lunedì 31 ottobre 2011

Lettera alla UE tra mancanze e genericità

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera del 29 ottobre 2011
La lettera d’intenti inviata dal governo italiano all’Unione europea segna, almeno sulla carta, una svolta, sia per ciò che contiene (riforme del mercato del lavoro, liberalizzazioni, giustizia), sia per ciò che non c’è: non c’è la patrimoniale, né l’ennesimo condono. La lettera è lungi dall’essere un progetto operativo: assomiglia piuttosto a un programma elettorale, una serie di proposte da rendere più precise dopo le elezioni. Peccato che le elezioni siano state tre anni e mezzo fa. Questo manifesto avrebbe dovuto essere varato e attuato allora, quando questo governo fu eletto, se non già nella precedente legislatura quando lo stesso premier e lo stesso ministro dell’Economia erano al governo. Ora, a 17 mesi dalle prossime elezioni, con un governo in cui non tutti sembrano andare d’accordo, pare sinceramente un po’ tardi.
Molte delle idee contenute nella lettera sono simili ad alcune proposte che avevamo elencato sul Corriere il 24 ottobre. Per carità, non vogliamo dire sia «farina del nostro sacco». Di queste riforme si parlava da anni, e in termini ben più articolati dei nostri: noi le abbiamo solo elencate succintamente. Ma i punti di incontro tra le «nostre» proposte e la lettera del governo sono molti. Liberalizzazione del mercato del lavoro tramite il miglioramento dei contratti d’ingresso per i giovani nella prospettiva di un contratto unico; apertura alla possibilità di licenziamenti per motivi economici nei contratti a tempo indeterminato. Bene. Ma in un momento in cui l’economia non accenna a riprendersi bisogna prepararsi al fatto che maggiore flessibilità significa, nel breve periodo, il rischio di un ulteriore aumento della disoccupazione. Maggior flessibilità va quindi affiancata ad una riforma dei meccanismi di tutela, ridisegnati così da proteggere non il posto di lavoro ma i lavoratori, tutti i lavoratori, non solo chi ha accesso alla cassa integrazione. Di questo nella lettera non vi è cenno.
Bene anche, seppur nella loro grande vaghezza, i progetti su liberalizzazioni di servizi e professioni e riforma della giustizia. Ma il diavolo è nei dettagli. Ad esempio non si capisce se l’impegno a «rafforzare gli strumenti di intervento dell’Autorità per la concorrenza, al fine di prevenire le incoerenze tra promozione della concorrenza e disposizioni di livello regionale o locale» significhi un rafforzamento o un indebolimento dell’Antitrust. Né se «l’introduzione di sistemi di garanzia della qualità… delle farmacie comunali» significhi un’apertura del mercato, oppure un consolidamento del monopolio dei farmacisti.
Cosa manca nella lettera? Qualcosa di più su occupazione femminile. Noi avevamo proposto (riprendendo anche idee di Andrea Ichino) aliquote rosa e altri incentivi al lavoro femminile per aumentare il tasso di occupazione delle donne che in Italia è ben al di sotto della media europea. Sul Mezzogiorno si ripetono vecchi slogan: il piano Eurosud è una riproposizione degli incentivi. In passato essi sono serviti a ben poco: come ripete spesso il presidente degli industriali siciliani, Ivanhoe Lobello, ogni euro di incentivi al Mezzogiorno è un aiuto alle imprese che vivono di rendita e di aiuti pubblici, e un ostacolo agli imprenditori che invece vorrebbero competere in un mercato libero. Nel nostro articolo proponevamo idee, anche un po’ provocatorie, per ridurre l’assistenzialismo al Sud e favorire l’occupazione nel settore privato, oggi svantaggiata dalla competizione del settore pubblico. Troppe volte la lettera accenna a grandi opere, progetti infrastrutturali: continuiamo a pensare che grandi progetti come l’Expo di Milano o qualche nuova autostrada non siano la via per la crescita.
Sui costi della politica vi è un lungo elenco di disegni di legge. Il governo pare non aver ancora capito quanto esasperati siano i cittadini dai privilegi di alcuni politici: forse un provvedimento concreto lo si poteva adottare. L’abolizione delle Province è stata «venduta» come fatta già un paio di volte.
Ora arriva il difficile. Trasformare le promesse in norme di legge. L’Unione europea ha espresso un cortese apprezzamento, non poteva fare un processo alle intenzioni. I mercati invece non sono convinti e gli spread sono risaliti. Se il governo non attuasse quanto si è impegnato a fare, e fra due mesi fossimo al punto in cui siamo oggi, l’intera costruzione europea rischierebbe di crollare e con essa il futuro dell’Italia. Il contenuto della lettera è ancora sufficientemente vago da lasciare spazio per fare poco, cantare vittoria e, fra due mesi, ricominciare a discutere. Se qualcuno pensa che questa sia la via d’uscita si illude davvero.

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