ciascuno.
Ma quali sono le qualità di una persona di successo? Fondamentalmente due: qualità emotive e qualità intellettuali. Le qualità intellettuali sono allenate quotidianamente mentre le qualità emotive si esprimono spesso senza che l’individuo ne sia pienamente consapevole. Ci chiediamo: esiste una modalità che ci consente di esprimere appieno il nostro potenziale? Quali i principali ostacoli? Il coaching può essere una risposta, una metodologia utile per esprimere potenzialità che tutti noi abbiamo e che, se non ‘allenate’, rischiano di rimanere ‘latenti’.

Al convegno “L’azienda come costruzione comune”, organizzato da Este a Padova, ha parlato del cambiamento ed ha richiamato l’immagine della stella marina e del ragno. Vuole spiegare questa metafora del cambiamento?
In effetti nel mio intervento al convegno ho ripreso un concetto che mi è piaciuto molto da un libro intitolato “Senza leader” di O. Brafman, A. Bechstrom edizione Etas in merito al perché alcuni modelli aziendali funzionano e altri meno. Tutto è partito dal cosa vuol dire governare? L’azienda è un sistema fatta di regole norme procedure e persone. La persona è un sistema fatta di pensieri, emozioni, comportamenti, ruoli e funzioni. Come far interagire i due sistemi?
Il RAGNO rappresenta l’organizzazione tradizionale, quella centralizzata che si avvale di un leader (la testa del ragno), il quale a sua volta si appoggia sui collaboratori (le zampe del ragno). Le difficoltà sono le solite: motivare, coinvolgere, comprendere, attivare, e chi più ne ha più ne nomini. Il rischio è palese (via la testa, le zampe barcollano e muoiono). Le difficoltà sono le solite: motivare, coinvolgere, comprendere, attivare, e chi più ne ha più ne nomini. Il rischio è palese: via la testa, le zampe barcollano e muoiono.
La STELLA MARINA è fatta di gambe indipendenti associate tra loro. Il centro è costituito dal nucleo del corpo che tiene insieme le componenti esterni (le gambe, quelle che trottano, per l’appunto).
La stella marina è il network e si regge su cinque gambe: se perde temporaneamente un arto – o anche due – sopravvive e si rigenera. Se invece tutte le gambe lavorano insieme, allora c’è armonia e la stella è pienamente efficace.
In sintesi gamba n. 1 : network / collaboratori agiscono con flessibilità ed autonomia nel rispetto di regole norme e procedure (diversamente si esce dal network). Occorre aderire alle regole fondamentali, diversamente sono gli altri componenti del netwotk che lo allontanano. Gamba n. 2 : catalizzatore/ leader. Ispira e sprona all’azione. Caratteristiche : capacità di creare relazioni e connessioni; passione ed intelligenza emotiva; fiducia ed ispirazione; tolleranza nelle diverse situazioni; capacità di scovare nuove opportunità innovative. Gamba n. 3 ideologia/mission-vision-valori ideologia funge da collante tra coloro che partecipano al network. Gamba n.4 storia aziendale. Serve per non perdere le esperienze e le conoscenze del passato ed utilizzarle per continuare a costruire facendo tesoro dei successi e degli insuccessi. Gamba n.5 paladino/persona chiave. Chiunque in azienda si identifica con l’ideologia. Diventa naturalmente elemento di diffusione e di rafforzamento dell’ideologia.
Cinque gambe in azione vuol dire cogliere le palle che vengono lanciate e portarle a canestro. Vuol dire essere una squadra affiatata per vincere nel rispetto delle regole del gioco e delle regole di ciascuno. Ed infine, vuol dire essere ad esempio e far si che gli altri possano appassionarsi non solo al prodotto/servizio che si eroga ma al MODO, al COME si lavora.

Può descrivere i servizi, come nel caso della società Growbp, che vengono offerti alle imprese per superare i problemi relativi al management ed ai collaboratori.
Massimizzare le capacità: il nostro obiettivo
GROWBP srl supporta le organizzazioni, i manager, le PMI nello sviluppo e rafforzamento di nuove modalità comportamentali, di una cultura aziendale volta alla massimizzazione delle capacità di ciascun collaboratore a beneficio e delle persone e delle aziende.
Attraverso il rafforzamento e l’allenamento che la nostra società prevede con percorsi di executive e team coaching, supporta le aziende ad ottenere benefici che sono stimati e misurati con risultati di aumento delle performance e della produttività che in tal casi è stata stimata anche del 30%.
I percorsi di coaching e di training sono studiati e sviluppati con l’azienda cliente in modo che siano tarati in funzione delle loro specifiche esigenze.
I percorsi di consulenza su tematiche di gestione del cambiamento, gestione della leadership, gestione della diversità, gestione dei team, gestione dei conflitti ed altro sono progetti integrati che vedono il coaching come l’ingrediente essenziale, l’anima attraverso cui veicola il processo.

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PA, Montagnoli interroga Tosi

Continua il pressing del Partito Democratico di Verona sull’attuazione del D. Lgs. n. 150/2009 (cd. legge Brunetta), dopo l’interrogazione alla Provincia è il turno al comune di Verona.
Giancarlo Montagnoli, consigliere comunale del Partito Democratico, ha presentato un’interrogazione al Sindaco Flavio Tosi sulla riforma della PA. Montagnoli ritiene che il miglioramento della performance delle PA ha effetti positivi sull’economia e per tale motivo valuta e mette in relazione l’economia italiana e le PA.
“La bassa e lenta crescita dell’economia italiana, afferma Giancarlo Montagnoli, non è sufficiente ad affrontare i problemi sociali ed economici del paese e la mancanza di riforme strutturali in Italia non permette di conseguire una ricchezza nazionale elevata ed adeguata al fabbisogno del Paese”.
“Le Pubbliche Amministrazioni a causa della loro inadeguata efficienza ed efficacia non sostengono la crescita, la competitività del sistema paese e la qualità della vita dei cittadini. Prosegue Montagnoli, l’attuazione della cultura della trasparenza, della valutazione e di specifici strumenti manageriali, disposta dal D. Lgs. n. 150/2009, crea le condizioni affinché il sistema Italia possa conseguire una posizione migliore dell’attuale nello scenario competitivo globale”.
I Comuni della Provincia di Verona che partecipano al progetto Performance e Merito, promosso dall’Anci, sono quattro: Verona, Bussolengo, San Giovanni Lupatoto e Lazise.
Giancarlo Montagnoli chiede al Sindaco se è stata rispettata la scadenza del 31 dicembre relativa all’adeguamento dell’ordinamento comunale ai principi ed alle disposizioni immediatamente applicabili disposti dal D. Lgs. n. 150/2009 essendo noto che per i comuni inadempienti è prevista dal 1° gennaio e fino all’emanazione della disciplina comunale l’applicazione del Titolo 1, Principi Generali, e 2, Misurazione, valutazione e trasparenza della performance, del decreto e l’impossibilità di erogare premi legati al merito ed alla performance.
Giancarlo Montagnoli chiede a Flavio Tosi
- se non ritenga urgente dare attuazione al decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 al fine di migliorare l’attività amministrativa e la performance del comune;
- se non reputi urgente dare immediata applicazione alle disposizioni dell’articolo 11, commi 1 e 3, relativi alla trasparenza ed integrità;
- se non reputi necessario adeguare l’ordinamento comunale ai principi contenuti negli articoli 3, 4, 5, comma 2, 7, 9 e 15, comma 1 relativi al Titolo II Misurazione, valutazione e trasparenza della performance;
- se non ritenga urgente adeguare l’ordinamento comunale ai principi contenuti negli articoli 17, comma 2, 18, 23, commi 1 e 2, 24, commi 1 e 2, 25, 26 e 27, comma 1 relativi al Titolo III Merito e Premi.
Inoltre, il consigliere Montagnoli chiede di convocare una seduta del consiglio comunale al fine di trattare l’attuazione delle disposizioni del D. Lgs. n. 150/2009.
Il centro destra che governa la quasi totalità dei comuni della provincia di Verona si dimostra disattento all’attuazione della riforma Brunetta, la quale dispone di introdurre la cultura della trasparenza e della valutazione e l’implementazione operativa di nuovi strumenti manageriali negli enti locali al fine di migliorare la performance dei servizi a vantaggio dei cittadini e delle imprese.
Una riforma promossa dal centro destra, alla quale ha collaborato il Partito Democratico in modo responsabile e significativo, viene sabotata sempre dal centro destra negli enti locali della provincia di Verona.

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sabato 8 gennaio 2011

Pietro Ichino, relazioni industriali e crescita dell’economia

Intervista a cura di Maurizio Maggi, pubblicata su l’Espresso del 7 gennaio 2010

E’ possibile che nel referendum sull’accordo per lo stabilimento di Mirafiori prevalgano i no?
Purtroppo le catastrofi non si possono mai escludere. Ma prevedo che andrà come è andata a Pomigliano. Se invece vincesse il no, l’effetto più dannoso non sarebbe il taglio certo al programma “Fabbrica Italia”: sarebbe il messaggio di chiusura che verrebbe lanciato dall’Italia a tutte le grandi multinazionali.
La pensa così Pietro Ichino, che non è soltanto uno dei più noti giuslavoristi italiani. Avvocato, docente (insegna alla Statale di Milano dal 1991), è stato dirigente della Fiom-Cgil e deputato del Pci. Ha partecipato alla fondazione del Partito democratico e del Pd è senatore in carica. Vive sotto scorta dal 2002, in seguito alla minacce delle Brigate Rosse.

Professore, lei ha detto più volte che gli accordi disegnati dalla Fiat di Sergio Marchionne per Pomigliano e Mirafiori non ledono i diritti dei lavoratori. Eppure la Fiom, appoggiata anche da esponenti del suo stesso partito, sostiene di sì e proprio su questa motivazione ha costruito l’opposizione alla firma dell’accordo: è possibile che non esista un’interpretazione univoca e indiscutibile della questione?
Ho sostenuto che in quegli accordi non c’è alcuna violazione della legge italiana, né tanto meno della Costituzione. Ciò che quegli accordi mettono in discussione è il contenuto del contratto nazionale, che è un’altra cosa.

Può spiegare come verranno eletti i futuri rappresentanti sindacali di Mirafiori? Qualcuno ha paragonato il metodo al cosiddetto “Porcellum”.
Fin dal 1970 lo Statuto dei lavoratori attribuisce un certo numero di rappresentanti a ciascun sindacato accreditato, lasciandolo libero di scegliere le modalità della nomina: elezione diretta da parte di tutti i lavoratori, oppure da parte dei soli iscritti, oppure ancora nomina da parte degli organismi territoriali. Gli accordi Fiat lasciano ai sindacati firmatari la stessa libertà di scelta lasciata dallo Statuto.

A proposito: è arrivata l’ora di cambiare sostanzialmente lo Statuto dei lavoratori?
Lo Statuto è stato già modificato in modo molto incisivo diverse volte, nei 40 anni della sua vita. Chi dice “lo Statuto non si tocca” non sa di che cosa parla. E’ l’intera legislazione del lavoro – oggi complessissima e ipertrofica - che va cambiata: occorre un Codice del lavoro semplificato e traducibile in inglese.

Cambiamenti in questa direzione sono contenuti nei disegni di legge presentati da lei con altri 54 senatori democratici. Eppure un senatore del Pd, esperto di diritto del lavoro come Paolo Nerozzi, fa parte - con Bertinotti e Cofferati - dell’associazione “Lavoro e Libertà” che sostiene la Fiom a spada tratta. In sostanza, i giuslavoristi del Pd non riescono a trovare una sintesi. Tutto ciò non contribuisce a indebolire la capacità di incidere del Pd?
Sì. Ma sarebbe facile superare questo ritardo: tutti gli esponenti più autorevoli della maggioranza del partito, da Bersani a Letta, a Fassino, hanno detto che gli accordi Fiat sono positivi, comprese le deroghe al contratto nazionale, tranne che per la parte in cui negano alla Fiom il diritto alla rappresentanza; dunque l’intero partito potrebbe far propria la proposta della sua minoranza, contenuta nel mio disegno di legge n. 1872.

La Cgil chiede al governo di legiferare sul tema della rappresentanza sindacale, Cisl e Uil dicono di no e preferiscono la strada degli accordi con le organizzazioni dei datori di lavoro. Che effetti reali ha questa diversità di vedute sulla possibilità di trovare intese migliorative?
Il vero dissenso, oggi, non è sulla scelta dello strumento, legislativo o contrattuale. Il dissenso riguarda i poteri negoziali che devono essere riconosciuti alla coalizione maggioritaria: la Cgil non concorda sul punto che le si riconosca anche il potere di negoziare contratti che si discostino dal contratto collettivo nazionale. La soluzione ideale sarebbe quella di un accordo interconfederale firmato da tutti; ma poiché mi sembra improbabile che questo dissenso si risolva in tempi brevi, tocca al legislatore sciogliere il nodo, in via sussidiaria e provvisoria.

Il fatto che il segretario della Fiom, Maurizio Landini, sia iscritto a “Sinistra e libertà” e che il capo dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, voglia creare un asse diretto tra il suo partito e il sindacato dei metalmeccanici della Cgil che conseguenze può avere nei futuri rapporti tra sinistra e sindacato?
Il collateralismo tra sindacati e partiti ha una storia antica, nel nostro Paese. Ma credo che il futuro sia dei sindacati capaci di affrancarsi da tutti i collateralismi con partiti e governi.

Quanto pesa davvero quello che lei definisce “inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali” sulla scarsità di investimenti in Italia da parte delle imprese internazionali?
È una questione controversa: sono in molti, soprattutto tra i sindacalisti, a sostenere che questo grave difetto pesi poco o nulla. Per questo è importante la vicenda della Fiat: perché essa mostra, invece, l’importanza decisiva di questo difetto. Ovviamente, ci sono anche molte altre cause della nostra incapacità di attrarre gli investimenti stranieri; ma questa, sicuramente tra le più rilevanti, fino a oggi è stata gravemente sottovalutata, quando non del tutto negata.

È davvero intraducibile in inglese la legislazione italiana in materia di lavoro?
Lo chieda a qualsiasi avvocato a cui venga chiesto da un cliente straniero di tradurre le nostre norme in materia di cassa integrazione, di contratto a termine, di apprendistato, o di part-time. Inoltre, utilizziamo concetti e relativi termini che non si possono proprio tradurre in inglese: per esempio quello di “causa” del contratto. Mentre ne ignoriamo totalmente altri, che sono di importanza decisiva per gli investitori stranieri: come quello di “severance cost”, cioè costo predeterminabile della separazione dal lavoratore per motivi economici o organizzativi.

Può farci il nome di qualche impresa che davvero ha deciso di non investire in Italia per queste ragioni?
Sei anni fa ho dedicato un libro, “A che cosa serve il sindacato” (Mondadori), a dimostrare questo assunto. Lì ho descritto dettagliatamente diversi casi aziendali: non ho avuto una sola smentita.

Crede che molte altre aziende seguiranno l’esempio della Fiat, con accordi che prevedano investimenti solo se con deroghe rispetto ai contratti nazionali?
Non credo che questo accadrà diffusamente nelle aziende a capitale e management italiano. Sicuramente, però, se nel referendum di Mirafiori prevarrà il “sì”, l’esempio Fiat lancerà un messaggio di apertura alle altre grandi multinazionali.

Non teme che l’inasprirsi delle contraddizioni in seno al sindacato, con le reciproce accuse di tradimento, possa provocare un ritorno di fiamma dell’attività terroristica?
Certo, questo rischio c’è. Il terrorismo di sinistra nasce dalla crepa interna della sinistra stessa, divisa tra chi rifiuta il “piano inclinato” delle riforme e chi lo accetta. L’argomento del “piano inclinato”, che è il cavallo di battaglia di tutti i conservatorismi, di destra e di sinistra, tende a drammatizzare qualsiasi cambiamento; e il terrorismo non è altro – per parafrasare Clausewitz - che la prosecuzione di quella drammatizzazione con altri mezzi.
Intervista pubblicata da La Repubblica

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L’Italia non è un paese per i giovani

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa l’8 gennaio 2011
Ancora una volta potrà dire «l’avevo detto». Due giorni fa il ministro Tremonti metteva in guardia contro facili ottimismi sulla fine della crisi, e ieri i dati Istat sull’occupazione confermano un quadro tutt’altro che positivo. Non accenna a diminuire la disoccupazione complessiva, restando inchiodata all’8,7%, il dato più alto dal 2004, e riprende a salire quella giovanile, che arriva al 28,9%. Certamente questi dati non vanno letti isolatamente, ma assieme a quelli che, per esempio, indicano come anche l’occupazione sia parallelamente cresciuta (+0,1% rispetto a novembre) e a quelli che indicano che un maggior numero di persone si è rimesso attivamente alla ricerca di un lavoro, andando a ingrossare le statistiche sulla disoccupazione. Ma cercare di nascondersi dietro uno zero virgola in più porta all’unico risultato di non affrontare un problema strutturale e molto grave del nostro Paese, ovvero l’incapacità di crescere (da questo punto di vista i dati sull’occupazione andrebbero letti assieme a quelli del Pil, che stenta a ripartire, e a quelli della produttività, ancora ferma) e, problema ancor più grave, l’incapacità di coinvolgere le giovani generazioni nel tessuto economico e produttivo del Paese.
Nonostante continui a essere ignorata e sminuita dal nostro governo, la questione della disoccupazione giovanile in Italia è ormai da tempo un problema di assoluta gravità, che mortifica l’entusiasmo di milioni di giovani e delle loro famiglie e che frena la ripresa economica del Paese. Un problema al quale nessuno in Italia è stato capace di dare una risposta concreta. Uno scenario politico senza idee, diviso tra chi ha fatto leva sul disagio dei giovani semplicemente per cercare di indebolire il governo (compensando così un difetto dell’opposizione), e chi invece, all’interno del governo, ha liquidato la questione con dichiarazioni tanto incredibili quanto poco costruttive. Come l’ultima del ministro Sacconi, che durante le feste natalizie ha rimarcato come la disoccupazione giovanile sia colpa di cattivi genitori che li spingono a studiare e laurearsi quando invece potrebbero imparare un mestiere e adattarsi meglio alle esigenze del mercato. Chissà se è venuto in mente al ministro che il mercato del lavoro è anche frutto delle politiche economiche e sociali che un Paese persegue.
E che è il governo di un Paese che dovrebbe mirare ad adattare il proprio sistema economico e sociale alle dinamiche internazionali in modo da tenerlo competitivo, non i giovani che devono adattarsi al declino del Paese e all’incapacità dei politici di rimetterlo in moto. No, non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti o falegnami rimasti che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile, ma intervenendo in maniera più incisiva sia su una effettiva riforma del mercato del lavoro (in modo da eliminarne la dualità che oggi marginalizza milioni di giovani), sia su politiche economiche lungimiranti. Politiche di sviluppo orientate a far sì che in Italia arrivino o nascano nuove imprese, in particolare imprese innovative, ad alta vocazione internazionale, capaci di far emergere nuovi settori e generare nuova occupazione. Certo, non sono interventi semplici, soprattutto in tempi di crisi, e anche altri Paesi hanno mostrato di fare degli errori di fronte alla crisi e di non riuscire sempre a ottenere i risultati sperati. Ma le cose si muovono, e sono pochi quelli che restano fermi.
Dopo aver investito gran parte di inizio mandato a riformare aspetti importanti del sistema di protezione sociale americano, Obama è passato a più aggressive misure di sviluppo, varando nel corso del 2010 un consistente pacchetto di incentivi alle imprese per supportare le nuove assunzioni e nuovi investimenti, con paralleli tagli alle tasse, per un totale di 150 miliardi di dollari. Sarà un caso, ma negli ultimi mesi l’occupazione negli Stati Uniti ha registrato continui miglioramenti. Proprio ieri i dati hanno indicato la creazione di oltre 100.000 posti di lavoro nel mese di dicembre - meno di quanto era stato precedentemente stimato, ma comunque un dato positivo soprattutto se lo si somma ai posti che erano stati creati a ottobre e novembre (210.000 e 71.000), nettamente al di sopra delle aspettative. La Germania, a sua volta, pur cercando di contenere il deficit con uno dei tagli di spesa del settore pubblico più pesanti dal dopoguerra, ha rilanciato il proprio sistema produttivo investendo in ricerca e sviluppo, negoziando con le imprese migliaia di posti di formazione per i giovani, orientando molti incentivi economici verso nuovi settori e le «industrie creative e culturali» (alla faccia di chi pensava che i tedeschi fossero solo interessati a costruire la propria potenza su macchinari e tecnologie), e finanziando numerose attività di supporto per le imprese orientate all’esportazione.
Il programma tedesco «Hermes», che offre garanzie di credito alle imprese esportatrici, nel 2009 ha emesso garanzie per 22,4 miliardi di euro, un record storico per la Germania. Una politica i cui risultati sono, fino a oggi, sotto gli occhi di tutti. In Italia oggi molti politici litigheranno su come leggere gli ultimi dati, ma se si avesse il coraggio di ammettere il fallimento di una politica che lascia quasi un terzo dei propri giovani senza lavoro e senza prospettive, e se si avesse davvero la forza di attivare politiche di sviluppo utili, e non solo predire o minimizzare disgrazie, forse un giorno potremmo dire a questi giovani qualcosa di più emozionante e utile di un semplice «arrangiatevi».

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