sabato 8 gennaio 2011

Pietro Ichino, relazioni industriali e crescita dell’economia

Intervista a cura di Maurizio Maggi, pubblicata su l’Espresso del 7 gennaio 2010

E’ possibile che nel referendum sull’accordo per lo stabilimento di Mirafiori prevalgano i no?
Purtroppo le catastrofi non si possono mai escludere. Ma prevedo che andrà come è andata a Pomigliano. Se invece vincesse il no, l’effetto più dannoso non sarebbe il taglio certo al programma “Fabbrica Italia”: sarebbe il messaggio di chiusura che verrebbe lanciato dall’Italia a tutte le grandi multinazionali.
La pensa così Pietro Ichino, che non è soltanto uno dei più noti giuslavoristi italiani. Avvocato, docente (insegna alla Statale di Milano dal 1991), è stato dirigente della Fiom-Cgil e deputato del Pci. Ha partecipato alla fondazione del Partito democratico e del Pd è senatore in carica. Vive sotto scorta dal 2002, in seguito alla minacce delle Brigate Rosse.

Professore, lei ha detto più volte che gli accordi disegnati dalla Fiat di Sergio Marchionne per Pomigliano e Mirafiori non ledono i diritti dei lavoratori. Eppure la Fiom, appoggiata anche da esponenti del suo stesso partito, sostiene di sì e proprio su questa motivazione ha costruito l’opposizione alla firma dell’accordo: è possibile che non esista un’interpretazione univoca e indiscutibile della questione?
Ho sostenuto che in quegli accordi non c’è alcuna violazione della legge italiana, né tanto meno della Costituzione. Ciò che quegli accordi mettono in discussione è il contenuto del contratto nazionale, che è un’altra cosa.

Può spiegare come verranno eletti i futuri rappresentanti sindacali di Mirafiori? Qualcuno ha paragonato il metodo al cosiddetto “Porcellum”.
Fin dal 1970 lo Statuto dei lavoratori attribuisce un certo numero di rappresentanti a ciascun sindacato accreditato, lasciandolo libero di scegliere le modalità della nomina: elezione diretta da parte di tutti i lavoratori, oppure da parte dei soli iscritti, oppure ancora nomina da parte degli organismi territoriali. Gli accordi Fiat lasciano ai sindacati firmatari la stessa libertà di scelta lasciata dallo Statuto.

A proposito: è arrivata l’ora di cambiare sostanzialmente lo Statuto dei lavoratori?
Lo Statuto è stato già modificato in modo molto incisivo diverse volte, nei 40 anni della sua vita. Chi dice “lo Statuto non si tocca” non sa di che cosa parla. E’ l’intera legislazione del lavoro – oggi complessissima e ipertrofica - che va cambiata: occorre un Codice del lavoro semplificato e traducibile in inglese.

Cambiamenti in questa direzione sono contenuti nei disegni di legge presentati da lei con altri 54 senatori democratici. Eppure un senatore del Pd, esperto di diritto del lavoro come Paolo Nerozzi, fa parte - con Bertinotti e Cofferati - dell’associazione “Lavoro e Libertà” che sostiene la Fiom a spada tratta. In sostanza, i giuslavoristi del Pd non riescono a trovare una sintesi. Tutto ciò non contribuisce a indebolire la capacità di incidere del Pd?
Sì. Ma sarebbe facile superare questo ritardo: tutti gli esponenti più autorevoli della maggioranza del partito, da Bersani a Letta, a Fassino, hanno detto che gli accordi Fiat sono positivi, comprese le deroghe al contratto nazionale, tranne che per la parte in cui negano alla Fiom il diritto alla rappresentanza; dunque l’intero partito potrebbe far propria la proposta della sua minoranza, contenuta nel mio disegno di legge n. 1872.

La Cgil chiede al governo di legiferare sul tema della rappresentanza sindacale, Cisl e Uil dicono di no e preferiscono la strada degli accordi con le organizzazioni dei datori di lavoro. Che effetti reali ha questa diversità di vedute sulla possibilità di trovare intese migliorative?
Il vero dissenso, oggi, non è sulla scelta dello strumento, legislativo o contrattuale. Il dissenso riguarda i poteri negoziali che devono essere riconosciuti alla coalizione maggioritaria: la Cgil non concorda sul punto che le si riconosca anche il potere di negoziare contratti che si discostino dal contratto collettivo nazionale. La soluzione ideale sarebbe quella di un accordo interconfederale firmato da tutti; ma poiché mi sembra improbabile che questo dissenso si risolva in tempi brevi, tocca al legislatore sciogliere il nodo, in via sussidiaria e provvisoria.

Il fatto che il segretario della Fiom, Maurizio Landini, sia iscritto a “Sinistra e libertà” e che il capo dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, voglia creare un asse diretto tra il suo partito e il sindacato dei metalmeccanici della Cgil che conseguenze può avere nei futuri rapporti tra sinistra e sindacato?
Il collateralismo tra sindacati e partiti ha una storia antica, nel nostro Paese. Ma credo che il futuro sia dei sindacati capaci di affrancarsi da tutti i collateralismi con partiti e governi.

Quanto pesa davvero quello che lei definisce “inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali” sulla scarsità di investimenti in Italia da parte delle imprese internazionali?
È una questione controversa: sono in molti, soprattutto tra i sindacalisti, a sostenere che questo grave difetto pesi poco o nulla. Per questo è importante la vicenda della Fiat: perché essa mostra, invece, l’importanza decisiva di questo difetto. Ovviamente, ci sono anche molte altre cause della nostra incapacità di attrarre gli investimenti stranieri; ma questa, sicuramente tra le più rilevanti, fino a oggi è stata gravemente sottovalutata, quando non del tutto negata.

È davvero intraducibile in inglese la legislazione italiana in materia di lavoro?
Lo chieda a qualsiasi avvocato a cui venga chiesto da un cliente straniero di tradurre le nostre norme in materia di cassa integrazione, di contratto a termine, di apprendistato, o di part-time. Inoltre, utilizziamo concetti e relativi termini che non si possono proprio tradurre in inglese: per esempio quello di “causa” del contratto. Mentre ne ignoriamo totalmente altri, che sono di importanza decisiva per gli investitori stranieri: come quello di “severance cost”, cioè costo predeterminabile della separazione dal lavoratore per motivi economici o organizzativi.

Può farci il nome di qualche impresa che davvero ha deciso di non investire in Italia per queste ragioni?
Sei anni fa ho dedicato un libro, “A che cosa serve il sindacato” (Mondadori), a dimostrare questo assunto. Lì ho descritto dettagliatamente diversi casi aziendali: non ho avuto una sola smentita.

Crede che molte altre aziende seguiranno l’esempio della Fiat, con accordi che prevedano investimenti solo se con deroghe rispetto ai contratti nazionali?
Non credo che questo accadrà diffusamente nelle aziende a capitale e management italiano. Sicuramente, però, se nel referendum di Mirafiori prevarrà il “sì”, l’esempio Fiat lancerà un messaggio di apertura alle altre grandi multinazionali.

Non teme che l’inasprirsi delle contraddizioni in seno al sindacato, con le reciproce accuse di tradimento, possa provocare un ritorno di fiamma dell’attività terroristica?
Certo, questo rischio c’è. Il terrorismo di sinistra nasce dalla crepa interna della sinistra stessa, divisa tra chi rifiuta il “piano inclinato” delle riforme e chi lo accetta. L’argomento del “piano inclinato”, che è il cavallo di battaglia di tutti i conservatorismi, di destra e di sinistra, tende a drammatizzare qualsiasi cambiamento; e il terrorismo non è altro – per parafrasare Clausewitz - che la prosecuzione di quella drammatizzazione con altri mezzi.
Intervista pubblicata da La Repubblica

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