lunedì 28 febbraio 2011

Partecipazione dei lavoratori nelle imprese venete

Si è svolta oggi una conferenza stampa dei consiglieri regionali Franco Bonfante e Roberto Fasoli per illustrare l’impegno del Partito Democratico a favore della legge regionale n. 5/2010 e, quindi, della partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa.
Dopo il caso Fiat e la conflittualità che ne è nata si ritiene che la partecipazione dei lavoratori nell’impresa possa rappresentare un fattore importante per ridurre la conflittualità e per stipulare la scommessa comune tra i lavoratori e gli imprenditori sui programmi dell’impresa. Inoltre, considerato che l’economia italiana è bloccata perché cresce poco e meno rispetto agli altri paesi ed ai bisogni del sistema, si ritiene che questa prima sperimentazione possa contribuire a migliorare la posizione competitiva delle imprese venete.
Dopo che la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso presentato dal Governo contro la legge regionale n. 5 del 22 gennaio 2010, la quale favorisce la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e gestione d’impresa, mediante agevolazioni fiscali e creditizie per imprese e lavoratori, nonché l’assicurazione contro i rischi di insolvenza, il gruppo consiliare del Partito Democratico della Regione Veneto ha presentato un emendamento al fine di finanziare tale provvedimento.
"Un anno fa il governo di cui Zaia era Ministro presentò ricorso contro la legge approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale presentata dal PD sulla partecipazione dei lavoratori alla proprietà e gestione d’impresa. Ora, dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha respinto il ricorso del Suo governo Zaia esulta….. . e noi con lui …. “ Con questa dichiarazione il Vice-Presidente del Consiglio Regionale ed esponente del PD Franco Bonfante, autore e primo firmatario della legge, e il Vice Presidente della Commissione Attività Economiche e Lavoro Roberto Fasoli hanno aperto la conferenza stampa tenutasi oggi a Verona.
“Siamo anche convinti, hanno continuato Bonfante e Fasoli, “che per avere effetto la legge deve essere finanziata, per cui abbiamo oggi depositato un emendamento al Bilancio regionale 2011 e triennale 2011 – 2013 che prevede il suo finanziamento per 700.000 euro per il 2011 e 1 milione di euro per ciascuno dei due seguenti anni. Ricordiamo che la legge era stata finanziata nel corso del 2010 per 700.000 euro, poi eliminati dal Bilancio proprio a seguito del ricorso del governo. Si tratta semplicemente di ripristinarli e a questo punto Zaia non si può tirare indietro: aspettiamo un suo segnale positivo ed allora riconosceremo che le sue dichiarazioni per un federalismo concreto, che aiuta le imprese e i lavoratori, sono sincere”.
Dall’approvazione di tale finanziamento dipende la realizzazione degli obiettivi che la legge si pone in materia di partecipazione dei lavoratori.
E’ il percorso tracciato dalla Germania, che, non a caso, in questo momento risponde meglio degli altri principali Paesi Europei alle sfide conseguenti alla crisi internazionale: la compartecipazione e la cogestione dei lavoratori aiuta la qualità del prodotto, migliora le performance delle aziende, riducendone i conflitti.
La legge è la prima e unica nel panorama italiano, nel quale tanti sono i proclami e pochi i fatti veri.
Il ministro del Lavoro Sacconi, responsabile del blocco della legge nazionale sulla partecipazione dei lavoratori nonostante l’impegno bipartisan della commissione lavoro, non ha rilasciato alcuna dichiarazione sull’avvenimento positivo per il Veneto.

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Poveri, noi. Convegno a Verona

Si svolge a Verona un convegno per presentare il libro di Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, 2010.
L’incontro si svolgerà in Corte Molon, via della Diga n. 17, alle ore 20,30.
Discute con Marco Revelli Roberto Fasoli, consigliere regionale del Partito Democratico.
L’incontro è introdotto da Vincenzo D’Arienzo, segretario provinciale del PD di Verona.
E’ un incontro molto importante per discutere di povertà, di nuove povertà, di crescita, di recessione e delle tante contraddizioni che caratterizzano il nostro paese. Una di queste è rappresentata dall’immagine di un paese moderno che realmente non lo è.
Recensione del libro
“Nel clima di crisi globale, anche in Italia stanno venendo alla ribalta questioni come l'impoverimento del ceto medio e le disuguaglianze crescenti, e tuttavia il racconto prevalente continua a rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro Paese, sia dal punto di vista economico che sociale. Marco Revelli ha un'opinione diversa. Utilizzando le statistiche ma anche le storie di cronaca, raccontando la difficile realtà dell'economia e della povertà ma anche le emozioni che corrono sotto la superficie visibile sui mass media, in questo libro Revelli ci mostra un'Italia terribilmente fragile, in cui molti, caduta la speranza di migliorare le proprie condizioni, cercano un effimero risarcimento a danno degli ultimi, spingendoli sempre più giù, sempre più ai margini. Un Paese in cui i fondamenti della convivenza civile e forse della stessa democrazia sono erosi dalle disuguaglianze e dal modo in cui la politica, invece di attenuarle, cavalca i risentimenti e il rancore da esse generati. Un Paese in cui "forse per la prima volta nella storia il motto del Boccaccio: "Solo la miseria è senza invidia", non è più valido”.

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venerdì 25 febbraio 2011

Generazione senza speranza

di Emanuele Costa
Recentemente l'ISTAT ha pubblicato il Dossier "Noi Italia". Un documento che, attraverso un abile intreccio tra una sequenza di lettere per formare le parole ed un formicaio di numeri tradotti in percentuale, dà un senso compiuto alla situazione economico/sociale del Paese. Nella Sezione "Mercato del lavoro", un dato emerge con prepotenza: la situazione allarmante e, allo stesso tempo, preoccupante del malessere che circonda le legittime aspirazioni di quel mondo di giovani che si collocano in un range di età compreso tra i 15 ed i 24 anni, ossia quello che si configura come la "generazione del futuro". Nel 2009 il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato al 25,4% (in crescita dal 21,3% registrato nel 2008) a fronte di una media europea del 19,8%. In altre parole, circa un quarto dei ragazzi non riesce a realizzare le proprie aspettative di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro. Per sottolineare la drammaticità del dato, quella che è stata definita come la "generazione del futuro" rischia di convertirsi in una "generazione senza speranza". Alla luce di queste informazioni statistiche, un interrogativo tarda ancora a trovare una risposta: «A cosa serve studiare se poi la realtà non offre alcuna prospettiva?». Nel giugno del 1851 Friedrich ENGELS scriveva a Joseph Arnold von WEYDEMEYER: «Se uno non studia sistematicamente, non arriverà mai a nessun risultato». Anche se il contesto cui si riferiva l'enunciazione del principio era tutt'altro, il suo significato rende, con maggiore incisività, l'idea intorno alla quale si confrontano le giovani generazioni di oggi e di domani. In una società priva di valori è facile perdere la bussola della ragione, intesa come comportamento razionale improntato alla costruzione del proprio futuro. Oggi appare ancora più evidente il senso di smarrimento che un giovane incontra di fronte ad un dilemma esistenziale, che si rispecchia nella forma interrogativa del postulato elaborato da Friedrich ENGELS oltre un secolo fa. Infatti, molti potrebbero, a ragione, contestarne l'assioma, prendendo tristemente atto che, in una società incapace di riconoscere i valori, è vero l'esatto contrario. Così sono molteplici coloro che, presi dallo sconforto, si domandano a cosa possa servire studiare sistematicamente se poi, alla luce dei fatti, non si riesce a raggiungere alcun traguardo, perché quelle abilità alle quali la società di oggi riconosce un valore, si identificano in altre qualità, che nulla hanno a che fare con il merito.

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giovedì 24 febbraio 2011

Federico Testa interroga Roberto Maroni

L’on. Federico Testa del Partito Democratico ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al Ministro degli Interni, Roberto Maroni, sull’equipaggiamento in dotazione alla polizia di Stato della questura di Verona.
Si riporta l’interrogazione integrale di Federico Testa.
Al Ministro dell'interno
- Per sapere - premesso che:
secondo quanto si apprende da un articolo pubblicato sul Corriere di Verona del 4 febbraio 2011 i poliziotti in servizio presso la questura di Verona dispongono di un limitatissimo numero di giubbotti antiproiettile del modello cosiddetto «sottocamiciale», ovvero quelli che possono essere indossati sotto gli indumenti senza che se ne noti la presenza, e che, soprattutto, diversamente da quelli tradizionali, consentono libertà di movimento a bordo dei veicoli di servizio, e più in concreto consentono di salire e scendere dalle auto. Quelli tradizionali, invece, di fatto irrigidiscono il tronco di chi lo indossa, rivelandosi un pericoloso impedimento nelle fasi più delicate degli interventi;
si tratterebbe in altri termini di una protezione da usare in particolari servizi investigativo - operativi, che consente a personale delle forze di polizia in abiti civili di eseguire pedinamenti ed appostamenti nei quali è presumibile possa verificarsi un conflitto a fuoco;
in effetti il pezzo giornalistico prende le mosse da una sparatoria avvenuta in provincia di Modena pochi giorni prima, nel corso della quale è deceduto uno dei rapinatori che gli uomini della squadra mobile della questura di Verona, grazie ad intercettazioni telefoniche, sapevano avrebbero tentato di commettere una rapina. Il redattore dell'articolo evidenzia che i circa dieci poliziotti della questura di Verona, che date le circostanze dovevano necessariamente indossare abiti civili e dissimulare la loro presenza sul luogo dell'appostamento, disponevano di soli sei giubbotti antiproiettile del tipo sottocamiciale. Scendendo nel dettaglio il giornalista ha rappresentato che in realtà la squadra mobile dispone di soli tre giubbotti, mentre gli altri tre erano stati chiesti in prestito alla Digos, che li utilizza ordinariamente per le scorte ai politici;
nel contributo sono state pubblicate anche le dichiarazioni dei rappresentanti territoriali di pressoché tutte le sigle sindacali della polizia di Stato, a tenore delle quali questa situazione sarebbe imputabile alla limitata capienza dei fondi di bilancio destinati all'approvvigionamento ed al rinnovo degli equipaggiamenti. Una situazione grave al punto che negli altri reparti della polizia di Stato della provincia di Verona, che pure operano con modalità quali quelle dianzi segnalate, non solo non sarebbe disponibile alcun giubbotto sottocamiciale, ma addirittura i giubbotti in dotazione, di vecchia generazione e quindi affetti dai vizi dianzi segnalati, sarebbero per giunta scaduti di validità, essendo il materiale protettivo soggetto a naturale decadimento;
in base alle informazioni assunte il costo dei giubbotti antiproiettile sottocamiciali, che tra l'altro vengono indossati anche dalle personalità più esposte a rischio attentati e dalle loro scorte, varia in una forbice compresa all'incirca tra i 700 e i 2000 euro. Dotare quindi la questura di Verona di almeno una ventina di questi modelli comporterebbe un impegno di spesa decisamente contenuto, nell'ordine approssimativo di una somma che può essere stimata intorno ai 25 mila euro;
per quanto è dato sapere la questura di Verona ha da tempo sollecitato l'invio del materiale in questione, senza invero ottenere risposta al riguardo -:
se sia vero che, a fronte di spese sostanzialmente irrilevanti, si metta in discussione la sicurezza della vita di poliziotti per un'asserita carenza di fondi di bilancio;
che cosa intenda fare il Ministro interrogato per rimuovere questa situazione che, se rispondente al vero, oltre che una violazione di ogni comune buon senso, rappresenterebbe, ad avviso dell'interrogante, una vergognosa disistima delle vite del personale delle forze di Polizia che, come attestato dal successo dell'operazione conclusiva delle lunghe indagini condotte nella vicenda della rapina in provincia di Modena di cui in premessa, non esitano a mettere generosamente a rischio la loro stessa incolumità per assicurare alla giustizia pericolosi criminali armati. (4-10899)

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martedì 22 febbraio 2011

Pietro Ichino: relazioni sindacali e lavoro in Italia

Intervista a cura di Antonino Leone al senatore Pietro Ichino in corso di pubblicazione su Sistemi @ Impresa n. 2 – Febbraio 2011.
Dopo il caso Fiat il paese s’accorge che il sistema delle relazioni sindacali è antiquato e contradditorio e la democrazia sindacale va ricostruita su nuove basi. Di tutto questo ne abbiamo discusso con Pietro Ichino nell’intervista che segue.

Dal confronto tra le organizzazioni sindacali nel caso della Fiat di Pomigliano e di Mirafiori sono emerse diverse problematiche e tra queste la mancanza di regole chiare circa il rapporto tra il contratto collettivo nazionale e il contratto aziendale e l’inefficacia della clausola di tregua. Le deroghe al contratto nazionale attraverso quello aziendale pongono le condizioni per valutare le caratteristiche specifiche di ciascuna situazione aziendale o di un territorio al fine di avviare le innovazioni necessarie che servono all’azienda e al Paese?
La metterei piuttosto così: la possibilità di derogare al contratto collettivo nazionale, mediante un contratto aziendale stipulato dalla coalizione sindacale che ne abbia i requisiti di rappresentatività, consente due generi di operazioni utili: A) quella di introdurre innovazioni nell’organizzazione del lavoro, nei tempi di lavoro, nella struttura delle retribuzioni, nel sistema di inquadramento professionale, o in altre materie ancora, che possono consentire di aumentare la produttività e quindi allargare i margini per il miglioramento del trattamento dei lavoratori; B) quella di adattare gli standard minimi di trattamento fissati dal contratto nazionale alle condizioni particolarmente svantaggiate di una determinata zona o regione.

Il contratto collettivo nazionale di un intero settore da applicare alle grandi industrie impegnate in produzioni e territori diversi possono rappresentare un ostacolo alle esigenze di sviluppo della singola unità produttiva che presenta caratteristiche peculiari?

Ho dedicato un libro, pubblicato sei anni fa (A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005), a dimostrare il punto che le deroghe al contratto collettivo nazionale, motivate dalla situazione peculiare o dalle esigenze di un piano industriale particolarmente innovativo, possono sì portare effetti negativi, ma possono anche portarne di molto positivi, in termini di aumento della produttività e di miglioramento delle condizioni di lavoro. Non possiamo, per paura delle innovazioni negative, chiuderci anche alle innovazioni positive. Anche perché la maggior parte dei nostri contratti collettivi nazionali è stata scritta più di trent’anni or sono.

Altri problemi riguardano la democrazia sindacale e sono rappresentati dal diritto di veto che può essere esercitato dall’organizzazione sindacale minoritaria che non ha firmato il contratto e dalla sua esclusione dal diritto di rappresentanza nell’azienda. Ritiene che il problema possa essere risolto con un accordo tra le confederazioni sindacali nel breve periodo od occorre l’approvazione di una legge nel caso in cui le organizzazioni sindacali abbiano posizioni divergenti?
Non c’è dubbio che in questo campo il first best sia costituito da un accordo interconfederale nazionale sottoscritto da tutte le maggiori confederazioni sindacali e imprenditoriali. Ma mi sembra improbabile che a questo si arrivi in tempi brevi. Dunque occorre ripiegare sul second best: un intervento legislativo snello, che disciplini la materia in via provvisoria e sussidiaria, contenente la “clausola di cedevolezza”, cioè quella che prevede il prevalere comunque dell’eventuale disposizione contrattuale collettiva che intervenga in futuro a disciplinare la materia, rispetto alla norma legislativa.

Come superare la frattura che si è verificata nella Fiat e controllare l’attuazione della sfida di Marchionne, il quale ha promesso salari più alti ed azioni ai lavoratori?
Il sindacato serve proprio a questo: esso deve essere l’intelligenza collettiva che consente ai lavoratori innanzitutto di valutare il piano industriale proposto dall’imprenditore e, in caso di valutazione positiva, di stipulare la scommessa comune con l’imprenditore su quel piano. Ma che esercita anche il controllo sull’andamento della realizzazione del piano e, a scommessa vinta, controlla che i suoi frutti vengano distribuiti correttamente tra le parti.

Può essere utile l’ampliamento degli spazi di partecipazione dei lavoratori nell’impresa?
Sì. Sarebbe utilissimo che l’ordinamento ponesse a disposizione del sistema delle relazioni industriali un’ampia gamma di forme di partecipazione e controllo dei lavoratori nell’impresa, ciascuna attivabile mediante un contratto aziendale istitutivo: questo faciliterebbe molto la stipulazione della scommessa comune di cui abbiamo parlato prima. Questo è quanto è previsto nel testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione, che ho redatto nella primavera del 2009 in qualità di relatore per la Commissione Lavoro del Senato su quei progetti. Quel disegno di legge aveva raccolto un larghissimo consenso bi-partisan in seno alla Commissione. Sennonché nell’autunno di quell’anno il ministro del lavoro Sacconi, anche su sollecitazione della Confindustria, ha posto il veto alla prosecuzione dell’iter parlamentare di quel progetto. E a tutt’oggi la situazione è ancora bloccata.

L’economista Fiorella Kostoris ritiene che per far aumentare l’occupazione occorre “uno scambio tra salario orario e salario complessivo, con il primo che scende mantenendo intatto il secondo, con la conseguenza di far aumentare il numero delle ore lavorate”. Esistono delle alternative alla proposta della Kostoris per abbassare il costo del lavoro per dipendente e unità prodotta che tenga conto che in Italia i salari sono bassi rispetto agli altri stati e la produttività tende a diminuire?
A mio modo di vedere, l’unico modo in cui possiamo far aumentare sensibilmente l’occupazione nel nostro Paese è aprirlo agli investimenti stranieri: ai quali esso oggi è drammaticamente chiuso. Per questo è indispensabile correggere i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche, prima fra tutte quella della giustizia, migliorare le infrastrutture, ridurre i costi dei servizi alle imprese introducendo maggiore concorrenza nei rispettivi mercati. Ma è necessario anche semplificare la nostra legislazione del lavoro, rendendola traducibile in inglese; e riformare il nostro sistema delle relazioni industriali per renderlo meno vischioso e inconcludente di quanto sia oggi. Un passo indispensabile in questa direzione consiste in una riforma del diritto sindacale che aprirsi alle innovazioni di cui abbiamo parlato prima, nell’organizzazione del lavoro, nella struttura delle retribuzioni, o in qualsiasi altro aspetto del rapporto di lavoro.

Durante il periodo immediatamente precedente al referendum alla Fiat Mirafiori abbiamo assistito a posizioni politiche da parte di Sinistra e Libertà, Italia dei Valori (favorevoli al “no”) e del Capo del Governo non rispettose dell’autonomia sindacale (favorevole all’idea che la Fiat debba lasciare l’Italia se dovesse perdere il referendum). Il Partito Democratico, pur assumendo una posizione tiepida e favorevole al si, ha criticato alcuni punti dell’accordo: la clausola di responsabilità e la non rappresentanza della Fiom nella Fiat in quanto non ha sottoscritto l’accordo. Vi è il rischio di ritornare ad un nuovo collateralismo tra le organizzazioni sindacali ed i partiti?
Questo rischio effettivamente c’è. La politica dovrebbe rispettare maggiormente l’autonomia dei sindacati. Questi ultimi, dal canto loro, dovrebbero resistere più di quanto oggi non mostrino di saper fare alle lusinghe del rapporto privilegiato con questa o quella maggioranza di governo.

Qual è il bilancio che lei trae dell’iniziativa legislativa di questo Governo in materia di lavoro, a due terzi della legislatura?
Un bilancio negativo: sul piano legislativo, in materia di lavoro, il Governo ha fatto veramente poco. Il Collegato-lavoro, l’unica legge importante varata in questa materia, è un minestrone illeggibile, nel quale due delle tre norme veramente importanti – in tema di arbitrato e di applicazione giudiziale delle clausole generali - sono strutturate così male, che non produrranno alcun effetto. La terza, in materia di termine di decadenza per l’impugnazione dei contratti a termine, è già abrogata con il decreto Milleproroghe approvato dal Parlamento in questi giorni. Il resto sono tutte chiacchiere.

E sul piano delle “politiche” non legislative?
Su questo piano imputo al ministro Sacconi di avere lavorato soltanto per la spaccatura del fronte sindacale e l’isolamento della Cgil. E di non aver saputo promuovere l’accordo interconfederale di cui ci sarebbe bisogno per la riforma del sistema delle relazioni industriali: l’accordo del 2009 sulla struttura della contrattazione era così poco incisivo, che a poco più di un anno di distanza esso si è rivelato superato, a seguito della vicenda Fiat.

Ritiene importante la riforma degli ammortizzatori sociali e una sua integrazione con servizi efficaci di orientamento e riqualificazione professionale e ricollocazione dei lavoratori licenziati?
Non importante: essenziale.

Una politica attiva del lavoro ridurrebbe il finanziamento di interventi a sostegno del reddito in rapporto alla possibilità di realizzare la rioccupazione dei lavoratori licenziati?
Il disegno di legge n. 1873/2009, di cui sono primo firmatario, prevede la riconduzione della Cassa integrazione alla sua funzione originaria, limitata al sostegno del reddito nei casi di sospensione con prospettive reali di ripresa del lavoro nella stessa azienda. Affida invece la funzione di garanzia della continuità del reddito nel caso di licenziamento a un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa che licenzia, in cambio della soppressione del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In questo modo l’azienda stessa è incentivata ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata, per ridurre al minimo il periodo di disoccupazione del lavoratore licenziato.

In questo momento di grave incertezza istituzionale e di scarsa operatività del Governo per le vicende del premier quali progetti da lei presentati in materia di lavoro risultano fermi senza alcuna prospettiva di soluzione?
Sono fermi tutti. In particolare, oltre a quello che ho appena citato, il 1873/2009, che con il 1872/2009 delinea il nuovo Codice del lavoro semplificato, sono totalmente fermi anche il n. 1481/2009 sulla sperimentazione di un modello di flexsecurity nelle aziende disponibili e quello sullo sciopero nei servizi pubblici.

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Enrico Morando: economia, giovani e donne in Italia

Intervista a cura di Antonino Leone al senatore Enrico Morando in corso di pubblicazione su Sistemi @ Impresa n. 2 – Febbraio 2011
L’economia italiana cresce in modo lento e al di sotto delle necessità del paese, la disoccupazione giovanile e femminile è esplosa e i giovani che non lavorano e non seguono programmi formativi continuano a crescere. Di tutto questo ne abbiamo discusso con il senatore Enrico Morando nell’intervista che segue.

Perché l’economia italiana viene definita bloccata?
Semplicemente perché non cresce, da troppo tempo. Nei dieci anni che vanno dal 1999 al 2009, l'Italia è cresciuta ad una media dello 0,5% all'anno. Nessuno, tra i 34 Paesi OCSE, ha fatto peggio di noi. Nei periodi buoni, cresciamo meno degli altri partners dell'area Euro. Nei due anni della Grande Recessione, siamo caduti di più. Per tornare dove stavamo nel 2007, impiegheremo almeno il doppio del tempo impiegato dalla Germania. È vero che siamo un Paese ad esasperato dualismo: il Nord è come e meglio della Francia, il Sud è decisamente peggio del Portogallo. Ma non riusciamo ad imprimere al Sud un ritmo di crescita più rapido, come ha saputo fare la Germania con l'Est, dopo l'unificazione.
In nostri tre fondamentali problemi (inefficienza economica, disuguaglianza crescente e debito pubblico troppo elevato) si aggravano progressivamente, impedendo ai fattori dinamici di sprigionare le loro potenzialità. Dunque, c'è bisogno di una coerente strategia della politica (che non può tutto, ma può ancora molto) che li aggredisca contemporaneamente: 1) riduzione del volume globale del debito, in tre mosse: regola di evoluzione della spesa in rapporto al Prodotto, un avanzo strutturale dello 0,5 del PIL per molti anni a venire; valorizzazione/alienazione di quote significative dell'ingente patrimonio pubblico (proposta Guarino); contributo straordinario per soli tre anni ad aliquota moderata (0,5% al massimo) esclusivamente sulla quota (50%) di patrimonio privato posseduta dal 10% patrimonialmente più dotato della popolazione (quindi, il ceto medio non c'entra proprio nulla). 2) Riforme che non costano, dalle liberalizzazioni (es. separazione proprietaria delle rete del gas da ENI) al nuovo modello contrattuale, capace di premiare la produttività; 3) Riforme che costano, dagli ammortizzatori sociali di tipo universale all'alleggerimento della pressione fiscale sul lavoro, sull'impresa e sul reddito da lavoro delle donne, finanziate la prima con risparmi di spesa da ristrutturazione della Pubblica Amministrazione, la seconda con i proventi da lotta all'evasione fiscale.

Si afferma che l’Italia non sia un paese per i giovani e per le donne? Quanto di vero c’è in queste affermazioni?La partecipazione delle donne alle forze di lavoro in Italia è la più bassa tra i grandi Paesi dell'UE. Questo significa che, specie al Sud, le donne giovani - in età di lavoro - sono così sfiduciate circa la possibilità di trovare un lavoro regolare che non lo cercano nemmeno più: o stanno a casa, o lavorano in nero. Risultato: gettiamo via la principale risorsa di cui il Paese dispone per reagire al lungo periodo di bassa crescita. E peggioriamo la qualità sociale e le stesse prospettive demografiche (altro che angelo del focolare: le donne che lavorano fanno più figli di quelle costrette alla disoccupazione). Tutto questo, mentre trovano sistematicamente conferma le valutazioni statistiche circa i migliori risultati delle ragazze rispetto ai coetanei maschi, sia a scuola, sia nel lavoro. Si può fare qualcosa, per reagire a questo stato di cose? Certamente sì, a partire dalle politiche di conciliazione (asili nido, anche privati, specie nel Sud; dote fiscale per i figli e persone non autosufficienti assistite in famiglia). Penso però che bisognerebbe andare oltre, aggredendo anche il lato "culturale" della questione. Per questo ho tradotto la splendida analisi di Alesina ed Andrea Ichino (L'Italia fatta in casa - Mondadori) in un disegno di legge per la riduzione del prelievo IRPEF sul reddito da lavoro delle donne. Quale che sia il tipo di lavoro: dipendente, autonomo, professionale, parasubordinato.... Mi rendo conto che è "roba forte", difficile da digerire. Ma quando ci vuole, ci vuole....

Quali sono i fattori negativi che impediscono la crescita dell’economia italiana? Il senatore Pietro Ichino afferma che il sistema delle relazioni sindacali non attira gli investimenti delle grandi multinazionali. Lei condivide l’affermazione e perché? Noi non attiriamo investimenti diretti esteri per molte ragioni, che hanno a che fare col cattivo funzionamento della Pubblica Amministrazione - la giustizia civile, in primo luogo - con regole contrattuali vecchie e inefficaci, con la persistente incapacità dello Stato di tenere ben saldo nelle sue mani il monopolio della violenza, specie nel Sud.
La recente vicenda FIAT - se ce ne fosse stato bisogno - costituisce un'ulteriore conferma di questo giudizio. Di fronte ad un Piano di investimenti e di ristrutturazione particolarmente impegnativo, il nostro sistema delle relazioni tra le parti ha mostrato tutti i suoi difetti, su due temi cruciali: la partecipazione dei lavoratori alla gestione della azienda, così da poter fare una scommessa di lungo periodo sul successo dell'azienda stessa; e le regole della rappresentanza. Su entrambi questi aspetti, abbiamo da tempo presentato - col senatore Pietro Ichino - precise proposte di soluzione, anche legislative. Non se ne è fatto niente, col risultato di giungere del tutto impreparati all'appuntamento di Pomigliano e Mirafiori. Speriamo almeno che la lezione sia servita.

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lunedì 21 febbraio 2011

Interrogazione di Stefano Ceschi al Sindaco di Bussolengo

La Giunta Comunale di Bussolengo è tra le poche amministrazioni comunali gestite dal centro destra che ha deciso di deliberare l’adeguamento dell’ordinamento senza passare per il Consiglio Comunale, il quale è competente a stabilire prioritariamente i criteri generali.
“La Giunta comunale di Bussolengo, dichiara Stefano Ceschi, ha deliberato (delibera n. 183 del 23/12/2010) la modifica e l'integrazione del regolamento comunale sull'ordinamento degli uffici e dei servizi per adeguarlo alle disposizioni del D. LGS. n. 150/2009”.
“Tale delibera, continua Stefano Ceschi, poteva essere fatta dalla Giunta dopo l'approvazione da parte del Consiglio Comunale dei criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi al fine di adeguarlo alle disposizioni del D. Lgs. n. 150/2009. Infatti l'art. 42, comma 2, lettera a) del D. Lgs. n. 267/2000 riserva al Consiglio Comunale l'approvazione dei criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi e l'art. 48, comma 3, del citato decreto n. 267/2000 stabilisce che è di competenza della Giunta l'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio. Quindi dalla lettura di tali articoli, la Giunta non poteva integrare con sei nuovi articoli il regolamento comunale senza previa delibera del Consiglio Comunale sui criteri generali da seguire in materia”.
Il capo gruppo dei consiglieri comunali del Partito Democratico, Stefano Ceschi, chiede “se è intenzione di questa amministrazione e del Sindaco portare in Consiglio Comunale per essere esaminata la delibera n. 183 del 23/12/2010 per la parte relativa ai criteri generali? mentre per la parte riguardante la modifica e l'integrazione del regolamento può essere effettuata dalla Giunta, come spiegato in precedenza, dopo l'approvazione di tali criteri generali da parte del Consiglio Comunale”.
La Giunta Comunale ha deciso, inoltre, di confermare il Nucleo di valutazione assegnando ad esso le competenze attribuite dall’art. 7 e 14 del D. Lgs. n. 150/2009 all’Organismo di valutazione indipendente (Oiv). La Giunta Comunale di Bussolengo non tiene presente che l’Oiv esercita altre funzioni stabilite in diversi articoli del decreto.
Il nucleo è composto da due membri esterni ed è presieduto dal Segretario Generale. Con questa decisione la Giunta Comunale ha istituito un organo, il Nucleo di Valutazione, che non è per niente autonomo ed indipendente in quanto è presieduto dal Segretario Generale. Inoltre, la Giunta ha evitato di ricorrere per la selezione dei membri del Nucleo ai requisiti di professionalità molto elevate stabiliti dalla CiVIT con delibera n. 4 del 2010.
La Giunta Comunale non tiene presente che il Nucleo di valutazione è correlato alle riforme degli anni ’90 ed a quel periodo storico. Oggi invece vi sono esigenze e bisogni, diversi rispetto agli anni ’90, ai quali il D. Lgs. n. 150/2009 offre delle risposte introducendo i seguenti fattori: misurazione, valutazione e trasparenza. Tali fattori con le delibere n. 163 del 2/12/2010 e n. 183 del 23/12/2010 sono stati disattesi dalla Giunta Comunale di Bussolengo, la quale non ha rispettato le competenze del Consiglio Comunale in materia di criteri generali finalizzati all’adeguamento dell’ordinamento comunale, non ha adeguato il Regolamento Comunale degli uffici e dei servizi alle disposizioni richiamate dall’art. 31, comma 1 in materia di merito e premi, non ha coordinato il ciclo di gestione della performance con il piano della performance e gli strumenti di pianificazione e programmazione del Comune.
La Giunta Comunale di Bussolengo ha commesso l’errore di ritenersi autosufficiente, depositaria della verità e sorda di fronte alle opinioni che potevano essere utili al Comune ed ai cittadini di Bussolengo.

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Stefano Ceccanti, art 41 della Costituzione

articolo di Stefano Ceccanti pubblicato sul Sole 24 Ore del 20 febbraio 2011
Luca Antonini sul Sole dell’11 febbraio afferma molte cose giuste in chiave anti-statalista e di valorizzazione del principio di sussidiarietà, le quali, però, non confermano affatto il suo tentativo di difendere la riforma dell’articolo 41 della Costituzione.
Trovatosi di fronte all’indubbio dato per il quale nessuna norma liberalizzante è mai stata dichiarata incostituzionale sulla scorta dell’ingiustamente vituperato terzo comma dell’art. 41 (scritto in una chiave volutamente e consapevolmente non dirigistica dal dc Taviani e dal socialdemocratico Meuccio Ruini) , Antonini prova a utilizzare l’argomento capovolto, essa avrebbe quanto meno il torto di non essere mai stata utilizzabile per far dichiarare incostituzionale nessuna legge di complicazione, di non aver funzionato da deterrente.
Il punto è che invece ciò è proprio accaduto in ben tre casi.
Qui il resto del postLa sentenza 54/1962 rimosse una normativa pre-costituzionale che metteva vincoli sul commercio dell’essenza di bergamotto perché veniva violata la riserva di legge. La 78/1970 rimosse varie normative, per lo più pre-costituzionali, che ponevano vincoli all’iniziativa privata in materia di fiammiferi e apparecchi automatici di accensione. Già in essa si spiegava chiaramente che: “I programmi e i controlli che possono essere imposti alla attività economica privata (terzo comma del ricordato art. 41) non debbono poi sopprimere l’iniziativa individuale, potendo essi soltanto tendere ad indirizzarla ed a condizionarla.” Da notare l’estrema cautela linguistica di quel “tendere a”.
Pertanto, soprattutto rispetto alla legislazione precedente, già con queste due sentenze si dimostra che l’articolo 41, terzo comma, è stato ritenuto più liberalizzante e in grado di travolgere norme troppo dirigistiche.
Ma ancor più rilevante e decisiva è stata poi l’ultima sentenza che ha utilizzato tale parametro, la 548/1990, in un caso relativo a una concessione che rigettava l’istanza di autorizzazione al trasporto merci in conto terzi di un semi-rimorchio. Nelle motivazioni di tale sentenza si precisa che, sulla base dell’intero art. 41, compreso il terzo comma, “l’intervento legislativo non sia (possa essere) tale da condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell’attività economica di cui si tratta, sacrificandone le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle stesse scelte organizzative”.
Esattamente gli obiettivi che si propone Antonini e che descrive nel suo articolo.
La pseudo-riforma vuole pertanto retoricamente sfondare porte già aperte, anzi spalancate.

Articolo di Luca Antonini

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giovedì 17 febbraio 2011

Diego Zardini scrive a Giovanni Miozzi

L’interrogazione da me presentata al Consiglio Provinciale di Verona sull’attuazione della riforma della PA ha registrato una Sua reazione positiva particolarmente apprezzata. Tuttavia si prende conoscenza di due delibere della Giunta Provinciale che non favoriscono l’attuazione della riforma delle PA perché utilizzano degli artifici giuridici per affermare che “tutto è stato fatto” mentre non è così. Tutto questo sorprende per i seguenti motivi:
- Lei Presidente aveva apprezzato l’interesse del gruppo consiliare del Partito Democratico a favore della riforma ed aveva espresso apertura ad una forma di collaborazione in commissione consiliare;
- Il consiglio comunale di Isola della Scala, dove Lei è sindaco, ha approvato gli indirizzi per la definizione del Regolamento degli uffici e dei servizi alla luce del D. Lgs. n. 150/2009 con l’astensione dei consiglieri del PD, utilizzando un iter procedurale giuridicamente corretto e richiamando i principi generali della riforma della PA.
Ci si domanda perché, Presidente assume comportamenti contraddittori nella Provincia rispetto al comune di Isola della Scala. Poiché non si intende mettere in dubbio le Sue buone intenzioni di collaborazione si è indotti a pensare che la burocrazia provinciale abbia prevalso, proponendo l’adozione di provvedimenti che sul piano politico creano difficoltà di collaborazione tra la maggioranza ed il gruppo consiliare del PD e sul piano manageriale ed organizzativo non cambiano proprio nulla.
Deliberazione della Giunta Provinciale n. 312 del 30 dicembre 2010: “Approvazione delle modifiche al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi”Con tale deliberazione la Giunta Provinciale ha modificato il regolamento degli uffici e dei servizi e non ha tenuto in considerazione le competenze del Consiglio Provinciale stabilite dall'art. 42, comma 2, lettera a) del D. LGS. n. 267/2000 che recita “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: a) …….. criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi”. Avvenuta l’approvazione da parte del Consiglio dei criteri generali la Giunta può procedere ai sensi dell’articolo 48, comma 3, alla deliberazione di integrazione e modifica del regolamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio. La deliberazione richiama solo l’art. 48 e non l’art. 42 dove sono specificate le competenze del Consiglio provinciale.
Entrando in merito ai contenuti della delibera si fa presente che nel corpo dell’atto non sono indicate specificatamente le modifiche e le integrazioni effettuate al Regolamento, arrecando scarsa chiarezza. Alla delibera è stata allegata la proposta che non risulta molto chiara nelle modifiche e nelle integrazioni.
La deliberazione approvata fa un riferimento generale al D. Lgs. n. 150/2009, pur dovendo essere il motivo dominante delle modifiche del Regolamento, e non specifico ed esplicito alle disposizioni che interessano gli enti locali al fine di adeguare l’ordinamento provinciale.
Le disposizioni introdotte dal D. Lgs. n. 150/2009 possono classificarsi in due differenti tipologie:
- Norme di competenza esclusiva dello Stato che sono immediatamente applicabili agli enti locali dall’entrata in vigore del decreto (articoli richiamati dall’art. 16, comma 1 e dall’art. 74, comma 1);
- Norme che indicano i principi ai quali gli enti locali adeguano il proprio ordinamento entro il 31 dicembre 2010 (articoli richiamati dall’art. 16, comma 2, dall’art. 31, comma 1 e dall’art. 74, comma 2).
L’Amministrazione Provinciale avrebbe già dovuto applicare le disposizioni del primo gruppo e procedere all’adeguamento, entro il 31/12/2009, del proprio ordinamento alle norme del secondo gruppo nel rispetto dell’art. 42, comma 2, lettera a) e dell’art. 48 , comma 3 del D. Lgs. n. 267/2000. Tutto questo non è avvento.
Inoltre, la deliberazione fa presente che non vi è l’obbligo per gli enti locali di istituire l’Organismo indipendente di valutazione (Oiv) ed introduce delle modifiche al regolamento finalizzate a modificare le competenze del Nucleo di valutazione (allegato a).
Il nucleo di valutazione è stato introdotto nell’ordinamento negli anni ’90 in condizioni organizzative ed ambientali legate a quel periodo e ad esso sono state affidate competenze specifiche rapportate a quel momento storico.
La istituzione dell’Oiv è discrezionale per non obbligare gli enti locali di piccole e piccolissime dimensioni a costituire tale organismo. Al contrario gli enti locali di grandi dimensioni come la Provincia di Verona dovrebbero dotarsi dell’Oiv per l’importanza strategica che esso assume nell’ambito della riforma delle PA.
Il tentativo della Giunta Provinciale di confermare il Nucleo di Valutazione e nello stesso tempo di adeguarne in parte le competenze al D. Lgs. n. 150/2009 non è corretto in quanto tale organo è disciplinato specificatamente dal D. Lgs. n. 29/1993 e n. 286/1999 e non dal D. Lgs. n. 150/2009. Questo intervento dimostra chiaramente che le funzioni e le competenze del Nucleo di Valutazione sono inadeguate rispetto alla portata del cambiamento effettuato dal Decreto e delle competenze attribuite all’Oiv.
L’Oiv esercita in piena autonomia le funzioni le attività di controllo strategico di cui all’articolo 6, comma 1, del D. Lgs. n. 286/1999 (già attribuite a suo tempo ai servizi di controllo interno o nuclei di valutazione) e le funzioni indicate dal comma 4, dell’art. 14 del D. Lgs. n. 150/2009.
Se l’Oiv riassume in se le funzioni del Nucleo di Valutazione e le attività assegnate dal D. Lgs. n. 150/2009 perché la Giunta Provinciale intende confermare tale organo? Qual’è il motivo strategico di mantenere in vita un organismo le cui funzioni sono limitate e non coerenti alla riforma delle PA?
Per chiarezza si indicano le attività che l’Oiv esercita:
articolo 6, comma 1, del D. Lgs. n. 286/1999“La valutazione e il controllo strategico
1. L’attività di valutazione e controllo strategico mira a verificare, in funzione dell’esercizio dei poteri di indirizzo da parte dei competenti organi, l’effettiva attuazione delle scelte contenute nelle direttive e altri atti di indirizzo politico. L’attività stessa consiste nell’analisi preventiva e successiva, della congruenza e/o degli eventuali scostamenti tra le missioni affidate dalle norme, gli obiettivi operativi prescelti, le scelte operative effettuate e le risorse umane, finanziarie e materiali assegnate, nonché nella identificazione degli eventuali fattori ostativi, delle eventuali responsabilità per la mancata o parziale attuazione, dei possibili rimedi”.
art. 14, comma 4, del D. Lgs. n. 150/2009“4. L’Organismo indipendente di valutazione della performance:
a) monitora il funzionamento complessivo del sistema della valutazione, della trasparenza e integrità dei controlli interni ed elabora una relazione annuale sullo stato dello stesso;
b) comunica tempestivamente le criticità riscontrate ai competenti organi interni di governo ed amministrazione, nonché alla Corte dei conti, all’Ispettorato per la funzione pubblica e alla Commissione di cui all’articolo 13;
c) valida la Relazione sulla performance di cui all’articolo 10 e ne assicura la visibilità attraverso la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione;
d) garantisce la correttezza dei processi di misurazione e valutazione, nonché dell’utilizzo dei premi di cui al Titolo III, secondo quanto previsto dal presente decreto, dai contratti collettivi nazionali, dai contratti integrativi, dai regolamenti interni all’amministrazione, nel rispetto del principio di valorizzazione del merito e della professionalità;
e) propone, sulla base del sistema di cui all’articolo 7, all’organo di indirizzo politico-amministrativo, la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e l’attribuzione ad essi dei premi di cui al Titolo III;
f) è responsabile della corretta applicazione delle linee guida, delle metodologie e degli strumenti predisposti dalla Commissione di cui all’articolo 13;
g) promuove e attesta l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità di cui al presente Titolo;
h) verifica i risultati e le buone pratiche di promozione delle pari opportunità.”
Inoltre, l’Oiv svolge altre funzioni indicate in diversi articoli del decreto.Le competenze di cui è titolare l’Oiv sono ampie, coese e strategiche rispetto ai contenuti della riforma introdotta con il D. Lgs. 150/2009, mentre la posizione e le funzioni del Nucleo di Valutazione sono correlate alle riforme degli anni ’90, le quali hanno introdotto strumenti diversi rapportati a quel periodo ed insufficienti rispetto ai problemi attuali. Se nel 2009 vi è stata l’urgenza e la necessità di avviare una nuova riforma significa che occorreva riadattare le PA all’evoluzione della società ed alle esigenze degli utenti. Pertanto, si ritiene di assecondare in tutti i suoi aspetti, compresa la istituzione dell’Oiv, i contenuti del D. Lgs. n. 150/2009 nel rispetto dell’autonomia dell’ente locale. Inoltre, occorre considerare che ai componenti dell’Oiv sono richieste delle conoscenze e competenze alte, stabilite dalla delibera n. 4/2010 dalla Civit, di cui la Provincia può avvalersi per attuare con efficienza ed efficacia la riforma delle PA.
Per i motivi esposti il gruppo consiliare del Partito Democratico è favorevole alla istituzione dell’Oiv nella Provincia e richiede il rispetto delle competenze del Consiglio Provinciale stabilite dall'art. 42, comma 2, lettera a).
Deliberazione della Giunta Provinciale n. 6 del 31 gennaio 2011: “Sistema provinciale di controllo guida relativo al piano di performance”Questa delibera, come la precedente, è viziata dal fatto che il Consiglio Provinciale non ha approvato i criteri generali di adeguamento del Regolamento degli uffici e dei servizi al D. Lgs. n. 150/2009 per poi consentire alla Giunta Provinciale di modificare ed integrare l’ordinamento provinciale.
La delibera fa espresso riferimento all’art 10 del D. Lgs. n. 150/2009 “Piano della performance e relazione sulla performance”, disposizione questa che non si applica agli enti locali e, pertanto, la scadenza del 31 gennaio si riferisce agli enti non territoriali.
In materia di performance si applica l’art. 4 del decreto “Ciclo di gestione della performance” cosi come indicato dall’art. 16, comma 2 “Norme per gli enti territoriali e il Servizio sanitario nazionale”. Tale disposizione fa parte del gruppo di norme che indicano i principi ai quali l’Amministrazione Provinciale è tenuta ad adeguare il proprio Regolamento degli uffici e dei servizi (criteri generali deliberati dal Consiglio Provinciale e modifica ed integrazione del Regolamento disposti dalla Giunta Provinciale). In sede di prima applicazione il ciclo di performance va adottato entro la data di approvazione del bilancio 2011 al fine di garantirne l’operatività.
Nella deliberazione si afferma che “non si rende necessario predisporre un distinto piano della performance in quanto la relativa previsione normativa non è applicabile agli enti locali”. Tale affermazione è condivisibile nel caso in cui viene completata con il riferimento specifico all’art. 10 del D. Lgs. n. 150/2009.
La Giunta Provinciale delibera “di dare atto che la Provincia all’interno del proprio sistema di controllo guida dispone dei documenti programmatici che integrano i contenuti previsti dal decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 per il piano della performance”. Sembra che tutto sia stato contemplato prima dell’emanazione del D. Lgs. n. 150/2009. Ma non è cosi in quanto il suddetto sistema prevede un processo di pianificazione e valutazione dei risultati dettato dal Dls. 267/2000 e, quindi, occorre integrarlo ed allinearlo con le novità introdotte dal D. Lgs. n. 150/2009.
L’introduzione del ciclo di gestione della performance ha importanti implicazioni nella Provincia in quanto consente: - di rafforzare i legami tra politica, strategia e operatività; - di attuare i programmi di trasparenza ed integrità; - di realizzare un rapporto con i cittadini attraverso la introduzione degli outcome; di migliorare i processi di produzione dei servizi attraverso l’utilizzo delle informazioni derivanti dal sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale e dai feedback formalizzati.
Per l’attuazione del ciclo di gestione della performance occorre introdurre diversi elementi fondamentali tra i quali si indicano:
- il piano della performance. Nella realizzazione del piano, indicato dalle delibere della CiVIT e dalle linee guida dell’Anci, l’Amministrazione Provinciale interviene con autonomia e senza alcun riferimento all’art. 10 del D. Lgs. n. 150/2009. Il piano è un documento programmatico in cui sono espressi gli obiettivi, le risorse, gli indicatori, i target e gli outcome (valore prodotto dalle PA nell’erogazione dei servizi). Sul piano poggia la misurazione, la valutazione e la comunicazione della performance.
- Il coordinamento reale e non formale del piano della performance con gli strumenti di pianificazione e programmazione della provincia. L’Anci afferma nelle linee guida che “le fasi e le attività del ciclo della performance ..….. possano essere sviluppate capitalizzando approcci, modelli e strumenti già in uso, coniugando due specifiche esigenze: 1) raccordare le regole e gli strumenti pre-esistenti alla previsione normativa contenuta nel Decreto legislativo 150/2009; 2) individuare indirizzi utili a consentire l’applicazione operativa della strumentazione in uso presso i Comuni nel rispetto dei principi individuati nel Decreto legislativo 150/09, senza con questo ledere l’autonomia di ciascun Comune nell’adottare schemi applicativi propri ed originali adattati sulla base delle specifiche esigenze”. Il PEG (piano esecutivo di gestione) è lo strumento che per la sua flessibilità può rappresentare il ciclo di gestione della performance.
Pertanto, La Giunta Provinciale non può affermare che tutto è previsto ed è già stato realizzato.
- il sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale. Si tratta di costruire un sistema o di adeguare l’attuale sistema della Provincia per rendere possibile la misurazione e valutazione della performance attraverso metodologie che rappresenti in modo integrato, semplificato, comprensibile, trasparente l’andamento della performance: strategia, obiettivi, andamento, risultati, qualità, indicatori, outcome, benchmarking. Occorre costruire degli indicatori di performance individuale collegati a quelli organizzativi che assicurino la valorizzazione e lo sviluppo delle competenze, il riconoscimento del contributo assicurato e dei risultati conseguiti, l’attuazione della meritocrazia. Il sistema è collegato al ciclo di gestione della performance, al piano di performance ed alla trasparenza.
- la rendicontazione dei risultati conseguiti agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici della amministrazione ed agli stakeholder esterni. La relazione della performance a consultivo deve esporre i risultati conseguiti rispetto agli obiettivi programmati ed alle risorse utilizzate, gli eventuali scostamenti con relative giustificazioni.
- la trasparenza intesa come accessibilità totale alle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali ed all’utilizzo delle risorse per il conseguimento degli obiettivi programmati, dei risultati conseguiti, delle fasi del ciclo di gestione della performance. La trasparenza si propone l’obiettivo di favorire forme diffuse di controllo e di partecipazione da parte dei cittadini sull’operato dell’Ente. La trasparenza interna indirizza il lavoro e l’azione amministrativa di chi opera nell’Ente verso la creazione di un maggior benessere della comunità.
Il Gruppo Consiliare del Partito Democratico ritiene fondamentale introdurre nella Provincia il ciclo di gestione della performance con gli strumenti e gli elementi fondamentali decritti. ProspettiveDa quanto sopra esposto si desume come l’ordinamento provinciale non ha recepito i principi e gli strumenti manageriali regolamentati dal D. Lgs. n. 150/2009.
Il gruppo consiliare del Partito Democratico è interessato all’attuazione della riforma della PA al fine di migliorare la qualità della vita dei cittadini ed dei servizi alle imprese. Per tale motivo è disponibile a realizzare un rapporto di collaborazione costruttivo sulla riforma delle PA e specificatamente sui seguenti punti:
1) Approvazione da parte del Consiglio Provinciale dei criteri generali di adeguamento del Regolamento degli uffici e dei servizi al D. Lgs. n. 150/2009 ed esattamente alle disposizioni richiamate dagli articoli 16, comma 2, e 74, comma 2.
2) Approvazione da parte della Giunta delle modifiche ed integrazioni del Regolamento degli uffici e dei servizi in modo completo e nel rispetto dei criteri generali deliberati dal Consiglio Provinciale;
3) Attuazione del ciclo di gestione della performance con tutti gli elementi fondamentali su cui esso si basa.
4) Costruzione di un sistema di valutazione condiviso con le persone, dove condividere non vuol dire informare, ma realizzare significati condivisi su scopi, contenuti, modalità di valutazione ed analisi dei risultati;
4) Costituzione dell’Organismo indipendente di valutazione;
5) Realizzazione della trasparenza totale cosi come disposta dall’art 11, comma 1 e 3 del D. Lgs. n. 150/2009;
6) Attuazione delle norme di competenza esclusiva dello Stato che sono immediatamente applicabili agli enti locali dall’entrata in vigore del decreto (articoli richiamati dall’art. 16, comma 1 e dall’art. 74, comma 1).
Si ritiene che la implementazione operativa dei punti indicati attui in modo sostanziale e non fittizio la riforma delle PA nella Provincia.
Se vi è condivisione sui punti indicati si potrebbero stabilire preventivamente i criteri generali, di cui al punto 1, su cui il Consiglio Provinciale si dovrebbe esprimere.
Diego Zardini
Consigliere Provinciale del Partito Democratico

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Federico Testa, Il ruolo del nucleare nello scenario energetico globale


Incontro organizzato dal Forum Nucleare Italiano 

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In attesa della strategia energetica nazionale

articolo di Federico Testa pubblicato su Management delle utilities n. 1/2011
Di energia si parla molto, nel nostro Paese. Un po’ perché certamente è un tema importante ai fini della qualità della vita delle famiglie e della possibilità per le nostre imprese di essere competitive, “stare sul mercato”. Ma un po’ anche perché l’argomento è di quelli che “scalda”, si presta alla discussione –spesso accesa- tra opposte certezze assolute. E questo naturalmente comporta un rischio assai grave: che le ragioni di merito finiscano per essere “oscurate” dalla polemica, dalla strumentalità, dallo schieramento aprioristico finalizzato alla raccolta o al mantenimento del consenso, che si preferisca cioè la discussione sulle petizioni di principio, sui massimi sistemi, piuttosto che confrontarsi con le scelte concrete, con i loro vincoli e condizionamenti. Ed in questo la politica non fa certo eccezione….. Così, l'articolo 7 della legge n. 133 del 2008 prevedeva una delibera del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello Sviluppo Economico, che definisse la “Strategia Energetica Nazionale”, in modo da indicare le priorità di breve e lungo periodo per il nostro Paese. Sono passati oramai molti mesi dalla scadenza del termine entro cui il citato documento doveva essere presentato, e non se ne ha notizia.  Questo non significa che nulla sia stato fatto: dal nucleare, agli assetti del mercato del gas, al recente recepimento della direttiva quadro sulle fonti rinnovabili, sono molti i provvedimenti che si sono susseguiti, senza però che tutto ciò rendesse meno necessaria la definizione di una strategia che andasse al di là del modello di produzione di energia per il futuro (25% rinnovabili, 25% nucleare, 50% fossili), enunciato dall’ex ministro Scajola pochi giorni dopo l’insediamento del Governo Berlusconi. Ma è ipotizzabile pensare di delineare una strategia complessa come quella energetica sulla base di uno slogan, o non sarebbe stato meglio se la discussione sul merito dei provvedimenti specifici fosse avvenuta a valle di un approccio complessivo e articolato alle problematiche energetiche del nostro Paese? In sostanza: ha senso ragionare per spezzoni? Non sarebbe indispensabile costruire in primo luogo un quadro prospettico d’insieme, anche per dare a tutti (operatori, comunità interessate, cittadini) gli elementi di merito necessari per poter esprime le proprie valutazioni ragionate?
Con questo lavoro, senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, si vuole provare a delineare schematicamente, in maniera quasi didascalica, senza riferimenti bibliografici o analisi quantitative di dettaglio (di qui la “leggerezza” di cui al titolo…) che potrebbero appesantire il testo e far di conseguenza perdere di vista il “filo logico”, una riflessione sulle scelte prospettiche -con riferimento prevalentemente alla produzione di elettricità- che il nostro Paese sarà chiamato ad affrontare, nella speranza che attraverso la discussione aperta e trasparente sia possibile superare steccati e approcci ideologici che -troppo spesso- finiscono per “congelare ogni scelta” nell’illusione che quella di non decidere non sia a sua volta una scelta, spesso la più sbagliata, e questo a maggior ragione quando si ha a che fare con settori –quali quello in esame- per loro natura capital intensive, per i quali l’incertezza degli scenari necessariamente significa taglio degli investimenti.
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire? Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate. A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, è possibile ragionare di un percorso che si dia le seguenti principali linee di intervento (in ordine di priorità):
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora si impone una riflessione che, nel perseguimento dello sviluppo al massimo potenziale delle fonti rinnovabili nel nostro Paese, consenta anche:
- di ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- di consentire l’incentivazione di impianti rinnovabili che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sé speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- di collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- di evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese. In questo senso, non mancano le proposte: l’AEEG, ad esempio, da tempo propone di trasferire dalle bollette alla fiscalità generale il costo dell’incentivazione (che sempre AEEG prevede, a legislazione costante, aumenti a circa 3 miliardi di euro/anno nel 2010, a più di 5 miliardi di euro/anno nel 2015 e a circa 7 miliardi di euro/anno nel 2020 (di cui oltre 3,5 miliardi di euro per l’incentivazione di 10 TWh di energia elettrica da impianti fotovoltaici).
L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a raggiungere attraverso le fonti rinnovabili, una quota sempre maggiore della produzione: la Germania, di recente, ha ipotizzato di arrivare al 60% della domanda nel 2050;
- fonti “tradizionali”: quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sè vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima in parte legati a quelli del petrolio (ma sempre di meno in presenza di crescita mercato dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato -non concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica, elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
- nucleare: struttura dei costi particolare, con investimento iniziale estremamente rilevante e bassa incidenza dei costi di gestione (in particolare della materia prima), con conseguente limitata elasticità di utilizzo, rischio di “colonizzazione tecnologica” rispetto alla tecnologia sin qui scelta (EPR di Areva), esperienze attualmente non positive negli impianti in fase di costruzione in tema di costi e tempi (anche se è probabile il manifestarsi di learning curves per quanto riguarda le installazioni successive), assenza di emissioni di CO2, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (a condizione che si minimizzino tempi di costruzione, incertezze e di conseguenza tassi di rischio), produzione di rifiuti ad alta attività (all’incirca 8 m3 all’anno per ciascuna centrale in grado di produrre 12 miliardi di KWh, ovvero intorno al 4 % del consumo nazionale di energia elettrica) per le quali allo stato attuale non esistono soluzioni tecnologiche diverse dallo stoccaggio in siti di profondità geologicamente stabili (anche se in futuro tali scorie potrebbero in gran parte costituire il “carburante” degli impianti di IVa generazione), possibili problemi di consenso locale nella fase di individuazione dei siti di localizzazione degli impianti di produzione e di stoccaggio delle scorie (in Italia su questo tema nulla è stato ancora fatto, nemmeno per quanto riguarda l’individuazione di depositi di superficie per le scorie sanitarie e per quelle delle centrali chiuse a seguito del referendum del 1987, che nel 2012 torneranno dall'Inghilterra e nel 2020 dalla Francia dove sono state ri-processate), relativa incertezza sui costi reali di decommissioning degli impianti a fine vita;
- ancora due parole a proposito del costo di produzione (che tanto appassiona, ultimamente…): da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
- una domanda a proposito di concorrenza: se, com’è naturale nel medio-breve periodo, alle fonti rinnovabili deve essere garantito, attraverso forme di incentivazione, un certo prezzo che le renda economicamente sostenibili, e se chi si candida a fare il nucleare chiede una qualche forma di assicurazione sui quantitativi e/o sui prezzi di vendita dell’energia (e se questo soggetto, tra l’altro, è l’incumbent e quindi parte in una posizione “non di svantaggio” in termini di mix di produzione e, quindi, di modulazione), alla fine cosa rimane del mercato? In sostanza, non si dovrebbe innanzitutto avere chiaro ciò che queste scelte possono comportare per il funzionamento del mercato che, a fatica, è stato costruito in questi anni nel settore dell’energia elettrica, mercato che corre il rischio di essere pesantemente messo in discussione da un approccio che non consideri –magari per proporre idonee soluzioni- le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. Sia chiaro: non è qui in discussione l’opportunità –condivisa- di riequilibrare e diversificare le nostre fonti di produzione, né è assurdo che si pensi ad un programma nucleare realizzato sotto la guida dello Stato, ma allora bisogna essere consapevoli delle sue conseguenze (da analizzare in profondità) e dichiararlo apertamente. Dire che “la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale” (come recita il “decreto siti”) può essere solo il primo passo: il nucleare farà eccezione o no allo schema di mercato secondo cui funziona oggi il settore elettrico?
- ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi). Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
- e, per finire, il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità
del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale.
Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti. E’questa la sfida a cui è chiamata la classe dirigente del nostro Paese, se tale vorrà dimostrare di essere.

Federico Testa è professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, Università degli Studi di Verona, nonché componente Commissione Attività Produttive, Camera dei Deputati

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mercoledì 16 febbraio 2011

Filosofia di Berlusconi

Filosofia di Berlusconi. L'essere e il nulla nell'Italia del Cavaliere a cura di Chiurco Carlo, Ombre Corte, 2011. Olivia Guaraldo è tra gli autori del libro.  
La filosofia, diceva Hegel, è come la nottola di Minerva, che "spicca il volo sul far della sera", ossia inizia a prendere la parola sugli eventi solo quando sono compiuti e si avviano verso il declino. Lo scenario da basso impero del crepuscolo del berlusconismo è quindi il momento giusto per fare i conti con un fenomeno che è stato la cifra dominante dell'ultimo ventennio di storia italiana, ma la cui rilevanza va ben oltre il ristretto panorama delle vicende nostrane. Per comprendere ciò che all'apparenza risulta incomprensibile non bastano le analisi di tipo sociologico, semiologico o politologico, che pure in queste anni non sono mancate, ma sono necessari altri strumenti per individuare la logica, la narrativa, la fisica e la metafisica che hanno reso possibile la drammatica trasformazione della nostra quotidianità in un perverso intreccio di menzogne, barzellette, millanterie e volgarità, sullo sfondo di una sistematica, sprezzante opera di demolizione e privatizzazione delle istituzioni. 

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CiVIT, i dati delle PA

La CiVIT finalmente ha pubblicato l’elenco delle Pubbliche Amministrazioni che hanno provveduto a definire i programmi relativi a:
- Sistema di misurazione e valutazione della performance, scadenza 30 settembre 2010;
- Piano della performance, scadenza 31 gennaio 2011;
- Programma della trasparenza e integrità, scadenza 31 gennaio 2011;
- Definizione degli standard di qualità dei servizi, scadenza 31 gennaio 2011.
Peccato che non sono indicate tutte le PA che sono tenute agli obblighi del D. Lgs. n. 150/2009 al fine di calcolare lo stato di avanzamento della riforma.
Si fa presente che tali dati si riferiscono esclusivamente a: ministeri, aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, agenzie di cui al D. Lgs. n. 300/1999 con esclusione dell’Agenzia del Demanio, enti pubblici non economici nazionali.
Raggruppando i dati pubblicati sul sito della CiVIT si ottengono dei risultati complessivi che vengono indicati di seguito accanto a ciascun documento:
Qui il resto del post- Sistema di misurazione e valutazione della performance, n. 73;
- Piano della performance, n. 31;
- Programma della trasparenza e integrità, n. 13;
- Definizione degli standard di qualità dei servizi, n. 2.
Si rileva, inoltre, che sono stati costituiti n. 79 Organismi indipendenti di Valutazione.
Dall’Anci l’unico dato disponibile è quello relativo al numero dei comuni che hanno partecipato al “Progetto merito e performance” che sono n. 591 su 8100, aggiornato al 30 agosto 2010.
Non si comprende perché due organismi (CiVIT e Anci) che predicano la trasparenza non indicano in modo completo ed aggiornato in tempo reale i dati statistici relativi all’andamento della riforma delle PA. La CiVIT dovrebbe indicare tutti gli enti tenuti ad applicare la riforma ed una sintesi statistica e l’Anci tutti i dati statistici dei comuni relativi all’applicazione della riforma.
Purtroppo l’Italia è un paese poco trasparente e lo dimostra il fatto che gli organismi tenuti a sostenere la riforma delle PA siano poco trasparenti.
Si nota l’assenza completa dell’Upi nel sostenere le Provincie nelle fasi di attuazione della riforma.
L’UPI, nonostante abbia firmato un protocollo d’intesa con la CiVIT e partecipi ad un tavolo tecnico di recente costituzione con la CiVIT è assente, è completamente assente nei rapporti con le Provincie al fine di sostenere e di assistere tali enti nell’applicazione della riforma.
Dati CiVIT

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lunedì 14 febbraio 2011

Olivia Guaraldo, Se non ora quando

Innanzitutto vorrei ringraziare le donne e gli uomini dell’Egitto che ci hanno dato una grande lezione di democrazia. Vorrei ringraziare tutte e tutti coloro che sono qui oggi. Sono due anni che aspetto questo momento, anzi due anni e mezzo, dall’inizio di questa fase triste e vergognosa per il nostro paese, per le sue istituzioni, per le sue donne, ma soprattutto per i suoi uomini. Finalmente siamo tutte in piazza oggi, con i nostri corpi liberi e vivi, e con le nostre teste e i nostri cuori. Siamo in piazza e non nei palazzi del potere, non nei suoi letti. Siamo in piazza e non in televisione, perché in piazza si alza la voce e in televisione la nostra voce spesso è muto contorno alle nostre curve. Siamo qui in compagnia innanzitutto di noi stesse e degli uomini che ci sostengono. Come ha detto saggiamente Francesca Izzo, una delle promotrici della manifestazione di oggi, questa è la prima grande manifestazione di popolo guidata da donne, di grande rilevanza politica per il paese intero.
Noi non siamo qui per distinguerci da altre donne, per sancire la nostra moralità contro la loro immoralità: siamo qui per esprimere la nostra voce e la nostra rabbia. Oggi ritorniamo al centro della politica per affermare non solo la nostra dignità, ma anche la nostra intelligenza, i nostri desideri, i nostri sogni. Siamo stufe di essere al centro dei giochi di potere senza esserne le attrici principali: il potere si gioca infatti sempre sui nostri corpi, a nostra insaputa. Siamo stati corpi da regolamentare, da controllare, da disciplinare, prima con leggi contro la nostra libertà procreativa, poi con non-leggi sulla nostra (e di altri) libertà di amare, di vivere e di morire, ora siamo corpi da usare e scambiare, corpi in concorrenza nel libero mercato del piacere…Mi chiedo, ma perché fino a due anni fa tutti andavano al family day e oggi invocano la libertà femminile?
Loro ci vogliono o sante o puttane, perché in realtà la nostra libertà e la nostra parola non la sopportano. E ora accusano le donne qui in piazza di moralismo. Ma quale moralismo? Il femminismo non conosce moralismi, se non quelli contro cui combatte e ha combattuto: moralismi di un patriarcato che si fa’ forza di una doppia morale, mai stanco di volerci comperare, con i soldi o con le lusinghe, purché stiamo zitte e buone, purché facciamo come dicono loro: ieri buone madri e mogli fedeli, oggi giovani spregiudicate pronte a tutto a letto, ma fuori semplicemente belle, snelle, docili e sorridenti. Così ci vogliono, orgogliose di essere le ‘belle del capo’. Siamo stufe, ed è ora di dirlo: stufe di fare da cornice, stacchetto, segretarie e veline, a un potere che pretende di disciplinare la nostra moralità: cattive madri se abortiamo, libere di disporre del nostro corpo se ci vendiamo a chi ci offre grandi opportunità di carriera o di successo. E questa sarebbe una scelta? Troppo comodo dividerci in sante e puttane, questa divisione ha sempre fatto il gioco del potere, di chi ci voleva da una parte mogli fedeli e dall’altra audaci seduttrici…Su questa divisione, e sul fatto che fra sante e puttane non potessero esserci ‘comunicazione’ e unità, si è retto per anni il potere maschile. E’ questo rigurgito di potere maschile stantio, vecchio e patriarcale, che oggi ci opprime, e ci fa scendere in piazza.
Eppure a chi è a capo di tutto ciò, forse dobbiamo dire grazie: grazie perché con la sua straordinaria leggerezza nel contornarsi di schiere di giovani donne, con la sua disinvoltura nel disporre di corpi femminili, ha avuto l’indubbio merito di aprirci gli occhi, di far tornare al centro del dibattito pubblico i corpi e i desideri delle donne, ci ha offerto su un piatto d’argento la nostra battaglia. Una straordinaria galleria dei piaceri - o degli orrori, dipende dai punti di vista – che da Villa certosa, passando per Palazzo Grazioli, arriva ad Arcore, ci ha svelato quello che per anni forse nessuno ha voluto vedere né capire: il corpo della donna esibito e mercificato in quantità industriali, in una sorta di traffico illegale di esseri umani vissuto però come un grande gioco, come una Ruota della fortuna in cui a chi capita di essere scelta c’è successo assicurato per la vita. Non è tanto la questione di chi va a letto con chi e come, ma soprattutto la dimensione collettiva della cooptazione e del reclutamento. C’erano più giovani donne alle feste del premier che ai casting del Grande Fratello. Ormai le ville sono diventate un’agenzia di collocamento, e la partecipazione alle feste un modello di sviluppo, un argine alla disoccupazione femminile in questo paese. Forse va bene così? Che male c’é? Il male sta forse nel fatto che oggi nel nostro paese c’è uno dei più alti tassi di disoccupazione femminile, la precarietà colpisce più le donne che gli uomini, i salari sono ancora diseguali, fare figli è una scelta difficile, in ogni caso, e poi, tu che lavori, fatichi, ami e soffri quotidianamente, tiri avanti con fatica ma con passione, ti prendi della moralista se decidi di opporti con una manifestazione all’impunità di uno scambio fra sesso, denaro e potere che va avanti da anni in questo paese. Io non mi ribello per la dignità delle donne, ma per la loro libertà – e non venitemi a dire che la libertà è andare a letto con un vecchio…
Ora il tempo della nostra solerte obbedienza è finito, oggi ci riprendiamo la piazza e con essa la parola pubblica, per dire che siamo stufe di essere prese in giro, usate e poi gettate nel fango e nella solitudine se disobbediamo. Ma se siamo qui è anche per merito di chi, da dentro il gioco luccicante e seducente della sottomissione ai voleri del sultano, ha parlato e ha denunciato…non ripetiamo il gioco del potere, non dividiamoci tra sante e puttane, proviamo, per una volta, a procedere unite nel denunciare e nel criticare, nel forgiare per noi stesse e le nostre figlie, amiche, sorelle, nipoti un paese migliore.
E a proposito di figlie, immaginate e reali, vorrei concludere con le belle parole di Michela Murgia, nel monologo ‘Altre Madri’:
“La mia figlia sarà femmina. Io le canterò una ninna nanna per stare sveglia. Una ninna nanna per non chiudere gli occhi perché abbiamo già dormito tanto e troppo mentre altri plasmavano i nostri sogni in incubi di realtà.” 

Abbiamo dormito troppo, svegliamoci per fare in modo che la realtà non corrisponda più a questo incubo.
Olivia Guaraldo

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Verona, grande manifestazione delle donne

L’ingiustizia di questo sistema, costruito dai comportamenti e dalle debolezze di Silvio Berlusconi che incidono sulla cultura del paese, è stato messo in crisi dalle donne.
Le donne, colpite nella loro dignità perché non riconosciute persone, sono scese in piazza in oltre 230 città per rompere l’equilibrio attuale rappresentato dai festini di Arcore, dal bunga e bunga e dai corpi in vendita.
Allo slogan “Se non ora quando? I partecipanti hanno risposto in coro in tutte le piazze d’Italia “Adesso”, “Ora”.
Una grande ribellione che mette al centro dell’attenzione “le donne”.
A Verona la manifestazione è iniziata a Piazza Isolo e si è svolta, sotto la pioggia, con la partecipazione di migliaia di persone: donne e uomini, ragazze e ragazzi, anziane ed anziani. Insomma una grande solidarietà trasversale che ha svegliato e scosso la città di Verona. La manifestazione si è dopo spostata in piazza Bra.
Adesso occorre mantenere calda la partecipazione e rivedersi l’8 marzo per continuare la battaglia di civiltà che è appena cominciata.
A chi pensava che le donne non fossero state all’altezza di organizzare simili manifestazioni in tutte le piazze italiane si deve ricredere.
La forza delle donne nasce dalle loro peculiari capacità, diverse da quelle degli uomini, che vanno prese in seria considerazione al fine di accompagnare l’evoluzione del pianeta con loro e non contro di loro.
Tanti i cartelli e gli striscioni che chiedevano le dimissioni di Silvio Berlusconi, il quale ha il demerito di aver utilizzato le donne in modo vergognoso e di aver calpestato la loro dignità di persone libere. Non si tratta si essere bacchettoni ma di aver rispetto della persona umana con i suoi valori e la sua libertà.
Ritengo che la manifestazione delle donne sia l'inizio di un meraviglioso risveglio e di un grande impegno per il paese. 

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