mercoledì 10 agosto 2011

Pietro Ichino: riforma del diritto del lavoro

Lettera di Pietro Ichino sul lavoro pubblicata il 10 agosto 2011 sul Corriere della Sera
Caro Direttore, il ministro Sacconi ha ragione quando denuncia (sul Corriere di ieri) la persistenza dei tabù della vecchia sinistra politica e sindacale sulle riforme in materia di lavoro. Ma dimentica che quegli stessi tabù sono presenti e fortemente radicati anche nel centrodestra. Per esempio, sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in materia di disciplina dei licenziamenti, è solo di un anno fa l’apologia del “posto fisso” clamorosamente compiuta dal ministro Tremonti. Questo fa sì che Sacconi sia poco credibile quando annuncia il suo intendimento di sostituire a colpi di maggioranza lo Statuto del 1970 con un nuovo “Statuto dei lavori”. E ancor meno credibile quando su di una materia così delicata e incandescente si propone di chiedere al Parlamento una sorta di delega in bianco al Governo.
Per far cadere i tabù occorre la talpa che scava sotto di essi minandone le basi nell’opinione pubblica; occorre il lavorio faticoso delle discussioni sui quotidiani e sul web, dei mille dibattiti serali nelle feste di partito, di sinistra e di destra, anche nei luoghi più sperduti, magari con la partecipazione soltanto di 50 o 100 persone. Certo, lo scavo della talpa non basta: per far cadere il tabù è sempre necessario anche un evento un po’ eccezionale, capace di determinare una accelerazione delle scelte politiche. Ma se la talpa non ha lavorato, o il suo lavoro viene ignorato, anche quell’accelerazione non si dà, o non produce buoni risultati.
Si obietterà che la crisi finanziaria gravissima in cui versa il Paese esige decisioni rapide e incisive, che dunque non c’è il tempo per il lavoro della talpa. D’accordo. Ma negli ultimi anni la talpa ha già scavato a lungo, sia a sinistra sia a destra. Lo ha fatto su un progetto di radicale riscrittura e semplificazione dell’intera disciplina dei rapporti di lavoro nella forma di un nuovo codice del lavoro in 70 articoli, che mira al superamento del regime attuale di apartheid tra protetti e non protetti, comprendendo anche una radicale riforma della materia dei licenziamenti ispirata alle migliori esperienze nord-europee. Il progetto è stato presentato in Parlamento già due anni fa da 55 senatori del Pd e radicali (disegno di legge n. 1873).
Da allora, attraverso centinaia di convegni, dibattiti, confronti pubblici e privati, ha allargato notevolmente la propria base di consenso, come è dimostrato dalla mozione bi-partisan, primo firmatario Francesco Rutelli, che il 10 novembre scorso il Senato ha approvato con 255 voti favorevoli e soltanto 24 contrari o astenuti, alla presenza del ministro del Lavoro Sacconi. Quella mozione, motivata dalla necessità di stimolare la ripresa della crescita economica del Paese, impegna il Governo a varare un testo unificato delle norme sul lavoro modellato proprio sul disegno di legge n. 1873. Che non si sia trattato di un episodio casuale e politicamente poco significativo è dimostrato dal fatto che, due mesi dopo l’approvazione di quella mozione, a Palazzo Madama alcuni senatori della Lega hanno manifestato esplicitamente il proprio favore al progetto, e alla Camera alcuni deputati di Futuro e Libertà capeggiati da Benedetto Della Vedova ed Enzo Raisi hanno lanciato l’iniziativa di un progetto di legge di iniziativa popolare per una riforma del diritto del lavoro ispirata esplicitamente all’impianto di quello stesso disegno di legge. Poco dopo hanno fatto proprio pubblicamente quel progetto, con un intervento sul Corriere dell’8 aprile scorso, anche Luca Cordero di Montezemolo e Nicola Rossi. E la “macchia d’olio” è andata allargandosi anche in seno al centrosinistra, se è vero che hanno espresso consenso a quel progetto non soltanto i leader delle due minoranze interne al Pd, Walter Veltroni, e Ignazio Marino, ma anche alcuni esponenti della maggioranza, come Enrico Letta e Massimo D’Alema, e ultimamente il “vecchio saggio” Giuliano Amato.
Il risultato del lavoro della talpa, dunque, si vede eccome, in tutto l’arco delle forze politiche. Proprio in questi giorni, poi, si è verificato anche l’evento eccezionale, quello capace di determinare una accelerazione delle scelte di governo in direzione del superamento del tabù. Secondo l’anticipazione del Corriere di lunedì, la Banca Centrale Europea, per bocca del suo Governatore uscente Jean-Claude Trichet e di quello entrante Mario Draghi, in via per ora ufficiosa, ci indica tra le condizioni necessarie per il suo intervento a sostegno del sistema Italia una profonda riforma del nostro diritto del lavoro. E non sfuggirà al ministro Sacconi che la BCE non ci chiede soltanto una riforma che porti “meno rigidità nelle norme sui licenziamenti nei contratti a tempo indeterminato”, ma anche un “superamento del modello attuale imperniato sull’estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri”. Dunque, il discorso non riguarda soltanto l’articolo 18 e non è affatto a senso unico: è un discorso assai più impegnativo, che va esattamente nella direzione del “codice del lavoro semplificato” proposto con il d.d.l. 1873.
Perché dunque, visto che quel progetto è maturo non soltanto sul piano tecnico-legislativo ma anche su quello politico, non partire da lì per elaborare la risposta che la BCE ci chiede con urgenza?

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