lunedì 31 ottobre 2011

Inchiesta sul lavoro

Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma del lavoro, Pietro Ichino, Mondadori, 2011
Da sindacalista della Cgil, poi da ricercatore, professore di diritto del lavoro, avvocato, editorialista del «Corriere della Sera», e per qualche tratto anche come politico in Parlamento, Pietro Ichino ha spesso sostenuto tesi scomode per l’establishment, di sinistra e di destra, contribuendo in modo incisivo all’evoluzione del sistema italiano delle relazioni industriali e raccogliendo tanto consensi ed entusiasmo quanto critiche e contestazioni. Per via delle sue proposte è stato accusato di eresia e addirittura di «intelligenza con il nemico», di essere cioè un portatore di idee liberiste infiltrato nel centrosinistra. Attraverso un’avvincente inchiesta, un vero e proprio interrogatorio senza esclusione di colpi, Ichino risponde a tutte le obiezioni e le accuse ricevute in questi ultimi anni, messe in bocca a un immaginario interlocutoreinquisitore, affrontando i temi fondamentali del lavoro in Italia. E grazie ad analisi precise ed esempi concreti mette a nudo i meccanismi segreti di un sistema drammaticamente ingessato, prigioniero dei propri tabù e delle proprie caste. Un paese in cui vige un regime di vero apartheid tra lavoratori protetti e non protetti, dove agli stabili regolari è riconosciuta una sorta di job property, mentre agli outsiders e ai new entrants, ben che vada, si offrono soltanto i posti di serie B, C e D, con un futuro pensionistico misero, destinato a maturare soltanto dopo i settant’anni. Un sistema chiuso da un tacito accordo protezionistico tra vecchia destra e vecchia sinistra, incapace di attrarre quegli investimenti stranieri che, invece, oggi costituiscono la sola opportunità per tornare a crescere.

Leggi tutto...

Lettera alla UE tra mancanze e genericità

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera del 29 ottobre 2011
La lettera d’intenti inviata dal governo italiano all’Unione europea segna, almeno sulla carta, una svolta, sia per ciò che contiene (riforme del mercato del lavoro, liberalizzazioni, giustizia), sia per ciò che non c’è: non c’è la patrimoniale, né l’ennesimo condono. La lettera è lungi dall’essere un progetto operativo: assomiglia piuttosto a un programma elettorale, una serie di proposte da rendere più precise dopo le elezioni. Peccato che le elezioni siano state tre anni e mezzo fa. Questo manifesto avrebbe dovuto essere varato e attuato allora, quando questo governo fu eletto, se non già nella precedente legislatura quando lo stesso premier e lo stesso ministro dell’Economia erano al governo. Ora, a 17 mesi dalle prossime elezioni, con un governo in cui non tutti sembrano andare d’accordo, pare sinceramente un po’ tardi.
Molte delle idee contenute nella lettera sono simili ad alcune proposte che avevamo elencato sul Corriere il 24 ottobre. Per carità, non vogliamo dire sia «farina del nostro sacco». Di queste riforme si parlava da anni, e in termini ben più articolati dei nostri: noi le abbiamo solo elencate succintamente. Ma i punti di incontro tra le «nostre» proposte e la lettera del governo sono molti. Liberalizzazione del mercato del lavoro tramite il miglioramento dei contratti d’ingresso per i giovani nella prospettiva di un contratto unico; apertura alla possibilità di licenziamenti per motivi economici nei contratti a tempo indeterminato. Bene. Ma in un momento in cui l’economia non accenna a riprendersi bisogna prepararsi al fatto che maggiore flessibilità significa, nel breve periodo, il rischio di un ulteriore aumento della disoccupazione. Maggior flessibilità va quindi affiancata ad una riforma dei meccanismi di tutela, ridisegnati così da proteggere non il posto di lavoro ma i lavoratori, tutti i lavoratori, non solo chi ha accesso alla cassa integrazione. Di questo nella lettera non vi è cenno.
Bene anche, seppur nella loro grande vaghezza, i progetti su liberalizzazioni di servizi e professioni e riforma della giustizia. Ma il diavolo è nei dettagli. Ad esempio non si capisce se l’impegno a «rafforzare gli strumenti di intervento dell’Autorità per la concorrenza, al fine di prevenire le incoerenze tra promozione della concorrenza e disposizioni di livello regionale o locale» significhi un rafforzamento o un indebolimento dell’Antitrust. Né se «l’introduzione di sistemi di garanzia della qualità… delle farmacie comunali» significhi un’apertura del mercato, oppure un consolidamento del monopolio dei farmacisti.
Cosa manca nella lettera? Qualcosa di più su occupazione femminile. Noi avevamo proposto (riprendendo anche idee di Andrea Ichino) aliquote rosa e altri incentivi al lavoro femminile per aumentare il tasso di occupazione delle donne che in Italia è ben al di sotto della media europea. Sul Mezzogiorno si ripetono vecchi slogan: il piano Eurosud è una riproposizione degli incentivi. In passato essi sono serviti a ben poco: come ripete spesso il presidente degli industriali siciliani, Ivanhoe Lobello, ogni euro di incentivi al Mezzogiorno è un aiuto alle imprese che vivono di rendita e di aiuti pubblici, e un ostacolo agli imprenditori che invece vorrebbero competere in un mercato libero. Nel nostro articolo proponevamo idee, anche un po’ provocatorie, per ridurre l’assistenzialismo al Sud e favorire l’occupazione nel settore privato, oggi svantaggiata dalla competizione del settore pubblico. Troppe volte la lettera accenna a grandi opere, progetti infrastrutturali: continuiamo a pensare che grandi progetti come l’Expo di Milano o qualche nuova autostrada non siano la via per la crescita.
Sui costi della politica vi è un lungo elenco di disegni di legge. Il governo pare non aver ancora capito quanto esasperati siano i cittadini dai privilegi di alcuni politici: forse un provvedimento concreto lo si poteva adottare. L’abolizione delle Province è stata «venduta» come fatta già un paio di volte.
Ora arriva il difficile. Trasformare le promesse in norme di legge. L’Unione europea ha espresso un cortese apprezzamento, non poteva fare un processo alle intenzioni. I mercati invece non sono convinti e gli spread sono risaliti. Se il governo non attuasse quanto si è impegnato a fare, e fra due mesi fossimo al punto in cui siamo oggi, l’intera costruzione europea rischierebbe di crollare e con essa il futuro dell’Italia. Il contenuto della lettera è ancora sufficientemente vago da lasciare spazio per fare poco, cantare vittoria e, fra due mesi, ricominciare a discutere. Se qualcuno pensa che questa sia la via d’uscita si illude davvero.

Leggi tutto...

domenica 30 ottobre 2011

Licenziamenti: Pietro Ichino risponde a Silvio Berlusconi

Intervista a Pietro Ichino a cura di Cristiano Lozito, pubblicata su il Tirreno, il 29 ottobre 2011
Sulla questione dei licenziamenti Berlusconi ha detto di ispirarsi al suo disegno di legge n. 1873: ci sono davvero delle assonanze, e se sì quali?
Questo non deve chiederlo a me, ma al Presidente del Consiglio: finora aveva parlato d’altro e il suo ministro del Lavoro aveva opposto un muro al nostro progetto. Se ora il Governo ha deciso di far proprio il disegno di legge presentato da me con altri 54 senatori due anni fa, possiamo soltanto rallegrarcene. Ammesso che un Governo ancora ci sia.
Può spiegare la sua proposta di flexsecurity, chiarendo in particolare quali sono i modi con cui il datore di lavoro viene responsabilizzato per la sicurezza economica del lavoratore licenziato?
Il testo e le schede sintetiche sono disponibili nel mio sito, al portale della semplificazione e della flexsecurity. In sostanza si tratta di questo: un codice del lavoro semplificato, composto di 70 articoli molto chiari e facilmente traducibili in inglese, suscettibili di applicarsi a tutta l’area del lavoro sostanzialmente dipendente. Così si supera il dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. L’idea è che, in partenza, questo nuovo “diritto del lavoro unico”, per la parte relativa ai licenziamenti si applichi soltanto ai rapporti di lavoro nuovi, che si costituiranno da qui in avanti.   style="font-family: inherit;">La nuova disciplina si può sintetizzare così: tutti a tempo indeterminato (tranne, ovviamente, i casi classici di contratto a termine, per punte stagionali, sostituzioni temporanee, ecc.), a tutti le protezioni essenziali, in particolare contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile. E a chi perde il posto una garanzia robusta di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, di continuità del reddito e di investimento sulla sua professionalità.
Davvero una riforma che favorisca i licenziamenti può creare nuovo lavoro?
No, la riforma non crea nuovo lavoro. Ma nemmeno ne distrugge, perché si applica solo ai nuovi rapporti che si costituiscono da ora in poi. E consente alle imprese di assumere tutti a tempo indeterminato, evitando di scaricare tutta la flessibilità soltanto sui “paria”. Consente cioè di superare il regime attuale di aparheid fra protetti e non protetti.
Come giudica i distinguo del Pd (Treu, Damiano, Fassina)?
Su questa proposta il Pd effettivamente è diviso. Ma è stata pur sempre firmata dalla maggioranza dei senatori democratici. E il 10 novembre scorso il Senato ha votato a larga maggioranza, anche con i voti del Pd, una mozione – presentata da Francesco Rutelli che impegna il Governo a varare una riforma ispirata proprio a questo mio disegno di legge.
Come giudica la reazione dei sindacati che si preparano allo sciopero generale?
Lo hanno proclamato contro una ipotesi molto diversa: quella appunto dei “licenziamenti facili”. Su questo progetto non faranno barricate. Anche perché il vertici della Cisl e della Uil, e anche numerosi dirigenti della Cgil, hanno manifestato il loro consenso su di esso nel corso di questi due anni: tutte le loro dichiarazioni sono reperibili nel portale della semplificazione e della flexsecurity, di cui ho detto sopra. E poi, come potrebbero fare le barricate contro un progetto che consente di voltar pagina rispetto all’attuale regime di apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro?

Leggi tutto...

Mario Monti scrive a Silvio Berlusconi

Articolo di Mario Monti, pubblicato su Corriere della sera del 30 ottobre 2011
Signor presidente del Consiglio,
mi permetto di richiamare la Sua attenzione su alcuni aspetti delle Sue dichiarazioni di venerdì sull'euro. Lei ha affermato: «L'euro non ha convinto nessuno. È una moneta strana, attaccabile dalla speculazione internazionale, perché non è di un solo Paese ma di tanti che però non hanno un governo unitario né una banca di riferimento e delle garanzie. L'euro è un fenomeno mai visto, ecco perché c'è un attacco della speculazione ed inoltre risulta anche problematico collocare i titoli del debito pubblico».
Di fronte alle vivaci reazioni suscitate, Lei ha in seguito precisato: «L'euro è la nostra moneta, la nostra bandiera. È proprio per difendere l'euro dall'attacco speculativo che l'Italia sta facendo pesanti sacrifici. Il problema è che l'euro è l'unica moneta al mondo senza un governo comune, senza uno Stato, senza una banca di ultima istanza. Per queste ragioni è una moneta che può essere oggetto di attacchi speculativi».
Sono dichiarazioni che meritano un'analisi a freddo, al di fuori di ogni visione di parte. A mio parere, esse contengono alcune affermazioni fondate e altre infondate. Nell'insieme, fanno sorgere, accanto ad una remota speranza, serie preoccupazioni. Mi auguro che, con le parole e ancor più con i fatti, Lei riesca a rafforzare quella speranza e a sgombrare il campo dalle preoccupazioni, così vive in Italia e in Europa. Non solo - La prego di credermi - presso i suoi «nemici».
È certamente vero che l'euro è «una moneta strana», «un fenomeno mai visto». È anche fondata, e condivisa dagli osservatori più seri, la Sua diagnosi: il principale problema dell'euro consiste nell'essere una moneta «senza un governo, senza uno Stato, senza una banca di ultima istanza». C'è sì la Banca Centrale Europea ma, come credo Lei voglia dire giustamente, essa non dà garanzia di intervento illimitato in caso di difficoltà.
Qui mi permetto di suggerirLe una considerazione. Se la condivide, potrebbe forse riprenderla in uno dei Suoi interventi. L'euro può soffrire della mancanza di un vero Stato alle sue spalle. Ma avere un vero Stato alle proprie spalle non porta necessariamente una moneta ad essere solida. La lira non era una moneta «strana». Ma era, il più delle volte, una moneta debole, proprio perché rifletteva le caratteristiche dello Stato italiano, dei governi e della Banca d'Italia (sempre autorevole ma, per lunghi periodi, arrendevole) che l'avevano generata. A parte un certo rialzo dei prezzi al momento della sua introduzione, la strana moneta euro, rispetto alla nostrana lira, ci ha portato negli ultimi 12 anni un'inflazione ben più bassa.
Se la Sua diagnosi coglie bene una gracilità di fondo dell'adolescente euro, mi sembra però che Lei la applichi a malanni che, in questo momento, il nostro adolescente non ha. Lei rappresenta un euro in crisi, a seguito di attacchi speculativi e aggiunge: «È proprio per difendere l'euro dall'attacco speculativo che l'Italia sta facendo pesanti sacrifici». Questo no, signor presidente.
L'euro non è in crisi. In questi 12 anni, e ancora attualmente, l'euro non manifesta nessuno dei due sintomi di debolezza di una moneta. È stabile in termini di beni e servizi (bassa inflazione) ed è stabile (qualcuno direbbe, anzi, troppo forte) in termini di cambio con il dollaro. Gli attacchi speculativi ci sono, spesso violenti. Ma non sono attacchi contro l'euro. E non è vero che «risulta problematico collocare i titoli del debito pubblico». Gli attacchi si dirigono contro i titoli di Stato di quei Paesi appartenenti alla zona euro che sono gravati da alto debito pubblico e che hanno seri problemi per quanto riguarda il controllo del disavanzo pubblico o l'incapacità di crescere (e di rendere così sostenibile la loro finanza pubblica) perché non hanno fatto le necessarie riforme strutturali. È questo il caso dell'Italia, dopo che in prima linea si erano trovati la Grecia e altri Paesi. Per questo, da qualche tempo, è diventato problematico collocare i titoli del debito pubblico italiano. E di una cosa, signor presidente, può essere certo: se l'Italia non fosse nella zona euro, emettere titoli italiani in lire sarebbe un'impresa ancora più ardua.
Che l'Italia stia facendo pesanti sacrifici, è vero. Essi sono più pesanti di come sarebbero stati se si fosse ammesso per tempo il problema di una crescita inadeguata. Ma non posso credere che Lei pensi davvero che l'Italia faccia questi sacrifici non per rimettersi in carreggiata e ridare un minimo di speranza ai nostri giovani, ma «per difendere l'euro dall'attacco speculativo». Mentre è vero se mai che la Bce, con risorse comuni, interviene a sostegno dei titoli italiani.
In Europa e nei mercati, affermazioni di questo tipo accrescono i dubbi sulla convinzione e la determinazione del governo italiano. Già due giorni dopo le decisioni di Bruxelles, i titoli italiani hanno fatto fatica a trovare collocamento. Ad ogni rialzo dei tassi, dovuto a scarsa fiducia nell'Italia, Lei finisce per imporre sacrifici ancora maggiori agli italiani. Anche le parole non sorvegliate hanno un costo.
Ma ho una preoccupazione ancora maggiore. Dopo le Sue dichiarazioni sull'euro, Fedele Confalonieri, Suo storico collaboratore, personalità rispettata nel mondo economico, se ne rallegra. Affermando che «l'euro è una moneta strana, che non ha convinto nessuno, Berlusconi ha detto una cosa che pensano tutti; solo che lui lo dice, perché non è ipocrita. E non c'è dubbio che il premier con questa battuta abbia toccato le corde di chi, dai tempi del cambio della lira, ha sempre storto il naso». Questo, secondo vari osservatori, fa ritenere che nella prossima stagione pre-elettorale, ormai non lontana, il tema in questione potrebbe diventare un Suo cavallo di battaglia.
Se questa fosse la prospettiva, e non voglio crederlo, ci avvieremmo ad una fase nella quale i severi provvedimenti che Lei si è impegnato a introdurre non potrebbero essere presentati in modo convincente ai cittadini, né potrebbero essere accettati con maturità, perché sarebbero accompagnati da scetticismo, se non recriminazioni, verso l'Europa. L'Italia non farebbe i passi avanti che le sono indispensabili e potrebbe rivelarsi il ventre molle dell'eurozona, con gravi fratture per l'Europa.
Parlavo, però, di una remota speranza. La Sua diagnosi - la moneta è incompiuta e «strana» senza un governo dell'economia e passi verso l'unione politica - è in linea con la migliore tradizione dell'europeismo italiano. Come Lei, forse con qualche turbamento, ha visto a Bruxelles alcuni giorni fa, il governo economico si sta creando. Ma sarebbe più ordinato, più equilibrato e più orientato alla crescita economica se potesse formarsi con un'Italia che con gli altri, Germania e Francia in primo luogo, concorresse attivamente a plasmarlo. Anziché, come sta avvenendo, con un'Italia costretta ad accettare passivamente forme di governo dell'economia che vengono improvvisate soprattutto allo scopo di «disciplinare» il nostro Paese.
Confido, signor presidente, che prevalga in Lei l'ambizione di riportare l'Italia nel ruolo che le appartiene in Europa, accelerando in silenzio il risanamento, rispetto a quella di un successo elettorale a tutti i costi per la Sua parte politica, ma in un Paese sempre più populista, distaccato dall'Europa e magari visto come responsabile di un fallimento dell'integrazione europea.

Leggi tutto...

sabato 29 ottobre 2011

Pietro Ichino, licenziamenti con improvvisazione e provocazione

Intervista a Pietro Ichino a cura di Giorgio Pogliotti pubblicata su il Sole 24 Ore il 28 ottobre 2011
Professor Ichino come giudica l’iniziativa del governo che nella lettera di intenti alla Ue annuncia una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti a tempo indeterminato?
Troppo generico. Ricorda quel signore a cui chiedono “Lei sa suonare il pianoforte”, che risponde “Ora provo”. Una riforma di questa complessità e delicatezza non si inventa in una notte.
Sta dicendo che il governo pecca di improvvisazione?
Sì: dopo tre anni nei quali il governo ha continuato a teorizzare che il nostro era il mercato del lavoro più efficiente del mondo, non si può venire da un giorno all’altro ad annunciare una riforma come questa, senza indicare neppure a quale modello ci si vuole ispirare. Con questi annunci si ottiene soltanto di seminare ansia e provocare alzate di scudi.
Ma le sembra che sia stato compiuto anche un errore nel merito della questione sollevata dalla lettera della BCE o solo nel metodo seguito dal Governo?
Nella lettera del nostro governo alla UE il merito della questione non è neppure affrontato.
E qual’è secondo lei la questione?
Almeno due questioni. La prima riguarda la metà dei lavoratori dipendenti italiani ai quali l’articolo 18 non si applica: occorre riscrivere un diritto del lavoro capace di proteggere anche loro nel mercato del lavoro. La seconda riguarda la tecnica della protezione: quella dell’articolo 18 è sbagliata, perché è per un verso troppo rigida, porta di fatto all’ingessatura dei rapporti di lavoro; per altro verso insufficiente, perché quando viene l’acquazzone accade che il gesso si sciolga e il lavoratore resti con un pugno di mosche in mano.
La soluzione? Flexsecurity: coniugare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza di tutti i lavoratori nel mercato del lavoro. Tutti, non soltanto metà. È la soluzione che ho proposto, con altri 54 senatori, nel disegno di legge n. 1873/2009. A costo zero per lo Stato.
E chi paga? Il ritardo che subiscono oggi le imprese nell’aggiustamento industriale per effetto del regime attuale costa molto caro. In quel che si risparmia rendendo possibile l’aggiustamento tempestivo ci sta dentro abbondantemente il costo di un trattamento alla danese.
A che punto è il confronto parlamentare su quel suo disegno di legge? Il 10 novembre scorso il Senato ha approvato quasi all’unanimità la mozione Rutelli, che impegnava il governo a varare una riforma ispirata a quel progetto. Oggi si potrebbe partire proprio da lì.
La lettera d’intenti ha ricompattato i sindacati che sono pronti a indire lo sciopero generale. Del resto il 21 settembre, con la firma dell’accordo interconfederale, Cgil, Cisl e Uil si erano impegnate a sterilizzare la norma sui licenziamenti dell’articolo 8 della manovra. É ipotizzabile un intervento su questo tema con tutto il fronte sindacale contrario? È ipotizzabile se si incomincia col chiarire che la riforma si applica soltanto ai nuovi rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, a meno che i lavoratori già in forza scelgano a maggioranza di passare al nuovo regime. Questo sdrammatizzerebbe la questione ed esalterebbe l’effetto positivo sul piano occupazionale: mentre da un lato le aziende sarebbero molto più disponibili ad assumere, anche a tempo indeterminato, quelli che hanno un posto di lavoro stabile se preferiscono la vecchia disciplina se la possono tenere.

Leggi tutto...

giovedì 27 ottobre 2011

Amianto, da Roverchiara a Verona

Dai pericoli della discarica di amianto a Roverchiara che interessa l’area territoriale che va da Angiari a San Pietro di Morubbio e da Cerea a Legnago denunziata da Franco Bonfante, consigliere regionale, Diego Zardini, capogruppo del PD in Provincia, e Moreno Ferrarini, consigliere comunale, si ripropone il problema a Verona e precisamente a Borgo Venezia nella centrale elettrica di via Montorio dove insistono quaranta metri di tettoia in eternit.
Alla conferenza stampa, organizzata dal Partito Democratico, per spiegare i rischi della presenza dell’amianto erano presenti Franco Bonfante, consigliere regionale, Giorgio Furlan e Yared Ghebremariam-Tesfaù, consiglieri della sesta circoscrizione.
“Da quando può succedere, dichiara Giorgio Furlani, che la salute pubblica di un quartiere venga messa in secondo piano rispetto ai finanziamenti ad una società professionistica sportiva? Borgo Venezia, già abbandonato da questa amministrazione sotto il punto di vista dei servizi, ora viene lasciata a sé stessa anche dall’AGSM che, invece che adempiere agli obblighi di manutenzione dei propri siti, dispensa sponsorizzazioni e donazioni quantomeno discutibili”.
Giorgio Furlani si è reso promotore di un Ordine del Giorno che verrà depositato presso la sede del parlamentino di B.go Venezia. Un Ordine del Giorno che, riprendendo quanto enunciato dal Vicepresidente del Consiglio regionale in una sua precedente interrogazione, pone l’accento sulle mancanze di AGSM che pone la precedenza ad illustri sponsorizzazioni anziché rimuovere e bonificare tettoie in eternit per una lunghezza complessiva di circa 40m.
“Quello che aumenta lo sconcerto per la mancanza di AGSM non è, però, solo il rischio intrinseco nelle strutture in eternit, afferma Yared Ghebremariam-Tesfaù, ma la prossimità delle stesse con il marciapiede, dove sono anche le pensiline dell’autobus, e del circolo dopolavoro della stessa AGSM. Siamo nelle immediate vicinanze, quindi, di punti di transito che, per forza di cose, aumentano il numero delle persone esposte al rischio.”
Franco Bonfante è intervenuto sottolineando i rischi della presenza di amianto per la salute delle persone e la necessità di un intervento urgente da parte di AGSM, in collaborazione con AMIA, per rimuovere i quaranta metri di eternit presenti nella centrale elettrica di Borgo Venezia.
“È increscioso, ha dichiarato Franco Bonfante, quanto accade ora in Borgo Venezia, forse un’ulteriore dimostrazione dell’inopportunità da parte di AGSM, che ricordiamo essere una partecipata al 100%, di sponsorizzare una società di calcio professionisti, aggirando di fatto la norma che proibisce tali iniziative al Comune, finendo col non adempiere ai propri obblighi nei confronti della cittadinanza.”
L’amianto rappresenta un rischio per la salute nel momento in cui le sue fibre sono rilasciate e sono presenti nell’aria che viene respirata. Gli organi maggiormente colpiti dall’esposizione ad amianto sono i polmoni e la pleura. A carico del polmone, l’amianto può provocare il cancro o una malattia cronica detta ‘asbestosi’, mentre a carico della pleura la patologia correlata è il tumore noto anche come mesotelioma.
L’insorgenza di patologie tumorali non è sempre legato ad una lunga esposizione a fibre di amianto, ma è stato provato che è possibile contrarre malattie correlate anche con basse esposizioni. Il rischio di esposizione non interessa solamente i lavoratori che operano su materiali contenenti amianto ma anche tutte quelle persone che risiedono o frequentano ambienti in cui è presente amianto sotto forma di manufatti. La pericolosità delle fibre di amianto deriva dalla possibilità di essere inalate e di penetrare facilmente nei polmoni.
Considerati i rischi si spera che AGSM …… sospendi ……. gli impegni con le sponsorizzazioni e si dedichi alla rimozione dell’amianto segnalato.

Leggi tutto...

mercoledì 26 ottobre 2011

PA: una riforma mancata

Relazione di Guido Melis, parlamentare PD, tenuta il 24 ottobre a Torino, Aula magna Università, convegno su “L’Italia dal 1861 a oggi”.
1. Il riformismo amministrativo italiano: una storia di vinti
Nell’agenda della politica italiana la riforma amministrativa è un tema ricorrente. Vent’anni fa, quando Sabino Cassese fu, purtroppo per poco meno di un anno, ministro della Funzione pubblica, pubblicammo un quaderno sui progetti di riforma precedenti al suo. Limitandoci a quelli dal periodo successivo alla Grande Guerra sino al 1992 ne contammo 62. Tra di essi alcuni presentavano, nell’analisi e nelle proposte, straordinarie corrispondenze con quelli successivi. Molto sembravano persino d’attualità, quasi che i problemi fossero rimasti per un secolo immutati.
Naturalmente non è stato proprio così. L’amministrazione italiana ha avuto una sua storia, densa di cambiamenti anche profondi, intrecciata con le trasformazioni subite dalla società italiana. Fu nel primo Novecento, nell’età giolittiana, che la questione amministrativa assunse definitivamente il senso di un grande problema nazionale, prima di tutto in termini sociali, caratterizzandosi da allora quasi esclusivamente come la questione del personale burocratico e della sua estrazione. Un’estrazione che da allora fu in prevalenza meridionale. Prima del 1900 l’alta burocrazia – come dimostrano le statistiche pubblicate all’epoca da Francesco Saverio Nitti – era semmai stata essenzialmente settentrionale e la sua collocazione nel novero delle classi dirigenti ne aveva fatto una componente essenziale del top level del Paese, alla pari con i residui dell’aristocrazia savoiarda, i grandi rentiers, i professionisti, la nascente classe dei banchieri e degli industriali ottocenteschi. Ma dopo il primo decennio del Novecento tutto velocemente cambiò: la burocrazia in quanto tale crebbe in 10-15 anni almeno di tre volte, passando da 90 mila a 300 mila dipendenti (e sarebbero divenuti 500 mila con la guerra mondiale); ma soprattutto l’estrazione geografica dei burocrati mutò drasticamente segno, provenendo il nuovo personale assunto in quel quindicennio specialmente dalle regioni del Sud, le stesse che in quegli anni venivano escluse dal primo processo di radicamento dell’industria moderna.
Nasceva insomma il grande patto non scritto: i giovani borghesi e piccolo-borghesi del Nord occupati nelle prime fabbriche o nel vasto indotto finanziario e commerciale; i giovani del Sud nell’impiego di Stato. Alla ripartizione (la più drastica che si possa immaginare, non esiste l’eguale nella realtà europea del Novecento) corrispondeva un corollario: chi entrava nello Stato non guadagnava molto. In compenso però aveva diritto al posto fisso e a lavorare poco. “Poco stipendio per poco lavoro”, fu la formula attraverso la quale i ceti burocratici meridionali furono agganciati al treno dello sviluppo pilotato dal Nord, divenendone l’ultimo vagone. Sempre più estranei – per competenze, formazione culturale (gli studi solo umanistici, la laurea solo e unicamente in giurisprudenza) e anche per ambiente ed estrazione rispetto al dinamismo dell’Italia più produttiva. L’economia avrebbe da allora parlato con gli accenti del Nord, lo Stato con quelli del Sud.
Rispetto a questo schema si sarebbero infranti tutti i progetti di riforma. Persino quello del primo fascismo, affidato al volitivo ministro delle Finanze di Mussolini Alberto De Stefani, il cui libro-memoriale sul grande progetto di trasformazione della burocrazia ebbe un titolo assai eloquente: Una riforma al rogo. E al rogo, o giù di lì, sarebbero finiti i progetti successivi: quelli dei tayloristi dell’amministrazione, una corrente convinta negli anni Venti e Trenta di poter trasferire negli uffici gli standard produttivi dell’industria avanzata di allora; quelli del dopoguerra redatti dalle varie commissioni istituite in sede governativa; e poi quelle del giovane team dell’Ufficio per la riforma, creato presso la Presidenza del Consiglio sotto la guida del sottosegretario Lucifredi; quelli infine costituiti negli anni Sessanta e Settanta, ad opera dei governi di centro-sinistra. Sino al più importante tra i progetti di riforma di questa prima fase, quello predisposto nel 1979-80 dal ministro della Funzione pubblica Massimo Severo Giannini, giurista insigne, conoscitore come nessun altro del problema, costretto tuttavia a lasciare l’opera a mezzo da una improvvida crisi di governo, prima ancora che si potessero verificare gli effetti della sua attività.
La lettera riservata che Giannini scrisse a Bettino Craxi, il leader del Partito socialista nella cui delegazione Giannini in quanto ministro era stato compreso (e dalla quale era stato poi escluso a vantaggio del democristiano Darida) è uno straordinario documento del problematico rapporto tra le élites illuminate dei riformatori e la sordità perenne della politica politicante. Ne leggo il testo, scritto nel tipico stile polemico di Giannini:
“Caro Craxi, da ieri sono tornato ai miei otia et negotia, dei quali sei l’autore. Due domande da farti. Primo: nei Paesi civili, quando si vuole dimissionare una persona, c’è l’uso di avvertirla in tempo utile, se non altro per assicurare la continuità dei servizi. Secondo: ti degnerai di spiegarmi perché hai rinunciato alla funzione pubblica, che pur ti era offerta dalla Dc […], a favore di quattro ministeri periferici […]. Che cosa è accaduto? Un errore di prospettiva? O un nuovo episodio dell’antica carenza del socialismo italiano in ordine ai problemi concreti del pubblico potere? O forse un tuo calcolo recondito?”.
Domande senza risposta. Dopo Giannini, per ritornare a parlare di riforma amministrativa si sarebbe dovuto attendere il 1993.
Dopo il 1993 la riforma amministrativa, se non altro, ebbe un posto fisso nell’agenda dei governi, collegandosi sempre più strettamente al tema delle politiche di bilancio. Fu merito di Sabino Cassese (1993-94) aver inserito nella finanziaria approvata a fine ’93 un’ampia parte sulla riforma. La bussola (ed era un’impostazione nuova) fu la centralità del cittadino, il suo diritto a godere dei servizi pubblici, l’interesse generale prevalente anche nei confronti di quello corporativo del personale.
Semplificazione organizzativa, delegificazione e riduzione del corpo normativo, spazio alle autocertificazioni (una legge le aveva introdotte, ma senza alcun effetto, sin dal 1968), furono alcune delle parole d’ordine. Ma soprattutto fu merito dell’iniziativa di Cassese (in ciò fortemente appoggiato dal presidente del Consiglio Ciampi) avere accreditato una concezione della riforma amministrativa non più come intervento di settore ma come motore strategico dell’intera attività governativa volta al risanamento finanziario.
Cessata forzatamente l’azione di Cassese per le dimissioni del governo Ciampi, dopo le elezioni del 1994 subentrò nelle riforme un periodo di relativa stasi (1994-96), coincidente dapprima con il breve governo Berlusconi (ministro della Funzione pubblica fu Urbani) e poi con il successivo governo Dini. Nel 1996 si aprì una nuova, intensa stagione riformista, caratterizzata dall’azione di Franco Bassanini, che nei governi succedutisi nel corso di quella legislatura svolse successivamente i ruoli di ministro per la Funzione pubblica e di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Tre provvedimenti in particolare caratterizzarono quello che (se non altro per le ambizioni che lo mossero) può essere considerato come un tentativo organico di innovare la struttura dello Stato: le leggi n. 59, n. 94 e n. 127 del 1997 (Bassanini-uno, Bassanini-due e Bassanini-tre). Da esse derivò una vera pioggia di interventi normativi, per lo più decreti delegati, su un amplissimo ventaglio di materie.
Non mi è qui possibile (l’ho fatto altrove) dare conto del complesso di questi provvedimenti, alcuni efficaci, altri rimasti sostanzialmente sulla carta. L’amministrazione fu comunque in quegli anni al centro di un vasto processo di trasformazione, il cui asse centrale può individuarsi nel superamento definitivo della struttura pubblicistica del rapporto di lavoro e nell’avvento di forme contrattuali. In particolare, andando oltre la disciplina del decreto legislativo n. 29 del 1993, il provvedimento che aveva per così dire aperto la strada, il regime di diritto privato fu esteso anche ai dirigenti generali, devolvendo così tutte le relative controversie al giudice ordinario. Una norma del 1998 sottopose per la prima volta alla discrezionalità del Governo (sia pure solo a scadenza di legislatura e con determinati temperamenti) gli incarichi per i dirigenti generali capi dei dipartimenti.
Quale sia stata la reale ricaduta delle riforme sulla realtà dell’amministrazione degli anni successivi è questione ancora meritevole di approfondimenti. Tanto più che la messa in opera della nuova legislazione bassaniniana fu poi in gran parte giocoforza affidata alla gestione del governo di centro-destra, succeduti nel frattempo alla guida del Paese. Le politiche di semplificazione amministrativa, al di là dell’enfasi retorica, furono ad esempio sostanzialmente messe in ombra, da un ritorno massiccio, in più campi, della tendenza alla complessità. La mobilità del personale tra il centro e la periferia, postulata nella riforma del Titolo V, non si realizzò se non in minima parte. La normativa sul cosiddetto spoils-system dei dirigenti fu con la legge 15 luglio 2002, n. 145 ulteriormente ampliata con il risultato di porre definitivamente in discussione quello stesso rapporto di reciproca indipendenza tra politica e amministrazione che le riforme della prima parte degli anni Novanta avevano cercato di fondare su basi di reciproca autonomia.
2. L’amministrazione in mezzo al guado
Comunque, dopo la cura Bassanini, l’amministrazione italiana voltò decisamente pagina, presentando un quadro mosso, in gran parte anzi in movimento, che riassumerei così.
Appaiono innanzitutto in atto cinque dinamiche non ancora del tutto risolte, nelle quali non è difficile scorgere però elementi di vistosa contraddizione. Dal loro futuro svolgimento dipenderà se l’amministrazione italiana si avvicinerà ai modelli europei più avanzati o se invece resterà – come è attualmente – uno dei fattori di debolezza e di freno del sistema-Paese.
La prima dinamica riguarda quella che possiamo definire come “la regionalizzazione incompiuta”, intendendo con questa espressione l’ambigua realizzazione del dettato costituzionale derivante dalla riforma del Titolo V, su cui si sovrappose la riforma ulteriore votata dal centro-destra (devolution) e successivamente la sua cassazione da parte del voto referendario del giugno 2006. L’attuale dibattito sul federalismo, nonché gli svolgimenti legislativi più recenti, non sembrano avere ancora al centro la questione delle prestazioni amministrative come tema centrale delle future riforme istituzionali.
La seconda dinamica concerne lo stato degli apparati centrali e potrebbe compendiarsi nella definizione di un “pluralismo senza ordine”. Lungi dall’essersi assottigliati, retrocedendo a funzioni di coordinamento e di governo “da lontano”, questi apparati hanno teso a mantenersi quantitativamente rilevanti (anzi a moltiplicarsi, sovrapponendosi) e al tempo stesso a rivendicare competenze e funzioni. Al loro interno si sono sviluppati tuttavia fenomeni di modifica molecolare: una accentuata pluralità di situazioni giuridiche differenti caratterizza il personale, mentre sul piano organizzativo si assiste ad una non sempre lineare e coerente moltiplicazione di forme istituzionali e di articolazioni di lavoro.
La terza dinamica è quella derivante dal processo di europeizzazione (e in parte anche, più latamente, di internazionalizzazione) delle amministrazioni pubbliche (non solo di quella statale, ma anche, almeno per certi settori, di quelle regionali: “il benefico contagio europeo”). Su questo punto sappiamo troppo poco, anche se qualche segnale ci dice che potrebbe venire da questa direzione un’inversione delle tendenze negative sin qui elencate.
La quarta dinamica ha riguardato il personale e la chiamerei “la privatizzazione ambigua”, cioè l’adozione di forme del rapporto di lavoro di diritto privato in un quadro di forte resistenza degli assetti primitivi ispirati al diritto pubblico.
Infine, la quinta ed ultima dinamica in atto, è stata la tendenza delle amministrazioni a misurarsi sul mercato (“i servizi amministrativi come prodotto”) e il delicatissimo profilo del nesso tra l’attività amministrativa delle istituzioni pubbliche e i valori sociali che ad essa debbono comunque, per definizione, essere sottesi.
3. La legislatura sprecata 
La legislatura in corso, iniziata con grandi ed enfatiche dichiarazioni di intenti, è stata, sotto il profilo della riforma amministrativa, sostanzialmente deludente. La campagna governativa contro la pubblica amministrazione (il “fannullonismo” evocato dal ministro Brunetta, le politiche generali punitive del pubblico impiego contenute in vari provvedimenti specie nelle finanziarie, l’idea diffusa che “pubblico” sia sinonimo di inefficienza e spreco) ha prodotto nell’ambito dell’amministrazione un acuto sentimento di depressione, del resto facilitato dalla invasione di campo da parte di figure di vertice tratte dall’esterno, dalla interruzione del turn-over generazionale, dalla mortificazione delle professionalità. Per il pubblico dipendente italiano (consentitemi una battuta) ci vorrebbe ormai lo psicanalista, tanto penetrante e martellante è stata la sua emarginazione sociale e la sua riduzione a capro espiatorio di tutti i mali dell’Italia contemporanea.
Sicché qualunque politica di rilancio delle amministrazioni pubbliche si voglia in futuro tentare, dovrà scontare prima il problema della ri-mobilitazione delle forze interne della riforma, della ri-motivazione di coloro (giovani dirigenti, culture professionali) che di quella riforma dovranno necessariamente costituire la guida e l’avanguardia.
L’azione del ministro Brunetta, inizialmente ambiziosa, ha però precocemente perduto la sua bussola, riducendosi a una serie di interventi separati l’uno dall’altro (ad esempio nel campo, pure cruciale, della informatizzazione), con l’esito finale di una dispersione dell’iniziativa e di una sua sostanziale vanificazione.
Persistono, se vogliamo tentare un bilancio, alcuni punti critici che non solo non sono stati risolti ma che si sono, se possibile, di recente ulteriormente aggravati. In sintesi:
1) L’abuso delle gestioni speciali o commissariali, o comunque l’affidamento di compiti via via più rilevanti (ed anche più delicati) ad apparati paralleli sottratti alla catena tradizionale dei controlli. Un abuso che nel caso della Protezione civile è sfociato in fattispecie da codice penale;
2) La conferma, in contraddizione con le asserite velleità federalistiche, della vocazione centralista del sistema, con concentramento al centro di risorse finanziarie (il ruolo assolutamente dominante del Ministero dell’economia e delle finanze) e di leve essenziali alla catena di comando;
3) Il blocco, in molti settori, dei concorsi quale naturale mezzo di ricambio, con conseguente invecchiamento delle pubbliche amministrazioni (e ricorso massiccio a forme di out-sourcing che hanno privato intere aree specialistiche dell’amministrazione del proprio personale, spesso in passato di elevatissimo livello professionale: si pensi a ciò che è avvenuto nei beni culturali);
4) L’assenza di una politica della formazione coerente, capace di tener conto delle trasformazioni in atto e di quelle che si intravedono per il futuro prossimo. E la riconferma, ad onta di tutti i buoni propositi, di un modello formativo tipico (e al tempo stesso obsoleto): quello basato sul laureato in giurisprudenza, preposto a attività di controllo formale piuttosto che a compiti di gestione e operativi;
5) La persistenza di una dirigenza troppo ampia, selezionata con metodi vecchi e antiquati, demotivata perché priva di una sua missione, umiliata dallo spoils system;
6) La scarsa propensione alla innovazione, come testimoniato dal calo del fatturato nel settore dell’11,2% tra il 2008 e il 2010 e dalle posizioni di coda occupate nelle specifiche classifiche europee;
7) La ripresa massiccia della corruzione amministrativa, anch’essa testimoniata dalle classifiche internazionali che ci collocano in coda alla lista dei paesi europei per capacità di reazione e soprattutto di prevenzione del fenomeno corruttivo.
Che fare dunque? Non è questa l’occasione adatta per avventurarsi in previsioni per il futuro. E neanche, nel mio caso in particolare, per esprimere opinioni o ricette su ciò che un eventuale cambio di guida nella maggioranza politica del Paese potrebbe o dovrebbe rappresentare nel campo della riforma amministrativa. Mi limito a citare, come altre volte mi è capitato, l’espressione felice di Carlo Azeglio Ciampi con riferimento al risanamento finanziario: “L’Europa ci obbliga ad essere virtuosi”. Ebbene può darsi, io me lo auguro, che anche nel campo delle performances amministrative l’Europa, prima o poi, ci obbligherà ad essere virtuosi. Anche in controtendenza rispetto alla lunga storia deludente del nostro riformismo amministrativo.

Leggi tutto...

martedì 25 ottobre 2011

Alesina e Giavazzi, proposte a costo zero

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, pubblicato su Corriere della Sera il 24 ottobre 2011
In extremis il premier annuncia un intervento sulle pensioni. Ma le ipotesi valutate finora per far riprendere la crescita sono pannicelli tiepidi per un malato che rischia l’arresto cardiaco. I provvedimenti fiscali di mezza estate ridurranno il deficit di un ammontare pari a sei punti di prodotto interno lordo (pil) sull’arco di un triennio, intervenendo quasi esclusivamente con maggiori imposte.
L’ultima volta che ciò accadde in Italia, nell’autunno del 1992, la crescita l’anno successivo segnò meno un per cento e i consumi meno 3, nonostante in quell’occasione, diversamente da oggi, l’effetto dell’aumento delle tasse fosse in parte temperato dalla svalutazione della lira. Una forte caduta del pil nel prossimo anno, e forse nei prossimi due, non è quindi da escludere. E questo dopo un decennio in cui l’Italia è cresciuta metà del resto d’Europa. In queste condizioni, mettere in rete le ricette mediche, snellire qualche procedura burocratica, progettare qualche nuova infrastruttura sono interventi palesemente inadeguati. L’Italia ha bisogno di una scossa, non di pannicelli. Innanzitutto, smettiamola di illuderci che grandi progetti come l’Expo di Milano o qualche nuova autostrada siano la via per la crescita. Il rendimento di queste opere è ampiamente sopravvalutato. La scarsità di infrastrutture fisiche non è la priorità del Paese. E allora che fare? Le proposte, certo non nuove, su cui ancora una volta torniamo, hanno una caratteristica comune: non costano nulla, anzi alcune consentirebbero allo Stato di risparmiare.
1) Sbloccare il mercato del lavoro con una progressiva introduzione di contratti unici che eliminino al tempo stesso sia l’eccessiva precarietà sia la perfetta inamovibilità dei dipendenti di alcuni settori.
2) Sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei, ispirandosi alla flex security dei Paesi nordici.
3) Tornare alla formulazione originale dell’articolo 8 della manovra finanziaria di agosto, quella inizialmente scritta dal ministro Sacconi e poi modificata su richiesta dei sindacati e con l’accordo di Confindustria: maggiore libertà per imprenditori e lavoratori di fare, se d’accordo, scelte a livello aziendale.
4) Permettere ai salari del settore pubblico di essere diversi da una regione all’altra a seconda del costo della vita. Al Sud il costo della vita è in media il 30 per cento inferiore rispetto a quello del Nord, ma i salari monetari dei dipendenti pubblici sono uguali. Questo permetterebbe un risparmio di spesa pubblica e faciliterebbe l’impiego nel settore privato al Sud dove oggi invece conviene lavorare per le amministrazioni pubbliche.
5) Favorire l’occupazione femminile con agevolazioni fiscali quali le aliquote rosa per le donne che lavorano. L’occupazione femminile in Italia è la più bassa d’Europa.
6) Riformare con equità le pensioni di anzianità (oltre all’aumento dell’età pensionabile annunciato da Berlusconi) e prevedere, con la dovuta gradualità, che si possa lasciare il lavoro solo quando si raggiungono i requisiti per una pensione di vecchiaia o i massimi contributivi. Lo scorso anno l’Inps ha liquidato 200 mila nuove pensioni di vecchiaia e un numero simile (175 mila) di nuove pensioni di anzianità. Ma l’importo medio di un’anzianità è di 1.677 euro, contro 602 euro di una pensione di vecchiaia.
7) Riforma della giustizia civile che accorci i suoi tempi, oggi glaciali, uno dei maggiori ostacoli, soprattutto per i giovani imprenditori. In un articolo pubblicato su questo giornale il 5 giugno abbiamo fatto proposte concrete sull’organizzazione del lavoro dei giudici per raggiungere questo obiettivo a costo zero.
8) Eliminare alcuni dei privilegi garantiti agli ordini professionali. Aprire ai privati la gestione dei servizi pubblici locali (per esempio gestione dei rifiuti). Liberalizzare i mercati, partendo da ferrovie, poste ed energia.
9) Allargare la base imponibile riducendo l’evasione per poter abbassare le aliquote: niente condoni, perché i condoni sono un invito a evadere il fisco. Vincolarsi per legge a destinare le maggiori entrate derivanti dal recupero dell’ evasione unicamente alla riduzione delle aliquote fiscali, in particolare sul lavoro, con una specifica attenzione a quello femminile.
10) Dimezzare i costi della politica, nel vero senso della parola, cioè una riduzione del cinquanta per cento. Ciò non avrebbe un effetto macroeconomico diretto ma darebbe un importante segnale politico di svolta.
Dal punto di vista del metodo bisogna abbandonare la concertazione. Non è possibile che un governo debba decidere qualunque riforma intorno a un tavolo (reale o virtuale) in cui i difensori dei privilegi che quella riforma taglierebbe possono fare proposte alternative e contrattarle con il governo. Infine rimane il problema di «quale» governo abbia il coraggio di fare tutte queste cose. Berlusconi ha una grande occasione per dare un colpo d’ala al proprio governo. Oppure serve una grande coalizione? O un governo tecnico? Non siamo politologi e non lo sappiamo, ma di una cosa siamo convinti: se non si sblocca l’impasse in cui siamo caduti, se neppure il baratro cui ci stiamo affacciando spaventa questa classe politica, allora siamo veramente nei guai. E con noi l’Europa.

Leggi tutto...

domenica 23 ottobre 2011

Contro l'incenitore di Ca' del Bue



Si è svolta una grande manifestazione con circa 5.000 partecipanti per contestare l'inceneritore di Ca' del Bue (Verona). I cittadini prendono sempre più coscienza che occorre difendere l'ambiente naturale e la salute delle comunità locali.
La cultura dei cittadini contro ogni forma di inquinamento si allarga sempre di più e coinvolge sempre di più i cittadini particolarmente quelli che rischiano direttamente come nel caso dell'inceneritore di Ca' del Bue.
Tanti partecipanti, donne , uomini, giovani e bambini, tanti cartelli e bandiere, tanta fantasia espressa negli slogans per esprimere l'indignazione contro il pericolo dell'inceneritore di Ca' del Bue.
La Giunta del Comune di Verona, guidata da Flavio Tosi, non può non tenerne conto e risolvere alcuni problemi per crearne altri più gravi. I cittadini non ci stanno a questo giuoco perverso e combatteranno contro la decisione di mettere in funzione l'inceneritore di Ca' del Bue.
E' in giuoco la salute dei cittadini veronesi .....

Leggi tutto...

Prestito d’onore dalla Cassa Depositi e Prestiti

Parte il progetto della Cassa Depositi e Prestiti ispirato ad una proposta del senatore Pietro Ichino presentata con una interrogazione del 18 maggio 2011 ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione. Vedi il confronto tra Andrea Ichino e Roberto Ceccarelli.
Articolo di Alessandra Puato, pubblicato sul Corriere Economia il 17 ottobre 2011
Si chiama Fondazione per il merito, ne fanno parte gli imprenditori, finanzia gli studenti migliori attraverso le banche e le Poste. È l’ultima iniziativa pubblico-privata della Cassa depositi e prestiti. Un sostegno alle famiglie per pagare la scuola ai figli, ma anche il supporto finanziario di un possibile, futuro aumento delle tasse universitarie per contribuire alla riduzione del debito pubblico, in linea con la proposta del giurista Pietro Ichino, senatore del Pd.
La Fondazione dovrebbe partire entro due-tre settimane ed entro questo periodo dovrebbe essere scelto il suo presidente. Nel giugno 2012 ci sarà il test nazionale di selezione degli studenti, fra chi avrà passato la maturità con voto superiore a 80 su 100. E i primi prestiti dovrebbero essere erogati dall’ottobre successivo. Sono previste anche borse di studio per gli studenti eccellenti.
A regime, si parla di 100 milioni in dotazione alla Fondazione, per erogare prestiti e borse di studio lunghi, fino a 25 anni, di circa 10 mila euro l’ anno, per favorire la mobilità degli studenti verso le università migliori (per ogni prestito da 10 mila euro, la Fondazione accantonerà mille euro). La novità rispetto a iniziative analoghe bancarie (finora mai decollate) è la rata di rimborso: calcolata in proporzione al reddito dello studente, che inizierà a restituire il denaro avuto in prestito quando lavora. E se il lavoro non lo trova? Non restituisce il denaro.
Il modello è la riforma Blair. In Gran Bretagna, dove le tasse universitarie sono state liberalizzate (per un tetto di 9 mila euro all’ anno), il supporto massimo a ogni studente meritevole è di 11.500 sterline, spiega il documento del ministero del Tesoro che illustra l’ iniziativa. Il tasso base è pari all’ inflazione e il rimborso è un prelievo fiscale del 9% sul reddito che eccede le 21 mila sterline. «Ogni porzione di debito non rimborsata entro 30 anni» viene cancellata: «Write off».
In Italia, il meccanismo è il seguente. Gli imprenditori mettono soldi nella Fondazione, che usa questo patrimonio a garanzia dei prestiti. A fornire la provvista finanziaria, il flusso di denaro, è invece la Cassa depositi e prestiti, guidata da Giovanni Gorno Tempini e presieduta da Franco Bassanini. Il rischio di fallimento, quindi, non è in capo allo Stato né alle banche, ma alla Fondazione per il merito. Che è pubblico-privata e può accogliere le fondazioni bancarie.
L’operazione è nata qualche mese fa e ora si sta concretizzando: la stanno studiando Andrea Montanino, dirigente generale al Tesoro e vicepresidente della Banca del Mezzogiorno (controllata dalle Poste), e Giovanni Biondi, capo dipartimento al ministero dell’ Istruzione. La Fondazione per il merito è infatti prevista dal Decreto sviluppo, varato in maggio, e l’ iniziativa è stata presentata il 26 luglio, a porte chiuse, agli imprenditori: nomi come Merloni, Rocca e Moretti Polegato, oltre a Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, e diversi rettori.
Ma perché gli industriali dovrebbero versare denaro a questa Fondazione? Per tre motivi, ritengono i promotori: la deducibilità fiscale (non ci pagano le tasse); il marketing (il loro nome circola); e la riduzione dei costi di reclutamento (avranno accesso preferenziale agli studenti migliori). Di certo c’è che il prestito d’onore «misto» è un altro passo verso l’economia privata per la Cdp, impegnata in questi giorni anche sulla banda larga dopo l’investimento del suo fondo F2i in Metroweb. Presidente designato, Bassanini.

Leggi tutto...

sabato 22 ottobre 2011

Tito Boeri, giovani e precari



Leggi tutto...

mercoledì 19 ottobre 2011

Decreto sviluppo senza scadenze

Tutte le categorie sociali da Confindustria alle Organizzazioni Sindacali e dai cattolici ai giovani senza futuro hanno abbandonato il Governo Berlusconi e richiesto un nuovo Governo più efficace in quanto non intravedono prospettive di sviluppo e di crescita per l’Italia.
Il differenziale di rendimento tra titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni si allarga a 382 punti.
L’incertezza politica e la bassa credibilità del Governo che ritarda a varare il decreto sullo sviluppo non aiutano il paese a migliorare gli indici dei titoli finanziari e dello spread Btp/Bund con gravi conseguenze sulla situazione finanziaria dell’Italia, la quale pagherà un costo maggiore per collocare i titoli nel mercato finanziario.
L'attuale incremento dello spread indica un premio maggiore chiesto sul debito italiano rispetto a quello tedesco e quindi una diminuzione della fiducia relativa sulla solvibilità dell’Italia a confronto del riferimento tedesco.
Gli effetti discutibili delle due manovre economiche approvate dal Governo Berlusconi rischiano di essere vanificate se l’andamento finanziario del paese peggiora.
Intanto Berlusconi dichiara che “i soldi non ci sono, stiamo cercando di inventarci qualcosa”.
L’urgenza di approvare il decreto sviluppo per accelerare la ricchezza del paese ed aumentare le risorse dello Stato da investire nelle riforme strutturali è svanita per l’incapacità del Governo di realizzare un circolo virtuoso a favore dei cittadini e delle imprese.
In un momento di emergenza economica le risorse dello Stato da destinare alla crescita possono essere ampliate ricorrendo ad una imposta sulle grandi ricchezze e attuando una lotta efficace all’evasione fiscale, la quale ammonta annualmente a circa 120 miliardi.
Altra misura importante è rappresentata dalla eliminazione del patto di stabilità per consentire alle autonomie locali di investire le risorse disponibili e creare commesse per le imprese e lavoro per i disoccupati.
Non è possibile che le manovre effettuate dal Governo Berlusconi vengano pagate sempre e comunque dal ceto medio che si impoverisce sempre di più e dalle classi più deboli e poiché tali categorie sono state spremute al massimo dalle precedenti manovre Berlusconi dichiara che non ci sono soldi per sottrarsi da misure che colpiscono chi possiede grandi ricchezze e patrimoni.
Questa situazione di stallo e di attesa inutile non aumenta le risorse dello Stato anzi le diminuiscono in quanto l’aumento della ricchezza del paese è bassa ( Pil 2011 0,8% e 2012 0,7%), non crea prospettive di lavoro per i giovani, per le donne e per i precari che non possono costruire il loro futuro e rende impossibile l’uscita dal tunnel dei sacrifici da parte di coloro che vivono gli effetti sociali della crisi.
Elsa Fornesari, economista torinese, afferma che “quando le cose vanno male, la prima cosa da fare è fare meglio ciò che è di propria responsabilità”. Chi insegna deve insegnare meglio, chi fa ricerca fare ricerca meglio, chi lavora essere più produttivo, chi fa politica …… fare politica meglio”. In definitiva ognuno deve dare il meglio di se stesso con responsabilità.
In tre anni e mezzo di governo Berlusconi il paese non ha ricevuto il meglio dall’azione governativa per incapacità, per una visione superata dell’economia di mercato, per interessi elettorali e per interessi personali del premier che hanno calpestato le regole di convivenza civile e ristretto gli spazi di democrazia.

Leggi tutto...

lunedì 17 ottobre 2011

La povertà aumenta in Italia

Oggi è stato presentato il rapporto Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia a cura della Caritas e della Fondazione Zancan.
Dal rapporto emerge che nel 2010 erano povere 8 milioni e 272 mila persone (13,8%), contro i 7,810 milioni del 2009 (13,1%). Secondo i dati Istat (2011) il 2010 ha registrato un lieve incremento nel numero di famiglie in condizioni di povertà: si è passati da 2,657 milioni (10,8%) a 2,734 milioni (11%).
Nel 2010 la povertà relativa è aumentata, rispetto all’anno precedente, tra le famiglie di 5 o più componenti (dal 24,9 al 29,9%), tra le famiglie monogenitoriali (dall’11,8 al 14,1%), tra i nuclei residenti nel Mezzogiorno con tre o più figli minori (dal 36,7 al 47,3%) e tra le famiglie di ritirati dal lavoro in cui almeno un componente non ha mai lavorato e non cerca lavoro (dal 13,7 al 17,1%). Ma la povertà è aumentata anche tra le famiglie che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo (dal 6,2 al 7,8%) o con un titolo di studio medio-alto (dal 4,8 al 5,6%). Per queste ultime è aumentata anche la povertà assoluta, passando dall’1,7 al 2,1%.
Le condizioni dei giovani sono allarmanti in quanto non hanno la possibilità di costruire il proprio futuro. I seguenti dati fotografano la realtà sociale dei giovani:
- il tasso di disoccupazione giovanile ha toccato il picco del 27,8% (+ 2,4% rispetto al 2009);
- l’occupazione giovanile è calata del 5,3% nel 2010;
- sono pari al 30% del totale i giovani disoccupati sotto i 25 anni in cerca di lavoro; nel Sud raggiungono una percentuale superiore al 50%;
- un giovane su quattro, tra i 25 e i 29 anni, non ha ancora avuto una prima esperienza lavorativa;
- nel 2009, in Italia, la quota di giovani Neet (Not in Education, Employment or Training), erano poco più di 2,1 milioni (+6,8% rispetto al 2008);
- in Italia, l’incidenza percentuale dei Neet sul totale dei giovani è pari al 20,5%, superiore alla media europea (14,7%);
Il rapporto sottolinea che i poveri non hanno il diritto di sperare in una vita migliore e di sapere che è possibile uscire dalla povertà. Le azioni dello stato a favore dei poveri sono una benevolenza, una concessione, una cura di mantenimento per povertà di lungo periodo da cui non facile uscire.
Questo aspetto nega i diritti fondamentali tra cui si indicano i seguenti:
- Il diritto alla famiglia. La povertà colpisce con particolare violenza le famiglie numerose, con più di due figli. Senza un adeguato sostegno, le famiglie non saranno incentivate a fare figli e le riper‐cussioni a livello demografico saranno pesanti. Tuttavia, nel bilancio di previsione dello stato per gli anni 2010‐2013, il Fondo per le politiche della famiglia registra i seguenti decrementi: 185,3 mi‐lioni di euro nel 2010, 51,5 milioni nel 2011, 52,5 milioni nel 2010 e 31,4 milioni nel 2013.
- Il diritto al lavoro. In Italia, i cittadini tra i 15 e i 64 anni con un lavoro regolarmente retribuito so‐no quasi 22 milioni e 900 mila, il 56,9% dei cittadini. La percentuale è tra le più basse dell’Occidente. Ci sono poi tre categorie particolarmente vulnerabili: i giovani (l’occupazione è crollata dell’8% nel 2009 e del 5,3% nel 2010); le donne (in Italia lavora solo il 47%); le persone di‐sabili (nel 2008 hanno fatto domanda di assunzione 99.515 disabili e nel 2009 83.148, ma gli av‐viamenti effettivi al lavoro sono stati rispettivamente 28.306 e 20.830).
- Il diritto al futuro per i giovani: I giovani che hanno iniziato a lavorare a metà degli anni Novanta matureranno verso il 2035 una pensione analoga a quella degli attuali pensionati con il minimo Inps, ossia di 500 euro. Sono i poveri relativi di oggi e i poveri assoluti di domani.
Il rapporto specifica che le politiche governative adottate si sono dimostrate fallimentari perché non sono riuscite ad incidere sul fenomeno povertà ed indica alcune strade da percorrere:
- Recuperare i crediti di solidarietà (basati sull’erogazione di finanziamenti a favore di persone che si impe‐gnano effettivamente in progetti di sviluppo locale) destinandoli in via prioritaria a occupazione di welfare a servizio dei poveri. I fallimenti dei trasferimenti monetari senza responsabilizzazione sono la principale ragione per mettere in discussione le politiche di ieri e di oggi di lotta alla povertà, basate su «misure» standardizzate, di tipo burocratico, che non guardano l'effettiva condizione delle persone, ma solo alle carte;
- Incrementare il rendimento della spesa sociale e la professionalizzazione dell’aiuto. Ad oggi, gli oltre 100 miliardi di euro di raccolta fiscale destinati ai servizi sanitari sono trasformati in centinaia di migliaia di posti di lavoro. Se questo criterio fosse applicato alla spesa per servizi sociali, si potrebbe ipotizzare un risultato occupazionale di circa altrettante migliaia di posti attivabili per lavori di cura e infrastrutture di welfare. Molte donne con figli e molti giovani uscirebbero dalla disoccupazione e dalla povertà lavorando a servizio degli altri.
- Investire i 17-18 miliardi di euro, oggi destinati a indennità di accompagnamento e assegni al nucleo familiare, in lavoro di servizio, garantendo ai beneficiari un rendimento ben superiore a quello attuale (il trasferimento economico gravato da oneri amministrativi), misurabile in termini di riduzione dei tassi di povertà, di isolamento sociale e disoccupazione.

Leggi tutto...

domenica 16 ottobre 2011

Crescere con i giovani

articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa l'8 ottobre 2011
Volete costruire un’azienda di successo? Assumete giovani ben preparati. Perché giovani? Semplice: perché sono più svegli». Con la sua solita schiettezza Mark Zuckerberg si rivolse così, pochi mesi fa, ad una platea di imprenditori riunitasi all’Università di Stanford. I giovani sanno destreggiarsi con le tecnologie, non hanno bisogno di ricorrere sempre ai manuali d’istruzione, sanno risolvere da soli un sacco di cose, imparano alla svelta e hanno voglia e curiosità di farlo. E poi hanno vite più semplici, di solito non posseggono automobili, case o famiglie e possono concentrarsi sulle grandi idee, i progetti veramente interessanti e di lungo periodo. Insomma: competenze, entusiasmo, voglia di imparare e orizzonti lunghi. Ovvero tutto quello di cui avrebbe bisogno l’Italia e a cui invece rinuncia lasciando a casa milioni di giovani.
E’ questo quello che anche Mario Draghi ci ha ricordato ieri. Ribaltando il paradigma di senso comune secondo cui «non c’è lavoro per i giovani perché non c’è crescita», Draghi ha sottolineato che la relazione causale tra occupazione giovanile e crescita va anche in direzione opposta: più emarginiamo i giovani e meno crescita avremo. Perché con loro teniamo fuori dal sistema produttivo un gran potenziale di innovazione, di energie e competenze.
Ma quanto pesa questa emarginazione sulla nostra economia? Uno studio condotto dall’Istituto per la Competitività (iCom) e presentato la settimana scorsa a Roma stima che la disoccupazione giovanile (sotto i trenta anni) fa mancare oltre 5 miliardi di euro all’anno in termini di redditi netti. E se includiamo anche tutti quelli che non figurano nelle liste di disoccupazione ma che comunque non fanno niente (i cosiddetti Neet: non occupati né impegnati in alcun piano di studio o formazione), il reddito a cui rinuncia l’Italia sale a circa 23 miliardi l’anno. Riuscire a trovare un lavoro per questi giovani dovrebbe essere, quindi, la grande priorità dell’Italia.
Ma è sufficiente inventarsi qualche posto di lavoro in più, magari siglando accordi sindacali con ministeri o altri enti per allungare qualche lista d’assunzione o sbloccare qualche concorso, per poter sprigionare questo potenziale di crescita e innovazione? No.
Provvedimenti di questo genere possono servire ad aumentare in parte l’impatto sul monte stipendi con qualche ripercussione sui consumi. Ma non garantiscono quella valorizzazione delle competenze, dell’energia, del potenziale innovativo di cui parlava Draghi. Non è cercando di replicare all’infinito il modello economico e sociale su cui ci siamo basati fino ad oggi che valorizzeremo fino in fondo le nuove generazioni. Per poterlo fare dovremo ripensare e ridisegnare molti aspetti del nostro sistema economico e sociale. Non a caso Draghi ha parlato di «riforme strutturali». Cosa significa? Significa mettere mano al funzionamento del mercato del lavoro, a quello degli ammortizzatori sociali, e anche a quello dell’istruzione, della formazione, della cultura. Tutte cose che, in questi ultimi 15 anni, non hanno saputo o voluto fare né i governi di destra né quelli di sinistra, che invocavano o tagli o allargamenti dei sistemi di protezione, lavoro e formazione, ma non un loro ridisegno organico. E invece è quello il nodo che prima o poi dovremo affrontare. Perché se Paesi come la Germania, l’Olanda o la Danimarca hanno tassi di disoccupazione giovanile che sono un terzo o un quarto del nostro è anche perché hanno sistemi di formazione e servizi sociali più radicati, che coinvolgono scuole, amministrazioni pubbliche e aziende, nel tentativo non solo di offrire delle opportunità, ma di fornire a tutti le capacità per poterle cogliere. I giovani, per quanto bravi e svegli possano essere, non nascono né scienziati né imprenditori: hanno bisogno di competenze, di sviluppare capacità critiche e di padroneggiare i linguaggi del futuro, non solo l’inglese o l’economia, ma anche i linguaggi delle nuove tecnologie e di programmazione. Per non parlare poi delle competenze relazionali e imprenditoriali, sapersi muovere in contesti diversi ed internazionali. E tutte queste capacità non si trasmettono ripristinando il 7 in condotta, le pagelle numeriche alle elementari o le classi senza stranieri.
Né continuando a trattare i giovani con compiaciuto paternalismo come fanno tanti politici, sindacalisti e anche tanti «buoni padri di famiglia». Persone che, mentre mostrano tanto accorato dispiacimento per i giovani che non avranno casa né pensioni, o che non riescono ad aprire uno studio o una farmacia, restano però aggrappati con le unghie e con i denti alle proprie piccole grandi protezioni, che siano vitalizi o pensioni prese a 40 anni, professioni super protette o studi e aziende che stanno in piedi grazie a stagisti, precari o clandestini che lavorano fuori da ogni regola. E se da un lato elogiano gli appelli di Draghi o Napolitano, dall’altro fanno pressioni sui loro rappresentanti perché nulla cambi. Non è così che risolleveremo il nostro Paese.

Leggi tutto...

giovedì 13 ottobre 2011

La crescita che non c’è

Articolo di Roger Abravanel pubblicato su Corriere della Sera il 12 ottobre 2011
Finalmente la crescita è diventata un tema importante anche in Italia: si è capito che abbattere il debito con l'austerità fiscale non basta in un'economia in cui lavorano poche (sempre meno) persone perché la produttività è ferma da anni. Il governo prepara quindi l'ennesimo piano per la crescita, ma anche questo piano rischia di fare la fine dei precedenti: l'idea di tagliare le tasse è giusta, però le misure in discussione per finanziarla sono inadeguate o di difficile attuazione. Non è chiaro come la spending review abbasserà la spesa pubblica; la patrimoniale «mini» da pagare ogni anno per ridurre il debito (una specie di Ici) ha un impatto ridotto, mentre quella «maxi» da 300-400 miliardi da versare una tantum per ridurre il debito non si sa come farla (come si fa a tassare le prime case?). L'innalzamento dell'età pensionabile porterebbe indubbi vantaggi sulla spesa e sarebbe più facile da realizzare, ma il beneficio maggiore — fare lavorare più persone — non si coglie se non si fanno altre riforme, ad esempio quella sul mercato del lavoro (fortemente in discussione, come dimostra l'uscita di Fiat dalla Confindustria).
Anche la seconda leva, la riduzione dello Stato nell'economia attraverso il rilancio delle liberalizzazioni, le semplificazioni normative e il piano di privatizzazioni rischia di essere di difficile attuazione, come insegnano le esperienze passate. Le liberalizzazioni sono state sempre bloccate dalle numerose lobby e le semplificazioni hanno un impatto marginale. Riguardo poi alle privatizzazioni, alcuni beni dello Stato sono vendibili ma la cessione genererebbe costi e perdita di reddito (vedi aziende di Stato e immobili), altri sono oggetto di forti opposizioni. La realtà è che è pura utopia pensare di fare ripartire la crescita di un'economia ferma da 10 (20) anni con una «manovra» di politica economica. L'economia è fatta di imprese e la nostra è ferma per una ragione ben precisa: è composta solamente di piccole imprese che non riescono a crescere. Il nostro Paese non ha il monopolio delle piccole imprese (in Germania ce ne sono due milioni contro un milione e mezzo da noi), semplicemente da noi mancano le medie e le grandi.
Qual è il problema delle nostre piccole imprese che non crescono? Il gap di 50% di produttività che hanno accumulato in tutti questi anni per il loro basso tasso di innovazione e gli alti costi perché non hanno investito in capitale umano, tecnologia e marketing. I piccoli costruttori costruiscono immobili di cattiva qualità e brutti. I piccoli mobilieri non diventano Ikea. Gli alberghi famigliari non creano né Starwood né NH Hotels. I piccoli commercianti e ristoratori non creano formati innovativi, eccetera. Eppure in Italia queste piccole imprese che non crescono e non creano lavoro e Pil sono protette e spesso incentivate a restare piccole. Per esempio, l'articolo 18 consente di licenziare il personale solo se si hanno meno di 15 dipendenti e i professionisti (ingegneri, architetti e geometri) sono protetti dalla concorrenza dei grandi studi professionali dalla normativa che obbliga alla firma individuale dei progetti. Da sempre esiste purtroppo una cronica mancanza di cultura della crescita che perdona e privilegia il «piccolo», che si tratti di imprese o individui e famiglie da proteggere dal «big business». Il «sommerso» italiano è visto con simpatia e quindi lo Stato cerca di recuperare la gigantesca evasione combattendo i «grandi evasori» (chi evade più di 3 milioni l'anno secondo la recente definizione della Confindustria, ma sono poche centinaia di aziende) e i grandi «elusori» (le multinazionali).
Ma il grosso, purtroppo, è altrove: nelle centinaia di migliaia di piccole imprese (commercianti, artigiani, agenzie di viaggio, professionisti, medici, laboratori, ristoratori, albergatori) che sopravvivono solo perché evadono il fisco che le tollera proprio perché «se non evadono chiudono». Secondo i loro difensori, se queste imprese chiudono si perdono i consumi di chi ci lavora e quindi il Pil ne soffrirebbe; dimenticano che se l'attività delle imprese poco produttive che chiudono è assorbita da altre che vogliono crescere grazie alla produttività, il sistema economico complessivo ci guadagna. È proprio qui l'enorme barriera culturale: la crescita dell'economia italiana non «la fa il Paese tutto assieme»; migliaia di piccole imprese devono crescere, essere acquisite dalle grandi o chiudere, e i figli che lavorano nelle aziende dei padri debbono diventare impiegati di imprese più grandi o cambiare mestiere. Creare una cultura di crescita richiederà un enorme cambiamento di mentalità, politici coraggiosi e, comunque, molto tempo. Innanzitutto sono necessarie quelle meta-riforme che non necessitano di grandi cambiamenti culturali tipo una seria flexsecurity sul lavoro e una riforma robusta della giustizia civile che oggi ha i tempi di quella del Gabon. Ma poi sarà necessaria una trasformazione radicale del mondo delle nostre imprese grazie alla nascita di una nuova cultura basata sul rispetto delle regole. E per tutto ciò ci vorrà ben altro che l'ennesima affannata manovra di politica economica.

Leggi tutto...

mercoledì 12 ottobre 2011

Quali benefici dal decreto Brunetta?

Intervista a Pietro Micheli a cura di Antonino Leone che verrà pubblicata nel prossimo numero di Sistemi e Impresa
Le Pubbliche Amministrazioni in Italia rappresentano un punto di debolezza del sistema a causa della scarsa efficienza ed efficacia, dei ritardi nell’erogazione dei servizi e nei pagamenti alle imprese per la fornitura dei servizi ed opere e dei costi della burocrazia.
A due anni dall’approvazione della riforma Brunetta i benefici non si vedono ancora per i cittadini e per le imprese.
Per la grave crisi economica e finanziaria che interessa l’Italia servirebbe una PA efficiente ed efficace che incida positivamente sulla competitività delle imprese nello scenario globale e sulla qualità della vita dei cittadini in particolar modo per le classi più deboli che pagano gli effetti sociali della crisi.
Secondo il rapporto di Transparency International sulla percezione della corruzione nella pubblica amministrazione l’Italia si classifica al 67° posto a livello mondiale su 178 paesi, subito dopo Ruanda e Samoa e con il punteggio più basso dal 1997. L’alta corruzione significa bassa trasparenza del nostro paese.
L’applicazione della total disclosure in Italia, disposta dal D. Lgs n. 150/2009, insieme ad altri fattori rappresenta una inversione di tendenza ed una nuova considerazione del nostro paese con una ricaduta positiva sullo scenario competitivo globale.
La maggior parte degli enti locali ha preferito mantenere lo status quo e non avventurarsi nell’attuazione operativa del decreto anche a causa dell’insufficiente presenza di norme obbligatorie, dell’assenza di controlli e di sostegno da parte del Governo.
Del cambiamento delle PA, previsto dal D. Lgs. N. 150/2009, ne parliamo con Pietro Micheli, ex componente della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, docente di performance presso l’Università di Cranfield e consulente di alcune agenzie di valutazione delle amministrazioni pubbliche britanniche.
Ma è cosi difficile avviare un grande cambiamento delle PA in Italia?  
Purtroppo sì. Ma questo sarebbe valido in qualsiasi contesto. Proclami riguardo a cambiamenti epocali ottenibili in poco tempo e con due soldi sono sempre da guardare con diffidenza. Sembra però che ci si caschi in continuazione. I grandi cambiamenti possono avvenire, ma richiedono una leadership e una determinazione molto forti: ahimè, ne’ l’una ne’ l’altra sono mai state di casa nell’attuale governo.

Non potremmo adattare almeno alcune buone pratiche sviluppate all’estero? 
Assolutamente sì, ma la sindrome nel ‘not invented here’ (non inventato qui) è sempre pronta a colpire. Ci sono comunque delle organizzazioni pubbliche che si sono date da fare e bene, ma queste sono la minoranza e i loro successi sono dovuti più alla volontà e alle capacità dei singoli, che non a uno sforzo riformatore a livello nazionale.

Lei ha detto che le difficoltà che si incontrano dipendono da una visione prettamente giuridica e non manageriale. Cosa vuol dire?   
In Italia hanno più importanza la correttezza formale e gli adempimenti (documenti, relazioni), che l’utilizzo efficiente delle risorse e la capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini. Un’organizzazione pubblica può redigere documenti programmatici perfettamente in linea con quanto indicato in un decreto, ma poi non utilizzare nulla di quanto vi è scritto. Si può sbandierare di essere trasparenti, limitandosi in realtà a mettere alcuni dati minimi sul sito Internet.
Il paradigma gestionale che, in modi e tempi diversi, altri paesi hanno cercato di introdurre, segue traiettorie completamente diverse, perché punta principalmente all’utilizzo migliore delle risorse (in termini di qualità, efficienza ecc.). Innanzitutto, si è spesso dato meno peso ai resoconti formali e più importanza ai risultati effettivamente conseguiti. Secondo, questo ha comportato delle forme di verifica dirette (audit), sia in termini di spesa sia di risultati, e quindi non basate unicamente su analisi documentali. Terzo, un’effettiva distinzione dei risultati conseguiti dalle amministrazioni ha reso possibili delle forme di finanziamento e regolamentazione mirate: le organizzazioni più virtuose hanno ricevuto più fondi e ottenuto maggior libertà di azione, e quindi più possibilità di innovare. Quelle incapaci di conseguire risultati soddisfacenti sono state penalizzate e hanno avuto un livello di controllo esterno più stringente.

Le amministrazioni centrali dello Stato e gli enti pubblici hanno avviato il processo di adattamento al D. Lgs. n. 150 del 2009. Infatti, risultano nel sito della CiVIT i documenti predisposti da introdurre nel 2011. Negli enti locali la situazione è diversa in quanto l’art. 13 del Decreto prevede dei protocolli di collaborazione tra la CiVIT e le associazioni delle autonomie locali. Tali associazioni non esercitano operativamente le funzioni di controllo e di sostegno alle autonomie locali in particolar modo ai comuni con il risultato che non si conoscono i risultati raggiunti ed il livello di attuazione della riforma. Condivide tale scelta che non aiuta i comuni a realizzare il performance management? 
Purtroppo l’assenza di dati affidabili sull’efficacia della spesa pubblica (non si sa neanche quanto si spende, perciò figuriamoci se si può parlare di efficacia!), l’assenza di controllo vero e proprio (non solo documentale) e, ancor più, l’assenza di sostegno alle organizzazioni pubbliche rende ogni intervento a livello centrale praticamente vano. Ripeto, questo non vuol dire che nessuno stia facendo nulla. C’e’ chi fa, e bene, ma avrebbe fatto comunque, con o senza ‘riforma’. Chi non fa, semplicemente non farà.

La CiVIT costituita nella forma di una commissione e non di un’autorità indipendente e l’assenza di poteri di intervento sanzionatorio e di controllo hanno influito sull’attuazione efficace della riforma? 
Assolutamente si. Se io non ho il potere di ispezionare e di eventualmente sanzionare l’operato delle organizzazioni pubbliche meno virtuose, allora non potrò mai intervenire efficacemente su cattiva gestione e sprechi (e sono tantissimi). Si poteva comunque lavorare di più sul campo, ma purtroppo non e’ stato e non sarà così.

La difficoltà di attuare il benchmarking nei settori delle PA che gestiscono i medesimi servizi (per esempio i comuni) e che adottano parametri diversi di misurazione e valutazione della performance rappresenta un ostacolo per attuare il miglioramento continuo della performance?
Il benchmarking è uno strumento utile perché ci può dare degli spunti verso il miglioramento delle performance – sia interne (efficienza) che esterne (efficacia e qualità) delle organizzazioni pubbliche. Certo e’ che, se introduco indicatori di performance diversi, la comparazione sarà difficile, se non impossibile. A questo riguardo, si poteva lavorare con gruppi di organizzazioni per definire degli indicatori comuni e rendere visibili i miglioramenti anche nel breve termine (l’idea di stabilire degli indicatori nazionali sarebbe stata un approccio sbagliato, a mio avviso).

Vi sono comuni che hanno confermato il Nucleo di valutazione e non hanno introdotto gli strumenti manageriali previsti dal Decreto (piano della performance, relazione della performance, sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale). Il ciclo della performance può essere realizzato senza tali strumenti o altri indicati nel Decreto?    
Il ciclo della performance richiede che gli strumenti da lei indicati siano introdotti e che vi sia un elemento di indipendenza o almeno di “distanza” tra il vertice politico-amministrativo e chi si occupa di valutazione. Se una delle due condizioni decade, allora siamo ritornati da dove eravamo partiti.

Molti sono i comuni che hanno applicato la trasparenza disciplinata dalla precedente normativa (retribuzioni, curriculum dei dirigenti, codice di disciplina). La trasparenza prevista dal Decreto va oltre ed è intesa come accessibilità totale alle informazioni. Quanto è importante la trasparenza totale nell’attuazione del Decreto e che effetti produce nei dipendenti e nei cittadini?   
La trasparenza e’ fondamentale per la migliore gestione della cosa pubblica. Attraverso l’accessibilità dei dati, i cittadini possono finalmente contare di più e giocare un ruolo maggiormente incisivo, non solo come controllori, ma anche come “co-produttori” dei servizi e come utenti più informati e perciò responsabili. Se per trasparenza però si intende una serie di dati caricati su un sito web e utilizzati al massimo per chiacchierare sugli stipendi dei dipendenti pubblici, allora di miglioramenti ce ne saranno gran pochi.

Come fare per introdurre nei manager e nei dipendenti delle PA la cultura di impresa e come possono essere utilizzati gli strumenti della formazione e del reclutamento del personale per conseguire tale obiettivo? 
Il reclutamento e la formazione sono fondamentali per introdurre la cultura gestionale di cui abbiamo parlato. Il problema e’ che di reclutamento non se ne potrà parlare per un bel pò e di formazione non se n’e’ mai fatta un granché.
Se si paragona l’Italia agli altri stati della UE, si nota la pressoché totale assenza in Italia di piani di formazione e di investimenti nel personale che vadano al di là di aggiornamenti sulla normativa. Se si considerano i periodi 2001-2003 e 2004-2006, si vede come l'incidenza della spesa per la formazione sul monte retribuzioni si sia mantenuta costantemente sotto all'1% (passando dallo 0,9% allo 0,7%) e la percentuale del personale che ha partecipato ai corsi di formazione sia diminuita del 2,7% in quegli stessi periodi. Ancor peggio, in proporzione, i dipendenti pubblici italiani sono in numero inferiore, più vecchi (età media circa 50 anni) e meno produttivi. Col blocco del turnover si passerà da 3.6 milioni a meno di 3.3 e, ovviamente, l’età’ media aumenterà ulteriormente.

Molto spesso il management pubblico usa l’espressione “bisogna lavorare di più” per giustificare l’insufficienza di risultati e per addossare ai dipendenti la responsabilità di non aver conseguito gli obiettivi programmati. Nel terzo millennio che tipo di leadership occorre nelle PA per iniziare un cammino all’insegna del cambiamento?
L’esortazione a lavorare di più è l’altro lato della medaglia della continua richiesta di fondi. Certo, lavorare di più può essere utile, tanto quanto l’ottenimento di maggiori risorse. Il punto è che nel settore pubblico bisogna iniziare a lavorare meglio. La pubblica amministrazione italiana sta affondando, soffocata da leggi, decreti e linee guida che danno origine a documenti da incubo la cui lunghezza è inversamente proporzionale all’utilità. L’unico modo per venirne fuori è di ridurre sprechi e burocrazia.
Inoltre, come lei suggerisce, c'è bisogno di dimostrare leadership, dando fiducia ai propri dipendenti e dimostrando loro che i sacrifici (necessari in situazioni difficili come quella attuale) porteranno a uno stato migliore delle cose. Il leader deve sostenere i propri collaboratori e farsi carico dei loro problemi perché comandare soltanto non è sufficiente per avviare il cambiamento. Il morale, la fiducia in sé stessi e il senso di appartenenza alla propria organizzazione sono i tre punti critici su cui il prossimo Ministro per la Pubblica Amministrazione dovrà concentrarsi fin dall'inizio.

Parliamo di Cambiamento nella PA, come dovrebbe cambiare la nostra pubblica amministrazione per essere di sostegno alle imprese?
La PA deve passare dalla prospettiva autoreferenziale spesso dominante a una rivolta all'esterno.
Capire e soddisfare il più possibile le priorità e le necessità delle imprese si traduce in riduzione dei passaggi burocratici per ottenere servizi, permessi e autorizzazioni, ma anche in risposte più precise e accurate.
La maggior parte della domanda per le PA è "domanda fallita" ("failure demand"), cioè consiste in richieste derivate dall'incapacità' di soddisfare una domanda iniziale. Questo fa perdere tempo e soldi non solo alle PA, ma anche e soprattutto alle imprese.
Infine, la PA non deve assolutamente assumere un atteggiamento passivo, ma deve anche saper proporre e incentivare il tessuto imprenditoriale locale, cosa che molto spesso avviene poco e male.


Leggi tutto...

domenica 9 ottobre 2011

Il PD valuta ed interviene, Tosi querela

Il dibattito ed il confronto politico a Verrona tra le forze politiche diversamente collocate non può ridursi ad appesantire la macchina della giustizia ma deve realizzare un dialogo costruttivo nell’interesse dei cittadini della provincia di Verona. Per tutte le questioni interessate da querela non è stata data mai una risposta anche nel caso in cui le querele vengono archiviate per assenza di reato.
L’ultima querela archiviata è quella del sindaco, Flavio Tosi, contro il consigliere comunale di Villa Bartolomea, Giuliano Rigo.
La querela è stata presentata dopo le dichiarazioni di Rigo relative all’esposto di Flavio Tosi alla Corte dei Conti per presunti danni erariali derivanti dalla lottizzazione effettuata dalla precedente amministrazione comunale di cui è espressione l’attuale minoranza ed il consigliere Rigo.
Il Giudice per le indagini preliminari, dott. Morsiani, ha archiviato la querela in quanto le dichiarazioni di Giuliano Rigo “non hanno contenuto diffamatorio” e la critica dell’indagato “rientra nelle sue facoltà”. Inoltre, la sentenza afferma che Giuliano Rigo avendo prospettato l’ipotesi che Tosi “volesse, con la sua iniziativa, bloccare una zona industriale a favore di altre aree non costituisce dichiarazione diffamatoria, ma solo espressione del dissenso del dichiarante rispetto ad una scelta operata da altro soggetto, senza che vengano travalicati i limiti del diritto di critica politica.”
"Finalmente l'archiviazione disposta dal giudice, dichiara Giuliano Rigo, ristabilisce la verità. Tosi ha fatto ricorso alla giustizia come ultima spiaggia, solo perché era in difficoltà nel dare una risposta politica alle questioni che ho posto e che rimangono tuttora irrisolte, dato che a distanza di due anni la ZAI di Carpi è ancora un capitolo aperto. Tosi faccia chiarezza e visto che c'è spieghi ai cittadini anche chi paga per le sue esibizioni da macho e per l'uso sistematico della querela come strumento di lotta politica."
Il PD di Verona afferma che dalla precedente amministrazione di centrosinistra, nonostante tutto, non è mai partita una querela, mentre con Tosi ne abbiamo contate 43: una nel 2007, due nel 2008, 14 nel 2009, ben 17 nel 2010 e quest'anno pare che siamo già a nove, una permalosità senza precedenti».
Franco Bonfante, consigliere regionale del PD, afferma di aver ricevuto sei querele di cui tre sono state archiviate.
Vincenzo D’Arienzo, segretario del PD di Verona, e Franco Bonfante, consigliere regionale, affermano che le querele hanno uno scopo intimidatorio verso l’opposizione ed i giornalisti.
Gli esponenti del PD si sono impegnati a valutare e rilevare eventuali responsabilità contabili nei confronti di coloro che utilizzano lo strumento della querela per fini di lotta politica e non perché siano stati commessi dei reati.
Le querele fino a questo momento hanno prodotto i seguenti effetti: - archiviazione delle querele in quanto non si riscontrano reati; assenza di risposte da parte degli amministratori sui problemi sollevati ed oggetto di querela; alta opacità nei confronti dei cittadini che non sono informati compiutamente sugli avvenimenti oggetto delle querele.
Con questo metodo si realizza l’occupazione del potere da parte del centro destra che utilizza tutti i mezzi disponibili per soffocare il dibattito politico e controllare la libertà di valutazione e di espressione da parte dell’opposizione e dei cittadini.

Leggi tutto...