giovedì 30 giugno 2011

Isola della Scala: trasparenza e competenze nelle nomine

Parte dalla periferia, precisamente da Isola della Scala, la proposta di innovare il sistema delle nomine negli enti: dalla spartizione del potere sulla base dell’appartenenza politica e della fedeltà ad un partito o ad un esponente politico si passa alla introduzione dei fattori della trasparenza, della pubblicizzazione delle nomine e delle competenze.
In sede di consiglio comunale di Isola della Scala il capogruppo dell’opposizione «Isola nostra-il bene comune», Chiara Chiappa, ha presentato una mozione finalizzata ad introdurre nel Comune in materia di nomine la trasparenza, la valutazione delle competenze e la pubblicizzazione delle candidature e delle nomine sul sito istituzionale del Comune (curriculum e valutazione).
Una vera rivoluzione che consente ai cittadini in possesso dei requisiti di conoscenza e di competenza di presentare la propria candidatura indipendente fuori dalle logiche di potere dei partiti.
E’ un risultato importante per il Comune di Isola della Scala e per la Provincia di Verona in quanto si gettano le fondamenta per un nuovo rapporto tra il comune e la comunità locale molto spesso tenuta fuori dalle decisioni e dai problemi che la riguardano direttamente.
La trasparenza è il fattore determinante che consente ai cittadini di conoscere i fatti amministrativi e di partecipare ed intervenire con proprie proposte per il miglioramento dei servizi pubblici locali. Il rapporto da molto tempo in crisi tra i cittadini e la politica può essere recuperato a condizione che gli enti istituzionali siano trasparenti e coinvolgano i cittadini nella gestione dei servizi pubblici.
“Sono molto soddisfatta, ha dichiarato Chiara Chiappa, del risultato ottenuto ieri sera soprattutto per la immediata e totale adesione di tutto il Consiglio”. “La proposta del Sindaco Mozzi, conclude Chiara Chiappa, prevedeva di tener conto delle competenze dei nominati e non della vicinanza a partiti o personaggi politici: la novità della nostra proposta sta nell’introduzione dell’avviso pubblico che informi tutti i cittadini della possibilità di candidarsi, e dopo la nomina la pubblicazione dei criteri di scelta adottati. Con la pubblicazione dell’avviso vogliamo promuovere la partecipazione, con la pubblicazione dei criteri e dei curricula, e la trasparenza”.
Per realizzare il miglioramento continuo della performance degli enti locali non è sufficiente l’impegno e la buona volontà occorre che negli enti partecipati vengano designate persone in possesso delle competenze necessarie per affrontare e risolvere i problemi complessi della società attuale e, quindi, rispondere positivamente alle aspettative ed ai bisogni crescenti dei cittadini e dei ceti più deboli, i quali vivono sulla propria pelle i problemi sociali della crisi economica.
La proposta di Chiara Chiappa è stata accolta dalla maggioranza e dal Sindaco Miozzi e deliberata da tutto il Consiglio Comunale.
Adesso si apre una nuova fase delicata caratterizzata dall’adeguamento del Regolamento comunale che disciplina le nomine alla proposta approvata dal Consiglio Comunale. Occorre modificare i seguenti articoli del Regolamento:
- l’art. 1 nella parte in cui vengono indicate in modo generico le competenze dei candidati (“un’adeguata competenza, per studi o esperienza, desumibile dal curriculum vitae, in relazione alla natura dell’incarico da ricoprire”);
- l’art. 2 per escludere dalla nomina i componenti del consiglio comunale, i quali ai sensi dall’art. 63 del T.U. degli enti locali non possono ricoprire cariche in enti partecipati dal comune.
Si ritiene utile introdurre il colloquio pubblico dei candidati per dare loro la possibilità di presentare il loro curriculum e per scoraggiare coloro che non posseggono i requisiti richiesti.
Grazie alla proposta di Chiara Chiappa il consiglio comunale di Isola della Scala non solo ha discusso di trasparenza e competenze in materia di nomine negli enti controllati ma ha registrato una completa convergenza sull’argomento che consente di realizzare una discontinuità rispetto al passato.
Vi è da notare che la Lista Civica «Isola nostra-il bene comune» durante la campagna elettorale si era impegnata a rendere trasparente il comune di Isola e ad avvicinare i cittadini di Isola all’ente comunale. Chiara Chiappa non ha dimenticato gli impegni elettorali ed ha tradotto in iniziativa concreta quella che poteva essere vista dai diffidenti e dagli sfiduciati come una sorta di slogan.
Quello che è avvenuto a Isola Della Scala, dichiara Antonino Leone responsabile PA del PD, dimostra che le proposte effettuate dalla minoranza a favore del cambiamento possono registrare un'ampia convergenza nel caso in cui i gruppi politici si muovono nell’interesse dei cittadini. Occorre prendere atto, conclude Leone, che l’Amministrazione Comunale di Isola della Scala, presieduta da Giovanni Miozzi, è stata sensibile ai fattori della trasparenza e delle competenze ed ha consentito l’approvazione della mozione di Chiara Chiappa.

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Dario Di Vico sull’accordo tra Confindustria e Sindacati

articolo di Dario Di Vico pubblicato sul Corriere della Sera il 29 giugno 2011
Persino l'onorevole Giuliano Cazzola (Pdl), mai tenero con la Cgil, ha nei giorni scorsi reso omaggio preventivo al coraggio politico dimostrato da Susanna Camusso, che infischiandosene delle critiche della Fiom alla fine di un impegnativo negoziato ha sottoscritto un accordo unitario sulla rappresentanza. La Camusso — le va riconosciuto — si è mossa con intelligenza e tempismo rimettendo così la Cgil al centro della scena ed evitando un ulteriore (e forse decisivo) scivolamento verso il bipolarismo sindacale. Con Cisl e Uil che marciano ormai in tandem la Cgil rischia ad ogni occasione di rimanere isolata e prima di rompere la pur fragile unità d'azione ci deve pensare diverse volte. L'ultimo accordo unitario delle tre confederazioni risaliva al 2007 quando con Romano Prodi a palazzo Chigi fu sottoscritto un accordo per il welfare. Da allora è vero che le categorie hanno continuato a firmare accordi a tre ma la riforma della contrattazione (2009) è stata sottoscritta con la Confindustria solo da Cisl-Uil e gli ultimi contratti nazionali del commercio, del pubblico impiego e dei metalmeccanici hanno seguito lo stesso copione. L'operazione «rientro» non sarebbe riuscita se la Camusso non avesse trovato la sponda di Emma Marcegaglia, desiderosa di riconquistare quello spazio che l'iniziativa tambureggiante di Sergio Marchionne le aveva oggettivamente limitato.
Non si può dire che la Marcegaglia sia vittima del complesso «senza la Cgil non si può» (nel 2009 per l'appunto firmò un accordo separato), però è evidente che, per sensibilità culturale e per storia dell'azienda di famiglia, la presidente è più portata a cercare le intese a tre. In questo caso l'asse Marcegaglia-Camusso ha saputo comunque evitare la trappola della mediazione al ribasso e ha costruito un'intesa dotata di un sua identità. L'accordo sottoscritto ieri miscela, infatti, le differenti tradizioni sindacali, quella più votata a sostenere il peso degli iscritti e quella che, anche nel momento della scelta delle rappresentanze, guarda alla platea dei non iscritti. E chiaro che fuori dall'ambito sindacale le miscele possono sembrare delle contorsioni così come la discussione su Rsu e Rsa rischia di apparire bizantina, ma se si vogliono raggiungere obiettivi di coesione lessico e storia del sindacalismo italiano vanno rispettati. Anche in tema di contrattazione l'intesa di ieri non chiude al ribasso bensì sostiene l'idea dell'adattabilità degli strumenti negoziali (ad esempio l'orario di lavoro) e quindi evita che i lavoratori percepiscano le deroghe solo come dei peggioramenti della loro condizione. E non invece come un (necessario) raccordo tra cambiamenti del mercato, modifiche dell'organizzazione produttiva ed erogazione della prestazione lavorativa. Perché in fondo la motivazione più calda che ci porta ad applaudire l'accordo interconfederale di ieri sta proprio nel miglioramento delle connessioni tra economia e lavoro. Il sindacato di Roma deve rimettersi in sintonia con le novità che stanno intervenendo sui luoghi di lavoro e che stentano a imporsi nell'agenda delle confederazioni. In questi mesi si sta producendo sul territorio una ricca contrattazione articolata che interessa sia le grandi che le medie aziende. Accordi come quelli raggiunti di recente nel gruppo Eni, alla Barilla e alla Luxottica meritano di essere studiati per le buone pratiche che rappresentano, delineano infatti un nuovo tipo di concertazione che non paralizza le decisioni dell'azienda bensì pone le condizioni per creare un consenso di medio periodo, una visione condivisa degli obiettivi dei rispettivi gruppi. Come già il Corriere ha avuto modo di segnalare altrettanto importanti sono le novità che si stanno delineando, ad esempio in Lombardia, in aziende di dimensioni minori. Si affermano soluzioni innovative di welfare aziendale e si negoziano senza remore clausole anti-assenteismo e di aumento della produttività. Come mai la contrattazione in periferia evolve con maggiore rapidità? Forse perché sul territorio ci sono sindacalisti più ferrati e meno condizionati dalle scelte politiche e/o di bandiera? Anche per questi motivi ma non solo. La causa prima risiede nei profondi mutamenti che stanno interessando l'orientamento degli operai. Cambia la contrattazione, dunque, perché muta «il sottostante». Una recente indagine commissionata dal Pd alla Swg (e in verità poco valorizzata dal committente) testimonia come si sia prodotta una drastica deideologizazione del mondo del lavoro e sia nata una prossimità tra azienda e lavoratore che non può più essere ignorata. Gli operai sono soddisfatti del proprio lavoro molto più di quanto si racconti e pensano che di fronte alla Grande Crisi le aziende si sono mosse meglio dei sindacati. Vogliamo parlarne apertamente o lasciamo che di questa indagine si discuta solo a microfoni spenti? Ha fatto bene, dunque, la Camusso a togliersi dall'angolo. Ma se si vuole costruire una diversa stagione sindacale è solo la prima mossa.

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mercoledì 29 giugno 2011

Pietro Ichino commenta l’accordo tra Confindustria e Sindacati

Commento del senatore Pietro Ichino all’Accordo interconfederale 28 giugno 2011,  pubblicato sul sito di http://www.pietroichino.it/ e http://www.lavoce.info/
Per farsi un’idea dell’importanza dell’accordo firmato martedì dalle tre confederazioni sindacali maggiori con Confindustria, basti pensare che esso può forse avviare a conclusione la lunghissima fase del cosiddetto “diritto sindacale transitorio”, aperta nel 1944 con l’abrogazione del regime corporativo e finora mai chiusa, perché restano a tutt’oggi in larga parte inattuati gli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione repubblicana in materia di contrattazione collettiva. Ma l’accordo, anche se non sarà seguito da un intervento legislativo volto ad attuare o modificare quella norma costituzionale, segna comunque la fine di un decennio di relazioni sindacali rissose e poco concludenti. E volta pagina rispetto a un triennio nel quale il ministro del Lavoro si è intensamente adoperato per costruire un sistema di relazioni industriali capace di funzionare escludendo la Cgil. Le divergenze tra quest’ultima confederazione e le altre due non sono superate; ma il nuovo accordo interconfederale detta le regole di democrazia sindacale che consentiranno di dirimere i contrasti, là dove essi si presenteranno come insanabili.
Può essere che la firma di questo accordo segni anche l’apertura di una nuova stagione di unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori. Ma, anche se così non sarà, le nuove regole condivise consentiranno di evitare che i dissensi tra sindacati – fisiologici in un regime di vero pluralismo sindacale – si traducano in paralisi delle relazioni industriali e perdita di rilevanza pratica della contrattazione collettiva, come troppo sovente è accaduto negli ultimi anni.
RAPPRESENTANZA SINDACALE
La disposizione contenuta nel primo capoverso dell’accordo ha per oggetto la misurazione della rappresentatività dei sindacati sul piano nazionale. Qui si affida al CNEL di costruire gli indici di rappresentatività delle confederazioni e delle organizzazioni di settore sulla base di una media tra il “dato associativo”, cioè il numero di deleghe conferite dai lavoratori alle imprese per il versamento delle quote di iscrizione a ciascun sindacato, fornito dall’INPS, e il dato relativo ai risultati del voto per le rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, fornito dalle confederazioni: si incomincia così finalmente ad attribuire al CNEL una funzione di grande rilievo anche pratico (il che – sia detto per inciso – nulla toglie all’opportunità che il numero dei membri e la struttura di questo organo costituzionale vengano drasticamente ridotti).
La misurazione della rappresentatività al livello aziendale è oggetto del quarto e del quinto capoverso dell’accordo. Qui si consolida l’alternativa oggi in atto: dove i tre sindacati vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali unitarie-rsu, previste e disciplinate dal protocollo del 23 luglio 1993 (protocollo che è espressamente richiamato e, dunque, per questo aspetto rimane in vigore); dove i tre sindacati non vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali aziendali-rsa previste e disciplinate dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del 1970. Le rsu sono caratterizzate dall’investitura “dal basso”, data ai rappresentanti dall’essere eletti direttamente dai lavoratori; le rsa sono invece caratterizzate dal rapporto organico esclusivo che le lega al rispettivo sindacato territoriale, il quale designa i propri rappresentanti. Poiché l’accordo non prevede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto – salva la previsione del limite triennale di durata della carica di rappresentante sindacale aziendale –, in questo secondo caso la rappresentatività dei sindacati non è misurata: donde la perdurante distribuzione dei rappresentanti sindacali in misura pari tra tutti i sindacati accreditati a norma dell’articolo 19 e la necessità di una disciplina particolare in materia di contratto aziendale stipulato da una o più rsa.
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Per la legittimazione a negoziare sul piano nazionale, l’accordo stabilisce soltanto una soglia minima di rappresentatività (il 5 per cento); non prevede invece alcuna soglia per la stipulazione del contratto di settore. L’accordo non preclude, dunque, l’efficacia del contratto collettivo nazionale stipulato da una coalizione sindacale minoritaria nel settore, ma neppure regola il caso in cui questo contratto si sovrapponga a uno precedente stipulato da una coalizione maggioritaria (è il caso verificatosi tra il 2008 e il 2009 nel settore metalmeccanico, dal quale è nato un nutrito contenzioso giudiziario). La soluzione della questione resta dunque per ora fondata sui criteri desumibili dal diritto comune dei contratti; ma non è escluso che in un futuro prossimo le parti sociali possano fare su questo terreno il passo ulteriore necessario per colmare la lacuna, spianando la strada all’attuazione o modifica degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.
Il secondo e il terzo capoverso dell’accordo sembrano ribadire l’assetto centralizzato del sistema della contrattazione sancito dal protocollo del luglio 1993, ribadendo che al livello aziendale essa si esercita soltanto sulle “materie delegate” dal contratto nazionale. Ma in materia di contrattazione aziendale le novità sono numerose e assai rilevanti: qui sta la vera svolta.
Il contratto aziendale, anche se non sottoscritto da uno o più dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, è vincolante per tutti sotto una delle due seguenti condizioni: a) se stipulato dalla rsu con il voto favorevole della maggioranza dei suoi membri (quarto capoverso); b) se stipulato da una o più delle rsa titolari della maggioranza delle deleghe in seno all’azienda; ma in quest’ultimo caso il contratto deve essere sottoposto a referendum se lo chiede uno dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, oppure il 30 per cento dei lavoratori interessati (quinto capoverso): in tal caso la maggioranza dei votanti può, con il proprio voto contrario, privare il contratto dei suoi effetti.
Il sesto capoverso prevede – e anche questa è una novità rilevantissima – che sia vincolante per tutti i sindacati anche la clausola di tregua sindacale contenuta nel contratto aziendale, quando ricorrano, alternativamente, le condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b). L’accordo – in omaggio a un orientamento della dottrina giuslavoristica – precisa che clausola stessa non è vincolante per i singoli lavoratori; ma questa precisazione ha uno scarso effetto pratico, dal momento che devono essere i sindacati a proclamare lo sciopero.
Un’altra novità rilevantissima è contenuta nel settimo capoverso dell’accordo, dove si prevede che, in linea generale, il contratto nazionale stabilisca “i limiti e le procedure” della contrattazione aziendale modificativa rispetto al contratto nazionale. Dove il contratto nazionale nulla preveda in proposito, l’accordo autorizza comunque, “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”, la stipulazione di contratti aziendali modificativi “con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Se il contratto aziendale è stipulato nel rispetto delle condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b), anche la deroga rispetto al contratto nazionale ha efficacia generale nell’ambito dell’unità produttiva.
Se questo accordo interconfederale fosse stato in vigore un anno fa, non si sarebbero posti i problemi giuridici che sono invece sorti in riferimento ai contratti Fiat di Mirafiori, Pomigliano e Grugliasco, e in particolare ai loro rapporti con i contratti nazionali. L’accordo, però, non ha efficacia retroattiva: esso pertanto non può essere direttamente utilizzato per la soluzione di quelle controversie. La Fiat mantiene dunque la propria richiesta di un intervento legislativo che colmi la lacuna sulla materia: intervento che potrebbe recepire i contenuti essenziali dell’accordo, estendendone l’efficacia nei confronti di tutti i sindacati, anche di quelli che non lo sottoscriveranno. Sarà interessante rilevare, nei giorni prossimi, le posizioni che verranno espresse dai firmatari dell’accordo sulla prospettiva di legificazione di questa materia. Tradizionalmente la Cgil è favorevole a questo intervento legislativo e la Cisl vi è contraria; ma oggi, per ragioni contingenti, le posizioni potrebbero invertirsi.
Accordo interconfederale 28 giugno 2011

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lunedì 27 giugno 2011

Quale futuro e libertà per i giovani?

articolo di Emanuele Costa
Oggi i giovani, finalmente, stanno prendendo coscienza di ciò che gli accade intorno, iniziando ad alzare timidamente la testa. Hanno compreso che se il Paese può farcela a superare ed andare oltre la crisi (non solo economico/finanziaria, ma anche di identità, istituzionale e sociale) può farlo esclusivamente facendo perno sulle loro gambe, più ricche di energia e resistenza per superare gli ostacoli di diversa natura collocati sulla loro strada, consentendo a tutti (e non solo a loro) di fare un salto in avanti. In questo caso, non si tratta di una lotta di classe o, peggio ancora, di una lobby che scalpita per tutelare non solo interessi di parte, ma spesso inutili privilegi. Questi ultimi, infatti, da un lato, non creano alcuna forma di ricchezza per l'intera società, ma consentono l'arricchimento di pochi e, dall'altro, non diffondono coesione sociale, ma alimentano profonde ingiustizie. E' giunto, quindi, il momento che come i più giovani alzano la testa per vedere oltre e prendere in mano le redini di un Paese sempre più allo sbando, i più grandi abbiano l'umiltà di abbassarla, evitando di rivolgere lo sguardo indietro per vedere se qualcuno gli sta sottraendo la sedia.  Ad oggi, i politici che si sono alternati sulla scena istituzionale non sono ancora riusciti a dimostrare quale interesse si sono prodigati a difendere: quello generale o quello che Francesco GUICCIARDINI amava definire "particulare"? E' meglio lasciare a popolo, la cui sovranità non deve mai essere messa in discussione, l'ardua sentenza. E' facile ritenere che l'opinione diffusa porterà al raggiungimento di un quorum plebiscitario a favore di una delle due alternative prospettate. Oggi i giovani chiedono di essere ascoltati, perché il domani appartiene a loro e, quindi, hanno il sacrosanto diritto di gettare solide basi per costruirlo come meglio credono. In uno scenario complesso sotto il profilo delle relazioni sociali è compito di tutti garantire alle nuove generazioni un futuro migliore di quello che la storia ci ha lasciato in eredità. Si tratta di un obiettivo ambizioso, che dovrà essere perseguito con caparbietà e unità di intenti. In caso contrario, è forte il rischio di deludere le aspettative di quei giovani che, con coraggio e sensibilità, hanno percepito che è giunta l'ora di poter affermare liberamente il loro pensiero per dire, se non addirittura urlare, al mondo quali sono i sogni che vorrebbero vedere realizzati. Eleanor ROOSVELT disse: «Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei loro sogni». Ascoltiamo, quindi, almeno per una volta, le ragioni dei ragazzi. Cogliamo al volo questa opportunità! Altrimenti, non solo non esisterà per loro un futuro, ma neanche la libertà di poterlo influenzare per eliminare quel profondo disagio nei confronti di una società composta da individui sempre più egoisti e arroccati a difendere ciò che ormai è indifendibile.

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giovedì 23 giugno 2011

Per i giovani non sufficiente pizza e sole

articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa il 22 giugno 2011
Non si vive di sola pizza e sole. Né di sola mamma. Famiglia e qualità della vita, a lungo considerati gli elementi caratterizzanti della nostra società, non sono più sufficienti a rendere felici i nostri giovani. L’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes ci dice che il 40% degli italiani tra i 25 e i 34 anni considera una sfortuna vivere in Italia, e il 51% si trasferirebbe volentieri all’estero. Quando oltre la metà della popolazione di una Paese nella fascia d’età più attiva e produttiva sogna di scappare altrove, c’è qualcosa che non va. E dovrebbe scattare più di un campanello di allarme.
Certamente la crisi economica e le difficoltà occupazionali giocano un ruolo importante nell’alimentare questo malcontento. Tuttavia non è solo una questione legata all’occupazione. D’altronde la crisi economica ha colpito tutti gli altri Paesi industrializzati, anche quelli che gli italiani indicano come mete privilegiate per una loro eventuale emigrazione (Francia, Stati Uniti e Spagna, quest’ultima con un tasso di disoccupazione doppio del nostro). Non solo: le aree del nostro Paese in cui questo desiderio di fuga è più alto sono tra quelle in cui l’incidenza della disoccupazione è più bassa (Centro e Nord). Appare quindi evidente che, oltre alle difficoltà economiche, in Italia cominciano a scricchiolare anche altre dimensioni, e che per le nuove generazioni non basta la vicinanza alla famiglia né il nostro bel territorio a sentirsi fortunati di stare in Italia.
Per chi l’Italia l’ha già abbandonata da anni o per chi è abituato a misurarsi con contesti stranieri, come fanno ormai quotidianamente milioni di italiani tra i venti e i quaranta anni, questi dati non rappresentano una gran sorpresa. Innanzitutto perché sanno che la qualità della vita non è una nostra esclusiva. In fondo il sole c’è anche in Costa Azzurra o in Costa Brava, e la pizza o il formaggio buono si trovano anche altrove, anche quando invece di chiamarsi Parmigiano si chiama manchego o camembert. Ma, soprattutto, perché sanno che la qualità della vita non è fatta solo di buon mangiare e visite familiari, per quanto importanti. La vita, quella vera, è fatta anche di ambizioni, di sogni, di opportunità di crescita, di cambiamento. È fatta di persone e mondi diversi da noi con cui abbiamo necessità e voglia di misurarci, soprattutto a una certa età. E’ fatta insomma di tutte quelle cose a cui l’Italia ha sistematicamente chiuso le porte ormai da troppi anni. Negli ultimi vent’anni l’Italia si è mostrata terribilmente aggrappata all’esistente, terrorizzata da tutto quello che accadeva fuori, costantemente tesa a tentare di proteggersi da tutti gli attacchi dei «nemici» come si fa nei videogame, seguendo una metafora cara al nostro ministro dell’Economia. Un’Italia che prima era spaventata dalle tecnologie e dalla concorrenza degli altri Paesi industrializzati come Germania o Stati Uniti, poi dalla manifattura a basso costo dei Paesi emergenti come Cina e India, e oggi semplicemente dalla fame e dalla disperazione dei Paesi africani come la Libia, la Tunisia o la Somalia, i cui profughi potrebbero rubarci anche i posti da raccoglitori di pomodori. Un’Italia abituata ormai a giocare in difesa, e che nonostante le sfide sempre più difficili non cambia mai squadra, ma ricicla continuamente i soliti giocatori. Basta pensare alle tensioni e agli accordi tra Bossi e Berlusconi di questi giorni, per avere la sensazione di rivivere un film già visto molti, troppi anni fa. Un arco temporale di 15 o 20 anni può sembrare un’inezia a chi calca la scena politica da 30 o 40 anni, ma rappresenta l’unico orizzonte temporale di cui hanno memoria gli italiani che oggi hanno 25 anni. E per questi giovani l’Italia è il Paese in cui non cambia mai nulla e si parla sempre delle stesse cose (senza farle): dal ponte sullo Stretto alla Salerno-Reggio Calabria, dalla riforma fiscale a quella dello Stato. Il Paese in cui, per riprendere la metafora dei videogame amata da Tremonti, i politici giocano ancora al Pac-man, mentre il resto del mondo funziona con la Wii. E’ guardando a questa Italia che si capiscono le ragioni di quei giovani che se ne vorrebbero andare.
Sanno bene che altrove troveranno la stessa crisi, ma sperano almeno di poter respirare un po’ di aria diversa, di veder muoversi qualcosa, di potersi misurare con un mondo che gira invece di stare fermo. Chiaramente non tutta l’Italia è così asfittica, ci sono realtà che pur con fatica provano a muoversi suscitando anche begli entusiasmi. Ma la sensazione che ancora prevale è di un immobilismo che sta facendo la muffa. Gli unici a non sentirne la puzza sono quelli che ci sono seduti sopra.

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martedì 21 giugno 2011

I giovani inattivi aumentano

La ricerca di Datagiovani per il Sole 24 Ore indica che mezzo milione di persone con meno di 35 anni sono alla ricerca del lavoro da 12 mesi e non lo trovano. I giovani che cercano lavoro inutilmente da più di un anno rappresentano il 45%.
Le punte più alte si registrano in Basilicata con il 57% ed in Campania e Sicilia con il 55%. Raddoppiano i dati della disoccupazione di lungo periodo nel Nord-Ovest: Lombardia con il 37% dei disoccupati ( 27% nel 2007); Toscana con il 41,6% (16% nel 2007)
I disoccupati di lungo periodo subiscono l’effetto scoraggiamento e ampliano la platea degli inattivi e degli autoesclusi dal mercato del lavoro.
L’elaborazione registra circa 470mila giovani entro i 34 anni che rientrano nella categoria degli inattivi: - 195mila tra i 15 e i 24 anni; - 274mila tra i 25 ed i 34 anni.
Le forme di occupazione per i giovani sono precarie e con una retribuzione che non supera gli 800 euro mensili. Tali condizioni costringono il 41,5% dei giovani a vivere in famiglia ed a ritardare di 6 anni l’età del matrimonio.
Oggi i giovani sono sostenuti dalla famiglia mentre in passato apportavano un contributo economico alla famiglia stessa.
I giovani più competenti e preparati dopo aver concluso gli studi si recano all’estero per lavorare ed i costi della formazione sostenuti dall’Italia, la quale non è in grado di offrire delle prospettive occupazionale dignitose, vanno a beneficio dei paesi esteri.
Si registra, inoltre, il calo dei consumi da parte dei giovani e la scomparsa dalle statistiche dell’Irpef nel periodo che va dal 2008 al 2009 di circa 200mila giovani che rappresentano circa il 10%.
Vi sono circa 500mila stagisti e 200mila praticanti che dopo il percorso formativo troveranno difficoltà a trovare un posto di lavoro.
Questa grave situazione sociale ed economica che coinvolge la vita dei giovani ed il loro futuro è la conseguenza dell’assenza di una politica economica che favorisca la crescita e l’occupazione.
Inoltre, occorre cambiare il sistema delle relazioni industriali e del mercato del lavoro che crea discriminazioni sociali e lavoratori precari.
Intervenire soltanto per adeguarsi ai parametri imposti dall’Europa non è una condizione sufficiente per uscire dalla crisi economica, avviare la crescita della ricchezza e realizzare il superamento del dualismo del lavoro. Occorre ripensare il sistema e costruire un futuro equo che garantisca ai giovani una vita dignitosa che permette loro di guardare avanti con speranza ed ottimismo.
Tutti i settori devono essere coinvolti in questa prospettiva di crescita: la scuola, l’università, l’impresa privata e pubblica e le pubbliche amministrazioni. Bisogna finirla con il giuoco che è sempre colpa degli altri: il sistema Italia non funziona ed occorre farlo funzionare.
Tra i giovani vince l’inattività Il Sole 24 Ore
Consumi, figli, lavoro: le rinunce dei giovani Il Sole 24 Ore
I giovani inattivi senza opportunità Corriere della Sera

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Interrogazione di Federico Testa sul carcere di Montorio

Dopo la visita di una delegazione del PD di Verona al carcere di Montorio il deputato Federico Testa ha presentato una interrogazione al Ministro della Giustizia finalizzata a rimuovere le condizioni sociali del carcere di Montorio, caratterizzato da un sovraffollamento di detenuti e da un insufficiente organico degli agenti di polizia.
Federico Testa dichiara nell’interrogazione che:
“attualmente presso il carcere di Montorio di Verona lavorano 280 agenti di polizia penitenziaria di ogni grado, rispetto a una pianta organica di 407;
la capienza prevista per l'istituto penitenziario in questione è di circa 500 detenuti ma, ad oggi, essi sono quasi il doppio, un sovraffollamento che determina notevoli problemi, non ultimi quelli sanitari;
la situazione è aggravata dalla mancanza di fondi anche per le minime esigenze, come ad esempio la carta o le lampadine;
il personale che lavora nell'istituto ha proclamato lo stato di agitazione chiedendo, tra le altre cose:
a) il rientro in sede a Verona del personale distaccato e/o in missione presso altre sedi in ambito regionale e nazionale;
b) l'assegnazione all'istituto penitenziario di Montorio di un cospicuo numero di agenti del corso di formazione presso le scuole del corpo, che terminerà presumibilmente nel settembre/ottobre 2011, mentre non risulta prevista, allo stato, alcuna assegnazione presso la sede di Verona;
c) una redistribuzione sul territorio dei detenuti «giudicabili» e «appellanti» che tenga conto della competenza territoriale dell'autorità giudiziaria da cui dipendono, redistribuzione che consentirebbe di risparmiare personale (in media si impiegano 3 agenti per ogni detenuto tradotto) e tempo, nonché, grazie alle minori percorrenze, la diminuzione dell'usura dei mezzi, delle spese per carburante, per pedaggi autostradali, per servizi di missione, per i pasti per il personale, dell'incidenza dei sinistri;
d) la disponibilità di risorse per l'installazione di apertura automatizzate dei cancelli di ingresso nei vari settori interni che porterebbero anche ad un risparmio di uomini, per il ripristino e in molti punti l'installazione ex novo, di impianti di videosorveglianza per ovvi motivi di sicurezza, per la necessaria manutenzione della struttura;
e) di poter effettuare le esercitazioni di tiro a Verona (o in zone limitrofe) presso poligoni comunali o di altre Forze armate o di polizia anziché recarsi a Udine con il conseguente spreco di risorse umane ed economiche;
f) la disponibilità di risorse per l'installazione di aperture automatizzate dei cancelli di ingresso nei vari settori interni, che comporterebbero anche un migliore utilizzo del personale, il ripristino e, in molti punti, l'installazione ex novo, di impianti di videosorveglianza per motivi di sicurezza, la necessaria manutenzione della struttura, l'incremento del numero dei detenuti addetti alle pulizie dell'istituto, per un adeguato ed indispensabile livello di igiene e salubrità dei locali interni, oggi fortemente compromesso dai drastici tagli.
IL deputato del PD Testa chiede:
“quali misure urgenti il Ministro intenda attuare al fine di garantire e rendere effettivi, oltre ai diritti della popolazione detenuta nel carcere di Montorio, anche quelli della polizia penitenziaria che deve sopportare, con grande sacrificio, enormi disagi tra i quali pesanti turni di lavoro forzati;
se intenda provvedere con urgenza allo stanziamento delle risorse indispensabili per la manutenzione ordinaria;
quali iniziative intenda porre in essere al fine di fronteggiare la grave situazione di sovraffollamento descritta in premessa, anche al fine di scongiurare il verificarsi di emergenze igienico-sanitarie”.

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lunedì 20 giugno 2011

Conferenza sul lavoro del PD e precari

Il documento preparato da Stefano Fassina è stato approvato dai partecipanti alla conferenza nazionale sul lavoro del Pd. Vi è stata una grande mobilitazione e partecipazione e degli interventi molto interessanti. Peccato che il responsabile, Stefano Fassina, non ha fatto nessuno sforzo per condurre ad unità le diversità sul lavoro che esistono all’interno del PD. Questo rappresenta un limite della conferenza che avrebbe potuto sancire una visione unitaria non difficile da realizzare ed una sintesi che utilizzasse le capacità e le intelligenze di tutti coloro che si sono spesi per dare una identità al PD su un tema fondamentale per il futuro dell’Italia e dei lavoratori.
L’integrazione delle posizioni poteva realizzarsi facilmente in quanto Fassina ha espresso delle proposte di politica economica e Pietro Ichino è entrato in merito alla normativa che regola le relazioni industriali, il mercato del lavoro e, quindi, l’eliminazione del fenomeno del precariato in una prospettiva nuova di stabilità e sicurezza del lavoro dipendente diversa da quella attuale, la quale non assicura una politica attiva del lavoro (garanzia del posto di lavoro, servizi di outplacement e di riqualificazione professionale) nel momento in cui l’impresa entra in crisi.
Perché questo non è avvenuto? Perché Stefano Fassina non ha tentato una mediazione culturale tra l’immediato, il breve ed il medio termine? Ritengo che la risposta vada trovata nel fatto che la Cgil, in particolare la Fiom, ancora una volta, è in ritardo sulle questioni cruciali del paese e dei lavoratori e coltiva vecchi equilibri che risalgono agli anni ’70 e ’80 superati dagli avvenimenti e dai cambiamenti intervenuti nel pianeta.
Le posizioni del Governatore della Banca d’Italia, della Confindustria e di molti imprenditori, della Commissione Europea in tema di lavoro sul PNR dell’Italia, dei lavoratori di Cisl e Uil e di alcuni esponenti e categorie della Cgil non hanno influito nel percorso prestabilito da Stefano Fassina, prima nelle conferenze locali e poi nella conferenza nazionale. Eppure Pietro Ichino nel suo intervento aveva espresso la proposta di considerare il documento “Per dare valore al lavoro” un contributo in una prospettiva non immediata.
Il primo limite è rappresentato dall’inadeguatezza o dall’assenza di volontà a condurre ad unità le capacità e le competenze espresse da diversi esponenti del PD da diverso tempo. Ma la cosa più strana è rappresentata dal fatto che non esistono oggi nel PD delle proposte organiche alternative a quella di Ichino che restituiscano nelle mani dei precari il loro futuro rubato e cristallizzato da un Governo insensibile ed incapace.
Ritengo che abbia prevalso la tattica, considerata la crisi del sistema politico e probabilmente le elezioni politiche a breve termine, e non la strategia tramite la quale si costruisce il futuro dell’Italia. Ma questa analisi è insufficiente da sola se si considerano le posizioni elettorali di coloro che contrastano le tesi di Ichino e che da diverso tempo non votano PD.
Un altro aspetto non considerato è rappresentato dalla urgenza di ridefinire il lavoro (dipendente, autonomo, professionale, artigiano) in maniera che si applichi la tracciabilità del lavoro stesso attraverso le banche dati dell’Inps e dell’Agenzia delle Entrate per evitare elusioni ed evasioni. Ichino per il lavoro dipendente ha proposto la dipendenza economica caratterizzata da: continuità della prestazione, monocommittenza, limite di reddito. Questa trasparenza serve al sistema Italia per applicare l’informazione analitica nel mondo del lavoro, superando i controlli degli ispettori che producono alti costi e pochi risultati.
Un terzo limite è rappresentato dall’allineamento della contribuzione previdenziale dei lavoratori con contratti atipici a quella dei lavoratori dipendenti che pretende di risolvere il problema del precariato. Questa proposta non fa distinzione tra le false collaborazioni autonome ed i veri autonomi per i quali crea una discriminazione ed un sopruso. Inoltre, tale misura non inverte la tendenza delle imprese a favore del rapporto di lavoro dipendente rispetto ai contratti a progetto ed ai rapporti con partita iva poiché gli imprenditori alla scadenza dei contratti atipici sono liberi di rinnovarli o meno. Pertanto, non si risolve in questo modo il problema dei lavoratori precari.
Perché in assemblea Fassina non ha proposto delle misure alternative nel caso in cui l’allineamento delle contribuzioni non dovesse funzionare a vantaggio dei lavoratori precari? Domanda questa che ha posto prima di me Ichino alla quale Fassina non ha ancora risposto.
Ogni volta che affronto il tema della centralizzazione e del decentramento mi viene in mente il libro Senza Leader di Ori Brafman e Rod A. Beckstrom, i quali espongono l’organizzazione a stella marina.
Le organizzazioni obsolete funzionano a ragno nel senso che la testa dell’organizzazione è al centro e le parti del corpo eseguono i comandi ricevuti (centralizzazione). Le nuove organizzazioni sono caratterizzate da un tipo di organizzazione a stella marina dove la testa è rappresentata da tutto il corpo con pochi controlli dall’alto (decentramento).
Pur rimanendo valida la contrattazione collettiva nazionale in particolar modo per quei lavoratori che non sono coperti dalla contrattazione aziendale, occorre che la contrattazione aziendale assuma maggiore rilevanza per affrontare le specificità di una impresa o di un territorio in quanto il contratto collettivo non è in grado di sostenere. In tal senso occorre allargare gli spazi di derogabilità del contratto nazionale per avviare processi di innovazione e cambiamento a livello aziendale molto favorevoli alla sopravvivenza dell’impresa nell’economia globale.
In definitiva non possiamo permetterci il lusso di far uscire dal mercato imprese in nome del principio della contrattazione centralizzata.
Il documento presenta delle insufficienze rispetto agli stage. Bastava ascoltare l’intervento della mia amica Eleonora Voltolina per aggiornare il documento. 
I lavoratori precari rappresentano oggi l’anello più debole del mondo del lavoro e non hanno nemmeno la possibilità di entrare nelle organizzazioni sindacali ed avviare un processo di cambiamento che consideri i loro problemi.
Le OO.SS. rappresentano solo i lavoratori dipendenti titolari di un livello di tutela e sicurezza stabile, lasciando fuori energie e capacità molto importanti del mondo del lavoro rappresentate dai precari. Questa divisione non giova ai precari ed alle organizzazioni sindacali che non si rinnovano e non ampliano gli spazi di partecipazione.
La storia sindacale testimonia che in diverse occasioni le OO.SS. hanno espresso concretamente la loro disponibilità per risolvere i problemi economici dell’Italia. Al contrario nel caso dei lavoratori precari non tutte le OO.SS. sono ugualmente disponibili a realizzare forme di tutela e sicurezza per tutti i lavoratori sostanzialmente dipendenti nella prospettiva di realizzare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Per tale motivo non condivido le posizioni di chi non accetta o rimanda i cambiamenti necessari per porre fine ad una discriminazione assurda che restringe gli spazi di democrazia sindacale e nega il futuro ai lavoratori precari.
Rimandare i problemi significa non considerare un fattore di cambiamento che è rappresentato dalla velocità, la quale si riscontra nelle organizzazioni più innovative del pianeta. Il Partito Democratico deve tenerne conto in quanto è un’organizzazione politica.

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domenica 19 giugno 2011

Chiamparino, Veltroni e Marino suppliscono alla cattiva informazione

La conferenza sul Lavoro organizzata dal Partito Democratico è stata accompagnata da cattiva informazione che riportava il ritiro della firma dal documento proposto da Pietro Ichino, Maurizio Ferrera, Paolo Giaretta, Enrico Morando, Michele Salvati e da Ivan Scalfarotto nonostante le dichiarazioni degli interessati. Dopo aver pubblicato sul mio blog alcune dichiarazioni a sostegno del documento “Per dare valore al lavoro” si riportano le dichiarazioni di Walter Veltroni, Sergio Chiamparino e Ignazio Marino.

Lettera di Sergio Chiamparino e Walter Veltroni a Dario Di Vico pubblicata su Corriere della Sera, 19 giugno 2011
Qui il resto del postNel suo interessante editoriale di ieri lei fa riferimento al fatto che noi due avremmo tolto la firma dal documento presentato da Pietro Ichino e altri studiosi e dirigenti politici sui temi del lavoro. Le cose non stanno cosi. Noi sosteniamo con molta forza con molta forza le posizioni espresse da Ichino, Salvati, Ferrera e lo facciamo non da oggi. Con Ichino abbiamo semplicemente deciso che il documento fosse firmato solo da sei persone di grande competenza sui temi del lavoro proprio perché volevamo che la discussione si concentrasse sul merito delle proposte in esso contenute. Esse costituiscono per noi, lo abbiamo detto con forza anche al Lingotto, la principale risorsa, con una crescita forte e equa e una modernizzazione del Paese, per introdurre nel mondo del lavoro, e in una prospettiva di sicurezza sociale milioni di persone, soprattutto giovani, che ne sono esclusi perché costretti alla precarietà. Le abbiamo scritto perché ci teniamo a ribadire ciò che abbiamo detto anche in queste ore, come risulta anche da dichiarazioni inequivoche riportate dalle agenzie di stampa, e cioè il nostro pieno sostegno alla proposta di Pietro Ichino. E perché pensiamo che il tema interessante da lei analizzato meriti approfondimenti fondati sulle reali posizioni di ciascuno.

Intervento del senatore Ignazio Marino riportato dall’agenzia Virgilio Notizie, 18 luglio 2011
“Per candidarsi alla guida del Paese dopo vent’anni di berlusconismo è necessario offrire una visione del futuro innovativa. L’Italia ha bisogno di un orizzonte del tutto nuovo, in particolare per i giovani precari e i disoccupati. Il Pd per aiutare veramente i settori in crisi dovrebbe promuovere un modello economico e sociale che tuteli i diritti storici, conquistati negli anni Settanta, dando però più garanzie ai giovani lavoratori e conciliando la flessibilità occupazionale con le sicurezze sociali”. A dirlo in una nota è il senatore del Pd Ignazio Marino, commentando la conferenza del partito sul lavoro che si sta svolgendo a Genova. “La proposta del professor Ichino va in quella direzione – aggiunge Marino – sono, in parte, le stesse idee che sostengo da anni e spero che la discussione intorno ad esse non venga chiusa ma si alimenti di contributi. E’ imperativo per il futuro del Paese costruire e tutelare nuovi diritti per i milioni di lavoratori precari che oggi non li hanno. Non è accettabile che una giovane donna non possa avere un figlio per paura di perdere il posto o che un muratore per lavorare venga obbligato ad aprire una partita IVA. Il Pd deve dimostrare l’ambizione ed il coraggio di un confronto aperto e deve rappresentare milioni di giovani voci che chiedono garanzie per il futuro”.

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sabato 18 giugno 2011

Andrea Sarubbi sostiene il progetto Ichino

Non è una questione riservata agli esperti, quella del lavoro, ma probabilmente è il terreno su cui si gioca l’identità del Partito democratico: le difficoltà più serie passano sicuramente di qui, anche se la maggiore televisibilità di altri temi – quelli eticamente sensibili, ad esempio, o quelli di politique politicienne – fanno slittare il lavoro in secondo piano. C’è da capirlo, perché non è che nei bar si discuta abitualmente dei contratti di secondo livello, ma questo non ci permette di sottovalutare il problema: perché di problema effettivamente si tratta, come ha spiegato oggi Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Di Vico parte da una premessa sbagliata – la marcia indietro (che invece non c’è) di Walter Veltroni sulla ricetta proposta da Pietro Ichino – ma arriva purtroppo ad una conclusione verosimile sul futuro del Pd, che mi auguro verrà smentita dai fatti.;
Riassumo Di Vico in poche righe, per chi non l’avesse letto: il Pd che si presentava alle Politiche 2008 era liberal-socialista, quello attuale è più tradizionalmente neo-laburista. Spinto dalle piazze (referendum) e dalla crisi, ha abbandonato i temi della libertà economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) e si è concentrato sul consenso: il pericolo maggiore è che ora si avvicini al popolo, ma si allontani dalla spinta modernizzatrice, dalle soluzioni per uscire dalla crisi.C’è ancora spazio per la linea lib-lab o dobbiamo rassegnarci all’ultima versione del modello post-comunista? Ecco, questo più o meno è quello che scrive Di Vico, e che secondo me ci fotografa in pieno: pur non essendo un esperto di questi temi, che ho studiato solo all’università, ho il timore che un giorno il Pd possa ridursi a proporre la vecchia ricetta keynesiana di pagare metà dei disoccupati perché scavino buche e l’altra metà perché le riempiano di nuovo. Per quel poco che possa valere la mia firma, anche io – come tanti altri miei colleghi di sensibilità diverse, da Ignazio Marino a Paolo Gentiloni, da Enzo Bianco a Franca Chiaromonte, da Sergio Chiamparino a Ivan Scalfarotto – sottoscrivo il documento Ichino, e lo faccio proprio nel giorno della nostra conferenza sul lavoro. Ne condivido la necessità di semplificare il codice del lavoro, perché un potenziale investitore straniero non debba mettersi le mani nei capelli; ne condivido l’analisi severa dell’attuale sistema di contrattazione collettiva, che va in blocco se un sindacato solo non è d’accordo con gli altri; ne condivido, soprattutto, l’idea che la contrapposizione fra protetti e non protetti – gli uni che non possono essere licenziati, gli altri che non verranno mai assunti – è figlia di una visione novecentesca che oggi lascia per strada milioni di giovani. Cito il passaggio chiave, così forse ci capiamo meglio:
Un codice semplificato così concepito può dettare una disciplina della stabilità del lavoro e del reddito capace di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro, superando il dualismo attuale fra protetti e non protetti, e anche quello fra dipendenti delle imprese di dimensioni medio-grandi e dipendenti delle più piccole: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine, quali le sostituzioni per malattia o i lavori stagionali), a tutti le protezioni essenziali (in particolare quella contro le discriminazioni), ma nessuno inamovibile. E a tutti, in caso di perdita del posto di lavoro, una forte garanzia di continuità del reddito e di investimento nella loro professionalità, in funzione della più rapida e migliore ricollocazione. È evidente la rottura drastica che una riforma di questo genere può segnare rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti; e dunque il significato che la riforma stessa può assumere sul piano dell’equità sociale, della lotta alla disuguaglianza e della protezione dei più deboli, che oggi nel mercato del lavoro sono soprattutto i più giovani. Oggi è possibile perseguire questo obiettivo senza aggravio per l’Erario statale, se si attiva il “gioco a somma positiva” della flexsecurity, che consiste nel coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato prima ancora che nel posto di lavoro.
Il Bersani ministro sarebbe stato d’accordo, ne sono sicuro. Il Bersani segretario spero non abbia cambiato idea.

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Pietro Ichino alla conferenza del PD sul lavoro

Riprendo innanzitutto l’appello con cui Franco Marini ha concluso il suo bell’intervento di questa mattina: un’appello, che condivido fino in fondo, all’unità del Partito. Vorrei solo aggiungere una considerazione: l’unità che rende forte il Partito democratico non è quella che nasce da un pensiero unico, secondo il modello del partito monolitico del secolo scorso, ma è quella che nasce dalla volontà di stare insieme di persone con idee e retroterra culturali molto diversi. Quanto più diversi sono questi retroterra e gli orientamenti di ciascuno di noi, tanto più la nostra capacità di essere uniti consentirà al Partito democratico di candidarsi credibilmente il Paese. Ma se è così, francamente non capisco il fastidio con cui è stato accolta da alcuni di noi la presentazione a questa Assemblea del documento che ho firmato insieme a Michele Salvati, Maurizio Ferrera, Enrico Morando, Ivan Scalfarotto e Paolo Giaretta, come contributo alla nostra elaborazione. Anzi, in un momento di discussione come questo, su di un tema così arroventato, avrei trovato appropriato che venissero presentati anche altri documenti, vista la pluralità degli orientamenti che per fortuna il nostro Partito ospita. D’altra parte, un Partito come il nostro ha bisogno non soltanto dei politici puri, che si occupano del consenso immediato dell’opinione pubblica: ha bisogno anche di qualcuno che si assuma il compito sovente ingrato di lavorare sui terreni più difficili, elaborando le soluzioni necessarie ma sulle quali il consenso potrà maturare soltanto in un secondo tempo. Il lavoro di questi ultimi risulta utilissimo quando la realtà circostante subisce delle brusche accelerazioni: è quello che consente al Partito di non farsi trovare impreparato. E sul tema del dualismo del mercato del lavoro è possibile che si verifichi a breve una di queste accelerazioni: ne parlerò tra poco.
 Con il documento che abbiamo distribuito ci proponiamo di mettere a fuoco e risolvere questo problema: il nostro diritto del lavoro da anni ha deliberatamente rinunciato a proteggere le nuove leve. I datori di lavoro oggi sono del tutto liberi di scegliere se applicarlo o no; e nella maggior parte dei casi scelgono di non applicarlo. Se vogliamo che torni davvero a essere applicabile a tutti, dobbiamo in larga parte riscriverlo.
Vengo dal Senato, dove due terzi degli assistenti parlamentari sono assunti come collaboratori autonomi. Fanno esattamente lo stesso lavoro dei loro colleghi assunti come lavoratori dipendenti, ma a loro il diritto del lavoro non si applica. Stesso discorso alla Camera dei Deputati. La cosa è considerata da tutti – a quanto mi risulta, anche dalla maggior parte dei parlamentari del Pd – assolutamente regolare, anzi ovvia.
È lo stesso problema che il Segretario della Fillea-Cgil di Modena, Sauro Serri, denuncia in riferimento al settore edile, quando ci avverte che da tempo ormai nessun muratore viene più assunto come dipendente regolare: tutti a partita Iva, tranne pochi “privilegiati” soci di piccole cooperative. Stessa cosa per i medici e infermieri delle case di cura, per il settore editoriale: in questi settori da anni solo una assunzione su dieci avviene in forma di lavoro dipendente; tutte le altre, quando non sono in forma di appalti di servizi a cooperative di lavoro, sono in forma di collaborazione sedicente autonoma.
L’Inpgi e la FNSI ci informano che oggi i giornalisti regolari sono meno della metà del totale: gli altri sono tutti qualificati – se va bene – come collaboratori a progetto, altrimenti come “partite Iva”, nonostante che lavorino continuativamente per un unico committente, svolgendo esattamente la stessa prestazione di un redattore regolare. E la discriminazione appare in tutta la sua durezza nel livello retributivo: i regolari guadagnano mediamente più di 50.000 euro annui, mentre gli “autonomi” ne guadagnano mediamente meno di 10.000 (i dati esatti, raccolti in una audizione della Commissione Lavoro del Senato, sono disponibili sul mio sito).
Questa è la situazione. Il 7 giugno scorso la Commissione Europea la ha individuata con precisione come il problema cruciale del mercato del lavoro italiano. Il documento della Commissione Europea è la risposta al capitolo di politica del lavoro del Piano Nazionale delle Riforme italiano (quel capitolo nel quale il nostro Governo aveva sostenuto che il “dualismo” fra protetti e non protetti nel nostro tessuto produttivo non sarebbe un problema, perché la percentuale del 13 per cento dei contratti a termine in Italia è in linea con la media dell’Unione). Leggiamo che cosa dice il documento della Commissione:
“Il PNR non affronta il problema del dualismo del mercato del lavoro perché, secondo le autorità, l’Italia non ne risentirebbe più di altri Paesi dell’UE. Tuttavia un dualismo esiste tra lavoratori dipendenti con contratti a durata indeterminata e lavoratori con una protezione limitata, se non del tutto inesistente”. Il vero problema – prosegue la Commissione – non riguarda “tanto i lavoratori dipendenti con contratti a tempo determinato, che rappresentano una percentuale dell’occupazione totale prossima alla media dell’UE (13%)”: non sono questi “a essere scarsamente protetti, bensì piuttosto i lavoratori registrati ufficialmente come autonomi ma in realtà in una relazione di lavoro subordinato come tutte le altre (i cosiddetti para-subordinati o collaboratori). Le loro possibilità di essere riconosciuti come dipendenti o di diventare veri lavoratori autonomi sono molto inferiori alle possibilità dei lavoratori con contratti a tempo determinato di ottenere un contratto permanente”.
Questo, dunque, è il problema, che anche l’Europa ci chiede di risolvere. E che presto l’Europa ci imporrà di risolvere: perché questo dualismo configura una discriminazione specificamente vietata dalla direttiva comunitaria numero 70 del 1999. Sto preparando con un gruppo di giovani precari una denuncia alla Commissione che porterà – speriamo – all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, obbligandoci ad affrontarlo in modo incisivo.
Ora dobbiamo chiederci: quando la Commissione Europea ci obbligherà a porre fine a questa indecente situazione di apartheid nel nostro mercato del lavoro e tessuto produttivo, pensiamo davvero di potercela cavare soltanto con la parificazione del contributo previdenziale dovuto alla Gestione separata dell’Inps per tutti i lavoratori di serie B e C rispetto al contributo previdenziale dovuto al Fondo Lavoratori Dipendenti?
È evidente che questa parificazione – giustamente indicata come necessaria nel documento presentato da Stefano Fassina (ma ora la propone anche il ministro Tremonti, sia pure essenzialmente al fine di fare cassa) costituisce un primo passo importante. Su questo punto siamo tutti d’accordo. Ma pensiamo davvero che, compiuto questo passo, il problema dell’apartheid sarà superato? Cioè che, parificati i contributi previdenziali, tutti i deputati e senatori riconosceranno i loro assistenti come lavoratori dipendenti, tutte le imprese edili, le case di cura, le case editrici, non avranno più motivo di tenere “a partita Iva” i loro muratori, medici, infermieri, giornalisti?
E quando Tremonti o chi lo sostituirà avrà disposto quel pareggiamento, cosa faremo? Dichiareremo risolto il problema?
Se pensiamo che questo imponente fenomeno del dualismo fra protetti e non protetti sia tenuto in piedi soltanto da quel 5 o 6 per cento che divide oggi l’aliquota contributiva per il lavoratore subordinato da quella applicabile al collaboratore autonomo, perdiamo di vista il vero nocciolo del problema. Una volta parificato il contributo previdenziale, resta la differenza profonda di disciplina, tra rapporti di lavoro dipendente e rapporti di collaborazione autonoma, in materia di malattia, di congedi parentali, di orario di lavoro e riposi, di ferie, di trattamento di fine rapporto. E resta soprattutto la differenza profonda di disciplina in materia di cessazione del rapporto: disciplina del termine e disciplina del licenziamento, individuale e collettivo.
È ancora la Commissione Europea, nello stesso documento della settimana scorsa che ho citato prima, a individuare il nodo con precisione chirurgica: “In realtà, una protezione rigida dal licenziamento, anche tramite un’applicazione molto restrittiva dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti per ragioni economiche, scoraggia l’assunzione di lavoratori permanenti e pertanto aumenta il ricorso a contratti … di lavoro para-subordinato” o autonomo. In altre parole, la Commissione Europea conferma che un diritto del lavoro che voglia essere capace di applicarsi all’intera area del lavoro sostanzialmente dipendente deve abbandonare il vecchio modello “anni ’60 e ’70”, che fondava la sicurezza dei lavoratori sull’ingessatura dei loro rapporti di lavoro nella grande impresa; e deve invece costruire la sicurezza delle persone sulla garanzia di continuità del reddito e sull’investimento nella professionalità del lavoratore. È il modello della flexsecurity: un modello che non ha nulla a che vedere con il liberismo selvaggio, ma al contrario attinge all’esperienza dei Paesi dove i lavoratori – soprattutto i più deboli, i drop outs, gli ultimi della fila sono meglio protetti che in qualsiasi altra parte del mondo.
Se vogliamo adempiere il nostro obbligo comunitario, e al tempo stesso rispondere positivamente alla domanda sempre più forte che l’intera società civile italiana rivolge alle proprie forze politiche, non possiamo limitarci a proporre una parificazione dei costi contributivi e/o retributivi tra lavoro dipendente e collaborazioni autonome. Né possiamo limitarci a dire che la legge c’è e la sua elusione va repressa: i 2000 ispettori del lavoro oggi all’opera nel nostro Paese riescono a stanare solo uno su diecimila casi stimati di evasione o elusione. Solo in due o tre casi ogni diecimila i lavoratori interessati ricorrono ad avvocati e giudici per contestare la forma del loro rapporto; anche perché in un caso su due di contestazione perdono la causa per difetto di “prova della subordinazione”.
Se vogliamo risolvere il problema occorre individuare l’area di applicazione del diritto del lavoro, cioè del rapporto di lavoro dipendente, sulla base di requisiti che non richiedano ispettori, avvocati o giudici per essere accertati: requisiti come la monocommittenza, la continuità e l’entità del reddito, che emergano immediatamente dai tabulati dell’Inps e dell’Erario. È solo così che possiamo garantire l’effettiva universalità del diritto del lavoro. Per questo ancora il segretario della Fillea-Cgil di Modena dice che solo così si può risolvere alla radice il problema dei muratori assunti con la partita Iva. Ma, naturalmente, se compiamo un’operazione così incisiva dobbiamo anche farci carico di ridisegnare un diritto del lavoro che almeno per le nuove assunzioni che avverranno d’ora in avanti – sia realisticamente suscettibile di applicarsi davvero in tutta questa area, in cui operano oggi quasi 19 milioni di lavoratori in Italia.
Ora, siamo tutti d’accordo che l’articolo 18 così come è strutturato oggi non è realisticamente applicabile in tutta questa area, della quale esso oggi copre meno della metà. Lo ha riconosciuto anche Stefano Fassina, in un dialogo pubblicato dal numero di MicroMega, in edicola da ieri. Ma allora non possiamo esimerci dal riscrivere delle regole in materia di licenziamenti che siano davvero suscettibili di applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente: anche a tutti quei muratori, quei giornalisti, quei medici, quegli infermieri, quei redattori e correttori di bozze delle case editrici, e gli altri milioni di lavoratori, giovani ma anche non più giovani, che oggi lasciamo privi di qualsiasi protezione.
Si è detto e scritto – lo ha scritto ancora Ugolini sull’Unità di ieri – che la soluzione delineata in questo nostro documento eliminerebbe l’articolo 18. Può apparire paradossale, ma le cose stanno in modo opposto: c’è più articolo 18 in quel progetto che nell’ordinamento attuale. Oggi, è vero, l’articolo 18 si applica in materia di licenziamento disciplinare, di licenziamento discriminatorio e di licenziamento per motivo economico od organizzativo; ma si applica soltanto a 9 milioni di lavoratori su quasi 19 milioni. La nuova disciplina che proponiamo non tocca i vecchi rapporti di lavoro stabili; per i nuovi rapporti di lavoro dipendente estende l’applicazione dell’articolo 18 a tutti per la parte in cui davvero esso è essenziale, cioè su licenziamenti disciplinari e licenziamenti discriminatori. E soltanto sui licenziamenti di natura economica od organizzativa sostituisce la vecchia tecnica protettiva; ma la sostituisce con il modello di protezione adottato da decenni nei Paesi del Nord-Europa: quello che ci viene indicato dalla Commissione Europea come il solo modello che consenta di coniugare la flessibilità necessaria alle imprese con la massima sicurezza economica e professionale dei lavoratori. Per questo dico che c’è più articolo 18 in questo progetto che nel lasciare le cose come stanno!
Non ho, comunque, la pretesa che la maggioranza del Partito Democratico faccia suo oggi questo progetto. Quello che chiedo alla maggioranza è di non ostracizzarlo, di non creargli intorno cordoni sanitari; di considerarlo come parte del nostro comune patrimonio progettuale, sapendo che esso è condiviso da una larga minoranza in seno al Partito stesso. Potrebbe venire, e forse verrà anche molto prima di quando ce lo attendiamo, il momento in cui avremo bisogno urgente di sperimentare una soluzione di questo genere per evitare le sanzioni dell’ordinamento europeo contro il nostro regime attuale di apartheid. Concediamoci almeno di preparare il terreno per questa eventualità con un dibattito sereno e pragmatico. Questa, del resto, è una delle ragioni costitutive del Partito Democratico.
Video dell'intervento di Pietro Ichino

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Walter Veltroni e Ivan Scalfarotto sostengono il progetto Ichino

Comunicato stampa di Walter Veltroni
Ripartire dal lavoro, con la Conferenza che si è aperta oggi a Genova, dopo la svolta che si è prodotta nel Paese con le elezioni amministrative e i referendum, è una scelta di grande significato politico: il Partito democratico vuole corrispondere alla grande apertura di credito che ha ricevuto da parte degli elettori, alla quale ha fatto riscontro una caduta verticale di consensi alla maggioranza di governo, rilanciando la sua attenzione, il suo impegno e la sue proposte a favore del lavoro.
Far ripartire la crescita, allargando e qualificando la base produttiva e creando nuova e buona occupazione, è la priorità assoluta per il Paese e quindi per il Partito democratico. Creare nuova e buona occupazione significa per me in primo luogo abbattere il muro della precarietà: un muro che separa e segmenta il mondo del lavoro, che esclude dalla cittadinanza piena milioni di persone, soprattutto giovani, ragazze e ragazzi privati del diritto di progettare la loro esistenza, di dare alla loro vita una prospettiva di futuro.
È importante che il PD si batta contro questa odiosa apartheid del nostro tempo. Lo dico oggi, come lo avevo detto al Lingotto, a gennaio, in una relazione che, su questi temi, riprendeva e rilanciava le proposte, lucide e appassionate, di Pietro Ichino. Una relazione che il segretario del PD, Pierluigi Bersani, aveva apprezzato per il suo spirito riformatore e per il suo intento costruttivo e propositivo. Lo stesso spirito e lo stesso intento hanno caratterizzato la posizione espressa da Pietro Ichino, Michele Salvati, Maurizio Ferrera ed altri che penso possa e debba essere materia per la elaborazione comune, nel condiviso intento di fare del Partito democratico il principale strumento politico del riscatto del mondo del lavoro nell’Italia di oggi”.
Lettera di Ivan Scalfarotto“Mi telefona un vecchio amico, dicendosi “sgomento” per il fatto che io sia uno dei primi firmatari del documento che Pietro Ichino presenterà oggi alla “Conferenza Nazionale per il lavoro” organizzata a Genova dal PD. “Non si può tutelare il lavoro eliminando i diritti dei lavoratori” mi urla praticamente nelle orecchie.
Ho lavorato per molti anni come direttore delle Risorse Umane (sì, il capo del personale) in Gran Bretagna, occupandomi di lavoro su una cinquantina di Paesi di Europa, Medio Oriente e Africa e posso dire con serena coscienza che l’Italia, con la sua reputazione di Paese ipergarantista per i lavoratori, è l’unico in cui io abbia visto il precariato elevato a sistema. Altrove si può licenziare un lavoratore pagando un indennizzo e sapendo che il sistema di welfare si prenderà – in modo più o meno intenso a seconda delle latitudini – cura di chi ha perso il posto. Ma fintanto che il rapporto di lavoro continua, non esiste lavoratore che non abbia le ferie pagate e la malattia, i contributi sociali, la formazione. Cose che diamo per scontate per tutti dall’invenzione della spoletta a vapore.
E invece. Una mia amica, assunta a partita iva da una multinazionale dell’industria della musica, mi ha raccontato della volta in cui, all’annuncio della gravidanza, fu messa seduta stante alla porta. “Mi è andata quasi bene che mi abbiano licenziato: col figlio precedente il mercato “tirava”, per cui ho dovuto lavorare fino all’inizio delle doglie”. Un’altra mia amica, classe ’72, laureatissima in CTF – Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, specializzazione ipertecnica – non ha mai visto in vita sua un contratto a tempo indeterminato. Ora che di recente gliel’hanno proposto, ha pensato di tenersi la sua partita IVA e di continuare da farmacista libera professionista: “Non ci sono abituata, a questo punto, a quasi quarant’anni, preferisco la mia flessibilità e poter seguire i miei bambini da vicino”.
Qui, sia molto chiaro, nessuno vuole abolire i diritti dei lavoratori, secondo la frettolosa e superficiale interpretazione del mio amico urlante: le proposte di Ichino (nessun cambiamento per chi oggi ha un contratto “vero”; contratto a tempo indeterminato per tutti i nuovi assunti, senza articolo 18 per i licenziamenti dettati da ragioni economiche ma con l’articolo 18 assolutamente applicabile contro i licenziamenti disciplinari e discriminatori; concorso delle spese a carico dei datori di lavoro per finanziare un sistema di garanzia nei periodi tra un lavoro e un altro) di fatto aumentano, e di molto, i diritti dei lavoratori. Di tutti quei lavoratori – soprattutto giovani – che oggi, entrando nel mercato del lavoro, di diritti non ne hanno nessuno.
Per capirlo basterebbe chiedere a un qualsiasi lavoratore precario di scegliere oggi tra un contratto atipico e un contratto a tempo indeterminato “vero”, ma senza clausola di inamovibilità in caso di riorganizzazione aziendale. Sono certo che tutti – come fanno quelli che se ne vanno a lavorare a Londra o a Barcellona in cerca di un contratto senza articolo 18 – sceglierebbero il contratto non inamovibile ma “vero”. Il motivo è che il precariato è intollerabile non solo perché priva i lavoratori della sicurezza economica e del loro futuro ma perché li priva anche della dignità del proprio lavoro. Entrare in ufficio e fare lo stesso lavoro dei propri colleghi essendo però un lavoratore di serie B (col tesserino diverso, senza ticket, con le comunicazioni aziendali che non ti arrivano perché sei un consulente e senza che mai nessuno ti inviti a un corso di formazione o a un evento aziendale perché tanto oggi ci sei e domani chissà) è avvilente. Mina il senso di autorealizzazione che ogni lavoro dovrebbe portare con sé. Fa sentire esclusi, più piccoli. Tocca la stima di sé.
Fassina dice che per eliminare il precariato basta aumentare il costo dei contratti atipici. E’ sicuramente vero che un contratto atipico non dovrebbe essere mai essere più conveniente, ma vero è anche che il bisogno di flessibilità di cui necessita il sistema non può essere scaricato integralmente solo su una parte dei lavoratori, quelli più giovani e deboli. Nessuna azienda, nessun imprenditore, può assumersi in questo secolo il rischio di avere il 100% dei propri lavoratori in una posizione di (praticamente) assoluta inamovibilità. Chiunque abbia per un solo giorno fatto il mio lavoro lo sa benissimo. E allora, superata la soglia critica, si assume solo con contratti fasulli cosicché gli ultimi arrivati non contano nulla e si possono licenziare con uno schiocco di dita. Anche in maniera discriminatoria, tanto niente li protegge.
La verità è che l’approccio tradizionale della sinistra, e quello che sta assumendo il PD sotto la guida di Fassina, fa prevalere il concetto della sicurezza (solo formale, teorica e sperata, perché per l’intanto di sicurezze i precari ne hanno zero) a quello della sicurezza sostanziale e dell’opportunità. Radica l’aspirazione all’immobilità invece di consentire a chi entra nel mondo del lavoro di assumersi dei rischi (anche investendo su se stessi) sapendo che la protezione sta nel sistema che si prende cura di te nei momenti di debolezza invece che in un datore di lavoro che è costretto a pagarti perché il sistema non ha nessun’altra alternativa da offrirti in caso di disoccupazione improvvisa, se non la fame.
E’ un approccio che scoraggia gli investimenti dall’estero perché i costi – non solo economici ma anche organizzativi – di una ristrutturazione spaventano quelle aziende che lavorano su molti paesi e che sono abituate a pianificare sia per i tempi buoni che per quelli cattivi. Quando decidono di investire in Italia, già al primo stadio del progetto, il fatto di non poter prevedere i costi e i tempi di una ristrutturazione e di accantonare eventualmente i relativi fondi, bloccano il progetto per intero. Nella mia esperienza ho vissuto, verso il 2000, la creazione di un grosso “hub” europeo da un migliaio di posti di lavoro che poi fu creato a Barcellona e ricordo bene che l’ipotesi di farlo a Milano fu depennata tra le prime proprio per l’incapacità della sede italiana di avanzare alla casa madre delle realistiche ipotesi economico-organizzative in caso di contrazione del business. Il risultato fu che mille spagnoli trovarono lavoro (senza articolo 18, e ce l’hanno ancora) e mille milanesi rimasero evidentemente a casa.
Il mio amico al telefono mi ha pure detto: “Ma come, firmi un documento contro il segretario proprio ora che vinciamo?” Ho risposto che mai come questa volta la mia firma non ha nulla a che vedere con la tattica e con gli schieramenti interni, è tutta e solo di contenuto. E’ che sono fermamente convinto che l’unica strada da battere sia questa. I giovani sono una risorsa troppo importante per ingannarli e promettere loro cose che non potremo loro consegnare realisticamente mai. Facciamo una proposta seria. Restituiamo loro prima di tutto la dignità del lavoro e un contratto degno di questo nome, invece di lasciarli con nulla in mano nell’attesa di un rapporto di lavoro che oggi nessuna economia potrebbe sostenere. Ne va del futuro loro, e di quello del nostro Paese”.

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Giovani senza futuro al primo punto dell’agenda del PD

Condivido le analisi e valutazioni sulla situazione economica dell’Italia e le proposte di politica economica  di Stefano Fassina per avviare la crescita della ricchezza e lo sviluppo economico del nostro paese trascurati dal Governo Berlusconi che si dedica alla quadratura dei conti ed alla sicurezza del premier nei processi in cui è coinvolto.
Mi lascia incerto la parte relativa al lavoro precario perché ritengo che il solo riallineamento degli oneri sociali per i lavoratori precari, ad un livello intermedio tra quanto oggi viene versato per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e quanto dovuto per i lavoratori con contratti atipici, non sia sufficiente a far preferire agli imprenditori la fine dei contratto a progetto e dei rapporti con partita iva.
Rimangono a favore del rapporto di lavoro precario i seguenti punti che non consentono una inversione di tendenza verso il rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato:
- l’assenza di tutele per il caso di malattia del lavoratore, di permessi retribuiti, di limiti di orario e altre protezioni che caratterizzano il lavoro subordinato;
– l’assenza di qualsiasi limitazione della facoltà di recesso del datore di lavoro o committente, che consente di interrompere il rapporto non appena l’impresa vi abbia anche il minimo interesse. La protezione attuale del lavoro dipendente disposta dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori incide in modo notevole sul costo complessivo del lavoro e, quindi, le imprese preferiscono scegliere il lavoro precario.
Inoltre, si ritiene che la sola crescita economica non risolve il problema dei giovani precari perchè questo sistema genera ingiustizie sociali e, pertanto, va cambiato e non modificato.
Occorre riscrivere il diritto del lavoro in modo semplificato, comprensibile ed applicabile e specificare gli elementi essenziali della dipendenza economica che caratterizzano il lavoro dipendente e che non possono essere elusi dagli imprenditori: continuità della prestazione, monocommittenza, limite di reddito di 40mila euro. La dipendenza economica consente di individuare il lavoro dipendente direttamente dal sistema informativo dell’Inps e dell’Agenzia delle Entrate.
Inoltre, non condivido la seguente affermazione contenuta nel documento “L’apartheid del lavoro non riguarda soltanto i giovani precari. Riguarda tutto il lavoro dipendente esplicito o assimilato ed i settori deboli del lavoro autonomo e professionale. Pertanto, la soluzione non sta nel “contratto unico” e nella rimozione delle protezioni dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. I numeri indicano che la precarietà con l’art 18 ha ben poco a che fare. Tant’è che i contratti precari sono enormemente concentrati nelle micro-imprese e, in generale, nelle imprese con meno di 15 dipendenti, ossia le unità produttive fuori dallo Statuto dei Lavoratori”.
Tale affermazione riguarda solo il lavoro a progetto che, dopo la Legge Biagi, copre una piccola parte dell’area dell’elusione ed evasione del diritto del lavoro e non le false partite iva che rappresentano una percentuale più alta che interessa le imprese con più di 15 dipendenti.
Le imprese di piccole dimensioni hanno interesse ad eludere il rapporto di lavoro subordinato ed i lavoratori sono più esposti a tali abusi.
Si richiama l’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi “L’esclusione dei giovani”, i quali dopo aver esposto i dati e le condizioni dei giovani in Italia hanno dichiarato che “Tutte le proposte, di questo governo e dei precedenti, hanno finora riguardato solo i contratti a tempo determinato: modificandoli marginalmente, e introducendo nuove modalità di precariato. Nessuno ha avuto il coraggio di smantellare il dualismo e passare al contratto unico. La resistenza degli anziani si potrebbe superare non toccando i vecchi contratti e applicando il contratto unico solo ai nuovi assunti. Se lo si fosse fatto quindici anni fa, ai tempi del Pacchetto Treu, durante il primo governo Prodi, la transizione si sarebbe già completata. Nessun governo né di destra, né di sinistra ha avuto la lungimiranza di farlo. Un' altra idea è modulare le aliquote delle imposte sul reddito in funzione dell' età, abbassando le tasse per i più giovani. La perdita di gettito si dovrebbe recuperare con riduzioni di spesa. Ciò aumenterebbe il reddito disponibile dei giovani e li renderebbe più indipendenti e più impiegabili perché al lordo delle imposte costerebbero meno alle imprese”.
Si ricorda la pubblicazione di Tito Boeri e Pietro Garibaldi “Un nuovo contratto per tutti”, i quali indicano le riforme da perseguire: ammortizzatori sociali, salario, contratto unico ed altro.
Si richiama la mozione sulla politica economica approvata con 255 voti favorevoli, 14 contrari e 12 astenuti si afferma che “La competitività da ritrovare e la coesione nazionale dipendono da vari fattori principali: 1) il contrasto della corruzione; 2) la crescita della produttività, che è anche condizione per attrarre investimenti esteri; modelli contrattuali che sviluppino la contrattazione decentrata di secondo livello e coinvolgano i lavoratori nei risultati dell’impresa; l’effettiva premialità per la responsabilità e il merito anche nelle amministrazioni pubbliche; un nuovo codice del lavoro semplificato, anche sulla base delle proposte del disegno di legge Atto Senato n. 1873”.
La Provincia di Parma ha approvato una mozione che sollecita il parlamento ad avviare la discussione parlamentare per la Riforma del Diritto del Lavoro sulla base delle proposte finora presentate, tenendo conto che già il Senato della Repubblica ha approvato il 10 novembre 2010 una mozione a larghissima maggioranza che sollecita le Camere a lavorare in tale direzione, e con la determinazione necessaria a garantire ai giovani contratti di lavoro e ammortizzatori sociali adeguati a offrire loro un futuro meno incerto e non precario.
A Bergamo, alle assise di Confindustria, Emma Marcegaglia apre al progetto flexsecurity e raccoglie un largo consenso sul punto tra i 6000 imprenditori presenti.
Inoltre, il Governatore della Banca d’Italia nella sue considerazioni finali richiama le proposte del senatore Pietro Ichino in materia di relazioni industriali e di mercato del lavoro.
La conferenza avrà effetti positivi solo nel caso in cui si ritrovi una posizione unitaria tra il documento di Fassina e quello firmato da Ichino ed altri. Altrimenti si rileverà un vero fallimento perchè vuol dire che il PD non è in grado di effettuare scelte autonome rispetto alle organizzazioni sindacali ed è incapace di condurre ad unità le capacità e le proposte interne al partito. Ritengo che le proposte di Fassina sulla politica economica vadano bene ma non cambiamo il sistema delle relazioni industriali e del mercato del lavoro. Per tale motivo occorre integrarlo con i disegni di legge di Pietro Ichino soprattutto per dare delle prospettive certe ai giovani precari.
Si ritiene che le riforme di Ichino siano fondamentali ed efficaci per porre termine al dualismo del mercato del lavoro ed alle ingiustizie sociali che esso prefigura.

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venerdì 17 giugno 2011

Eleonora Voltolina alla conferenza del PD sul lavoro



Eleonora Voltolina, fondatrice di Repubblica degli Stagisti, che svolge un servizio importante per i giovani e per la riforma degli stage ha testimoniato con il suo contributo i problemi gravi che i giovani vivono nel mondo del lavoro.  

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giovedì 16 giugno 2011

Riflessioni sui referendum

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa del 13 giugno 2011
A giudicare dall’affluenza di ieri sembra altamente probabile che il quorum verrà raggiunto. In molti vi leggeranno una grande vittoria dell’opposizione, una nuova spallata al governo. Ma la vera vittoria è un’altra: una grande ritrovata voglia di partecipazione dei cittadini. Non si può infatti imputare una così alta affluenza solo a una vittoria dell’opposizione: se anche tutte le persone che alle ultime amministrative hanno votato per i partiti d’opposizione andassero a votare per il referendum, il quorum non verrebbe raggiunto. E’ quindi evidente che molte persone, anche tra quelle che continuano a supportare questo governo, hanno voluto dare un messaggio molto chiaro alla politica: ci siamo e vogliamo esserci. Vogliamo contare, vogliamo dire la nostra.
Questo è un segnale più profondo e importante dei singoli quesiti referendari.
Ed è evidentemente la reazione a una stagione politica che sistematicamente ha escluso i cittadini dalle proprie scelte e decisioni, una stagione in cui rappresentanti parlamentari hanno fatto e disfatto coalizioni, saltando con disinvoltura da uno schieramento all’altro, dichiarando e smentendo alleanze, lanciando proposte subito stravolte o rimesse nel cassetto a seconda della convenienza. Un comportamento che, come sottolineato da molti commentatori, è legato alla pessima legge elettorale che abbiamo, che non consente ai cittadini di scegliere i candidati che vogliono eleggere. Con questa legge, di fatto, deputati e senatori non rispondono più ai loro elettori, ma ai capi partito che decidono di candidarli (e se ricandidarli in futuro…).
Ma non ci scordiamo che la legge elettorale fornisce solo uno strumento: dà la facoltà ai partiti di scegliere i loro candidati, non li obbliga a sceglierli sulla base di clientelismi e vecchie logiche di fedeltà e interessi personali, né a «comprarli» e scambiarli come se fossero figurine. La degenerazione che ne è scaturita è colpa dell’irresponsabilità di tanti politici, un atteggiamento che ha infettato molti altri aspetti della nostra vita democratica anche al di là della legge elettorale. Basta pensare alla scelta delle priorità delle attività governative, che sistematicamente hanno privilegiato misure di tipo personalistico o propagandistico rimandando quanto più possibile misure urgenti per i cittadini e le imprese. O pensare a come il Parlamento sia stato spesso esautorato delle sue funzioni, il dibattito minimizzato, e molte decisioni importanti prese in fretta e furia nelle segrete stanze del potere, per poi essere magari cambiate in corso d’opera senza nemmeno prendersi la briga di dare spiegazioni plausibili. Tutta una serie di comportamenti che sembravano poggiare sull’inossidabile certezza, da parte di tanti politici, che tanto il «popolo bue» si accontenta di qualche chiacchiera generica, e magari non è nemmeno interessato. D’altronde è anche vero che negli anni scorsi svariate occasioni di partecipazione democratica sono state disertate da molti cittadini - incluso il referendum sulla legge elettorale del 2009 - così come numerosi casi di scandali tanto a destra quanto a sinistra non hanno provocato grosse rivolte nelle rispettive basi elettorali. E’ solo negli ultimi mesi che qualcosa è scattato negli italiani, forse stanati dal morso di una crisi che non accenna a passare. E’ scattata una voglia di riappropriarsi della vita democratica del Paese, ribellandosi all’attuale politica di entrambi gli schieramenti. Una ribellione che nel centrosinistra si è manifestata in modo più evidente negli esiti di molte primarie, mentre nel centrodestra la vediamo nei risultati delle ultime amministrative e nella decisione di molti elettori di partecipare al referendum nonostante la campagna astensionista di gran parte del governo.
Questo segnale è importante, e dovrebbe insegnare una lezione a tutti. Una lezione ai politici di entrambi gli schieramenti, che capiscano che non si può governare un Paese ignorando e snobbando i propri elettori. Ma anche una lezione per tutti i cittadini, soprattutto per quelli che per anni hanno seguito con noia e sonnolenza le vicende politiche italiane, disertando le urne quando decisioni importanti venivano prese, oppure fidandosi ciecamente dei politici che avevano votato, seguendoli come si fa con la squadra del cuore. La lezione che tutti quanti dovremmo imparare è che la soglia dell’attenzione dev’essere sempre alta, che la partecipazione democratica è qualcosa che va esercitato sempre, non solo quando stiamo per scivolare nel baratro o quando qualcosa comincia a toccarci personalmente. La partecipazione si coltiva ogni giorno: informandosi, ragionando, discutendo. E non solo nelle piazze, ma nelle case, nelle aziende, nelle scuole, nelle strade, mettendosi anche in gioco quando necessario e non solo facendo il tifo per o contro qualcun altro. Solo così una democrazia può mantenersi viva e rinnovarsi sempre, anche quando non siamo chiamati alle urne.

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mercoledì 15 giugno 2011

Per dare valore al lavoro: quali riforme

Contributo di un gruppo di deputati, senatori e dirigenti del Pd all’Assemblea nazionale sul lavoro – Genova, 17 e 18 giugno 2011
Documento proposto da: Pietro Ichino, Maurizio Ferrera, Enrico Morando, Paolo Giaretta, Michele Salvati e Ivan Scalfarotto. 
I DIFETTI DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
Il nostro mercato del lavoro fa registrare da molti anni performance peggiori rispetto alla maggior parte dei Paesi europei per
- tasso di occupazione complessivo;
- tasso di occupazione femminile, giovanile e degli anziani;
- tasso di disoccupazione di lunga durata;
- livelli retributivi a parità di contenuto della prestazione lavorativa;
- tasso di lavoro irregolare e dualismo fra lavoratori protetti e poco o per nulla protetti.
Alcune di queste disfunzioni sono imputabili almeno in parte al difetto di crescita economica del Paese, che a sua volta è in larga parte dovuto alla sua scarsa attrattività per gli investimenti esteri. Questi ultimi costituiscono la risorsa finanziaria principale cui possiamo attingere nel breve e medio periodo per rimettere in moto la crescita economica del Paese, aumentando produttività e domanda di lavoro; e anche per questo aspetto la nostra performance è tra le peggiori d’Europa.
Le cause dell’iniquità e dell’inefficienza del nostro mercato del lavoro sono le stesse che determinano l’incapacità del nostro Paese di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali. Fra queste cause vanno annoverati il malfunzionamento delle amministrazioni pubbliche, i difetti delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, il costo troppo alto dei servizi alle imprese e dell’energia, il basso livello di civicness diffusa, ma anche un mercato del lavoro opaco, nel quale le imprese attingono gran parte della flessibilità necessaria al processo produttivo da pratiche di evasione o elusione degli standard posti dal diritto del lavoro largamente tollerate al punto da divenire normali. Il difetto del know how necessario per operare nell’area dell’illegalità o della semilegalità, di cui dispongono più facilmente gli imprenditori indigeni, costituisce un ostacolo rilevante all’insediamento nel nostro territorio di imprese straniere. Una ulteriore difficoltà è costituita dai gravi difetti di funzionalità del nostro sistema delle relazioni industriali.
I DIFETTI DEL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
Dagli inizi del nuovo secolo, da quando si è persa l’unità d’azione tra le confederazioni sindacali maggiori, il nostro sistema delle relazioni industriali è venuto manifestando in modo sempre più evidente un carattere di marcata vischiosità e inconcludenza. Nel regime di “diritto sindacale transitorio” in cui l’Italia si trova da ormai più di 60 anni, si sono affermate regole non scritte in materia di contrattazione collettiva che, nelle situazioni di dissenso insanabile tra i sindacati, generano paralisi. Questa paralisi si rivela perfettamente funzionale a un accordo protezionistico tacito, tendente a chiudere il nostro sistema economico ai piani industriali innovativi, in particolare a quelli cui sono collegati i potenziali investimenti provenienti dall’estero, che vede nell’ultimo quarto di secolo una vasta componente trasversale del movimento sindacale fare sponda alla parte più conservatrice dell’imprenditoria italiana; e, sul piano politico, la vecchia sinistra fare sponda alla parte più conservatrice della destra.
MISURE CON EFFETTO IMMEDIATO A COSTO ZERO
È possibile, innanzitutto, una drastica semplificazione della nostra disciplina di fonte nazionale dei rapporti di lavoro, il cui ammasso disorganico occupa oggi migliaia di pagine.
Il disegno di legge n. 1873/2009 , firmato da 55 senatori del Pd, mostra come il contenuto essenziale della nostra legislazione nazionale su questa materia possa essere espresso – senza alcuna perdita di contenuto, ma anzi con un guadagno di incisività – in un nuovo Codice del lavoro semplificato di poche decine di articoli chiari e semplici, scritti per essere facilmente traducibili in inglese, ma anche per essere distribuiti in milioni di copie a tutti i lavoratori, imprenditori e consulenti, in modo da rendere immediatamente conoscibile il diritto del lavoro da parte di tutti coloro cui esso è destinato (come avvenne nel 1970 con i 40 articoli dello Statuto dei Lavoratori). Questa è una precondizione essenziale per garantire l’universalità ed effettività della disciplina vigente.
Lo stesso d.d.l. n. 1873 mostra altresì come un codice semplificato così concepito possa dettare una disciplina della stabilità del lavoro e del reddito capace di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro, superando il dualismo attuale fra protetti e non protetti, e anche quello fra dipendenti delle imprese di dimensioni medio-grandi e dipendenti delle più piccole: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine, quali le sostituzioni per malattia o i lavori stagionali), a tutti le protezioni essenziali (in particolare quella contro le discriminazioni), ma nessuno inamovibile. E a tutti, in caso di perdita del posto di lavoro, una forte garanzia di continuità del reddito e di investimento nella loro professionalità, in funzione della più rapida e migliore ricollocazione. È evidente la rottura drastica che una riforma di questo genere può segnare rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti; e dunque il significato che la riforma stessa può assumere sul piano dell’equità sociale, della lotta alla disuguaglianza e della protezione dei più deboli, che oggi nel mercato del lavoro sono soprattutto i più giovani.
La riforma del diritto del lavoro - Oggi è possibile perseguire questo obiettivo senza aggravio per l’Erario statale, se si attiva il “gioco a somma positiva” della flexsecurity, che consiste nel coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato prima ancora che nel posto di lavoro. Più precisamente, nel vincolare parte delle risorse che le imprese risparmiano in conseguenza della maggiore fluidità e tempestività dell’aggiustamento industriale per la garanzia di continuità del reddito e di buona assistenza nel mercato per i lavoratori che si trovano a dover cambiare posto di lavoro.
Nello stesso tempo, una ridefinizione della nozione del rapporto di dipendenza economica, cui il nuovo diritto del lavoro deve applicarsi per le assunzioni che avverranno da qui in avanti, deve consentire l’accertamento immediato dei requisiti per l’applicazione stessa sulla base dei dati risultanti dai tabulati dell’Erario e dell’Inps, senza necessità dell’intervento in loco di ispettori, né di avvocati e giudici.
La riforma nel segno della flexsecurity qui prospettata non reca alcun pregiudizio ai lavoratori regolari stabili al momento della sua entrata in vigore, poiché non modifica il vecchio regime di stabilità che è ad essi applicabile. Essa giova invece:
- ai lavoratori destinati a entrare nel tessuto produttivo da quel momento in avanti, poiché le prospettive di sicurezza che essa offre loro (protezione contro le discriminazioni, continuità del reddito, copertura previdenziale e investimento sulla loro professionalità) in caso di licenziamento sono incomparabilmente migliori rispetto a quelle che si offrono loro nel contesto attuale;
- alle imprese, poiché il maggior costo che la riforma accolla loro con la disciplina dei licenziamenti di natura economica od organizzativa è ampiamente compensato dalla maggiore tempestività dell’aggiustamento industriale e prevedibilità del relativo costo.
L’estensione dell’applicazione del diritto del lavoro a tutta l’area del lavoro in posizione di dipendenza economica avrà automaticamente l’effetto di una universalizzazione degli ammortizzatori sociali, oggi riservati soltanto al rapporto di lavoro subordinato regolare: su questa base si agevola la prospettiva della costruzione di un sistema di “reddito di cittadinanza”.
È una riforma esplicitamente raccomandata al nostro Paese dalla Commissione Europea proprio in questi giorni: “Esiste un dualismo tra lavoratori con contratti a durata indeterminata e lavoratori con una protezione limitata, se non del tutto inesistente, dal rischio di disoccupazione”, per combattere il quale occorre “trovare un punto di equilibrio tra sicurezza e flessibilità“. La stessa Commissione critica il carattere discrezionale della copertura assicurata dalla Cassa integrazione guadagni, che ” ha contribuito a mantenere il potere d’acquisto delle famiglie durante la crisi”, ma “potrebbe ostacolare la mobilità occupazione e settoriale” (Raccomandazione della Commissione sul PNR e il PS dell’Italia, 7 giugno 2011).
Il Partito Democratico è nato anche e soprattutto per promuovere questa riforma, dando voce e rappresentanza politica a una generazione che nel nostro mercato del lavoro è oggi pesantemente penalizzata. La riunificazione del diritto e del mercato del lavoro costituisce parte essenziale di questa politica.
Sul versante del sistema delle relazioni industriali il problema è inverso rispetto al versante della disciplina dei rapporti individuali: qui è indispensabile superare una grave lacuna normativa che si trascina ormai da sessant’anni. Occorre dare attuazione al principio democrazia sindacale enunciato dall’articolo 39 della Costituzione, sia in materia di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, sia in materia di contrattazione collettiva, affinché il dissenso tra sindacati non determini paralisi della contrattazione stessa e non finisca coll’ostacolare l’afflusso di buoni investimenti esteri, del management di alta qualità e dei piani industriali innovativi che essi sovente portano con sé. In assenza di un grande accordo interconfederale firmato da tutte le principali associazioni sindacali e imprenditoriali, la soluzione può essere costituita da una legge che (come delineato nel progetto gemello di quello sopra citato, il d.d.l. n. 1872/2009)
- ripartisca i rappresentanti sindacali in azienda in proporzione ai consensi ricevuti da ciascuna organizzazione in una consultazione elettorale almeno triennale, salvaguardando il rapporto organico tra il rappresentante e l’associazione esterna;
- attribuisca alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di stipulare accordi e contratti collettivi con efficacia estesa a tutta la categoria interessata;
- garantisca all’associazione minoritaria la libertà di non sottoscrivere accordi e contratti, senza per questo perdere il diritto ai propri rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro;
- consenta al contratto collettivo aziendale stipulato dalla coalizione maggioritaria (con radicamento in almeno quattro regioni), o comunque approvato in un referendum dalla maggioranza dei lavoratori interessati, di sostituire in tutto o in parte la disciplina contenuta nel contratto nazionale.
MISURE EFFICACI A MEDIO TERMINE
Un programma di medio periodo deve, in primo luogo, puntare allo sviluppo di una rete di buoni servizi per i lavoratori e le imprese nel mercato del lavoro. In particolare:
- è indispensabile incentivare e rafforzare l’impegno delle Regioni sul terreno del servizio di orientamento scolastico e professionale, che deve raggiungere capillarmente tutti i ragazzi al termine di ciascun ciclo scolastico, assicurando loro – sul modello dei migliori guidance o career services del nord-Europa – un bilancio ben fatto delle competenze e informazioni precise sulle opportunità che si offrono loro, sia sul versante scolastico e della formazione professionale, sia sul versante degli sbocchi occupazionali effettivamente possibili;
- occorre inoltre incentivare e rafforzare l’impegno delle Regioni a sostegno della sicurezza professionale del lavoratore in caso di perdita del posto: la riforma di cui si è detto nel § 1 responsabilizza le imprese su questo terreno, ma le Regioni devono fare la loro parte spendendo bene i contributi del Fondo Sociale Europeo e le altre ingenti risorse di cui dispongono, a sostegno dei servizi di outplacement, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e di assistenza intensiva per la mobilità geografica dei lavoratori interessati.
L’azione del Governo centrale e delle Regioni deve, in generale, essere orientata a facilitare il trasferimento dei lavoratori in condizioni di sicurezza economica e professionale dalle imprese marginali o sub-marginali a quelle più produttive e più forti nel mercato dei beni o dei servizi.
Le risorse necessarie per il miglioramento generale dei servizi al mercato del lavoro possono e devono essere reperite attraverso un drastico riorientamento della spesa, sia per le politiche passive (sostegno del reddito mediante intervento della Cassa integrazione, oggi troppo sovente utilizzata per mascherare situazioni di effettiva disoccupazione), sia per le politiche attive (servizi di formazione professionale, dove oggi si osservano sprechi enormi e cattiva o mancata utilizzazione dei contributi del Fondo Sociale Europeo).
La ristrutturazione dei servizi regionali di orientamento e di formazione professionale, invece, comporterà probabilmente la soppressione di numerosi posti stabili di “istruttore”: le “cattedrine” dalle quali da decenni viene impartito lo stesso addestramento di bassa qualità e senza alcuna stretta corrispondenza con l’evoluzione tecnologica del tessuto produttivo. Il meccanismo di responsabilizzazione e incentivazione economica delle imprese per la migliore ricollocazione del lavoratore licenziato porterà necessariamente a un forte spostamento della domanda di formazione verso servizi nuovi, in larga parte prodotti dal sistema stesso delle imprese. È verso questi che dovrà orientarsi la spesa delle risorse disponibili e in particolare dei contributi del Fondo Sociale Europeo.
Hanno aderito: Sergio Chiamparino, Alfonso Andria, Enzo Bianco, Daniele Bosone, Vito Carofiglio, Stefano Ceccanti, Mauro Ceruti, Franca Chiaromonte, Lucio D’Ubaldo, Anna Rita Fioroni, Giampaolo Fogliardi, Marco Follini, Guido Galperti, Paolo Gentiloni, Maria Pia Garavaglia, Manuela Granaiola, Alessandro Maran, Andrea Marcucci, Ignazio Marino, Daniela Mazzuconi, Magda Negri, Vinicio Peluffo, Giovanni Procacci, Nino Randazzo, Simonetta Rubinato, Antonio Rusconi, Gian Carlo Sangalli, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo, Walter Veltroni.

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