mercoledì 26 ottobre 2011

PA: una riforma mancata

Relazione di Guido Melis, parlamentare PD, tenuta il 24 ottobre a Torino, Aula magna Università, convegno su “L’Italia dal 1861 a oggi”.
1. Il riformismo amministrativo italiano: una storia di vinti
Nell’agenda della politica italiana la riforma amministrativa è un tema ricorrente. Vent’anni fa, quando Sabino Cassese fu, purtroppo per poco meno di un anno, ministro della Funzione pubblica, pubblicammo un quaderno sui progetti di riforma precedenti al suo. Limitandoci a quelli dal periodo successivo alla Grande Guerra sino al 1992 ne contammo 62. Tra di essi alcuni presentavano, nell’analisi e nelle proposte, straordinarie corrispondenze con quelli successivi. Molto sembravano persino d’attualità, quasi che i problemi fossero rimasti per un secolo immutati.
Naturalmente non è stato proprio così. L’amministrazione italiana ha avuto una sua storia, densa di cambiamenti anche profondi, intrecciata con le trasformazioni subite dalla società italiana. Fu nel primo Novecento, nell’età giolittiana, che la questione amministrativa assunse definitivamente il senso di un grande problema nazionale, prima di tutto in termini sociali, caratterizzandosi da allora quasi esclusivamente come la questione del personale burocratico e della sua estrazione. Un’estrazione che da allora fu in prevalenza meridionale. Prima del 1900 l’alta burocrazia – come dimostrano le statistiche pubblicate all’epoca da Francesco Saverio Nitti – era semmai stata essenzialmente settentrionale e la sua collocazione nel novero delle classi dirigenti ne aveva fatto una componente essenziale del top level del Paese, alla pari con i residui dell’aristocrazia savoiarda, i grandi rentiers, i professionisti, la nascente classe dei banchieri e degli industriali ottocenteschi. Ma dopo il primo decennio del Novecento tutto velocemente cambiò: la burocrazia in quanto tale crebbe in 10-15 anni almeno di tre volte, passando da 90 mila a 300 mila dipendenti (e sarebbero divenuti 500 mila con la guerra mondiale); ma soprattutto l’estrazione geografica dei burocrati mutò drasticamente segno, provenendo il nuovo personale assunto in quel quindicennio specialmente dalle regioni del Sud, le stesse che in quegli anni venivano escluse dal primo processo di radicamento dell’industria moderna.
Nasceva insomma il grande patto non scritto: i giovani borghesi e piccolo-borghesi del Nord occupati nelle prime fabbriche o nel vasto indotto finanziario e commerciale; i giovani del Sud nell’impiego di Stato. Alla ripartizione (la più drastica che si possa immaginare, non esiste l’eguale nella realtà europea del Novecento) corrispondeva un corollario: chi entrava nello Stato non guadagnava molto. In compenso però aveva diritto al posto fisso e a lavorare poco. “Poco stipendio per poco lavoro”, fu la formula attraverso la quale i ceti burocratici meridionali furono agganciati al treno dello sviluppo pilotato dal Nord, divenendone l’ultimo vagone. Sempre più estranei – per competenze, formazione culturale (gli studi solo umanistici, la laurea solo e unicamente in giurisprudenza) e anche per ambiente ed estrazione rispetto al dinamismo dell’Italia più produttiva. L’economia avrebbe da allora parlato con gli accenti del Nord, lo Stato con quelli del Sud.
Rispetto a questo schema si sarebbero infranti tutti i progetti di riforma. Persino quello del primo fascismo, affidato al volitivo ministro delle Finanze di Mussolini Alberto De Stefani, il cui libro-memoriale sul grande progetto di trasformazione della burocrazia ebbe un titolo assai eloquente: Una riforma al rogo. E al rogo, o giù di lì, sarebbero finiti i progetti successivi: quelli dei tayloristi dell’amministrazione, una corrente convinta negli anni Venti e Trenta di poter trasferire negli uffici gli standard produttivi dell’industria avanzata di allora; quelli del dopoguerra redatti dalle varie commissioni istituite in sede governativa; e poi quelle del giovane team dell’Ufficio per la riforma, creato presso la Presidenza del Consiglio sotto la guida del sottosegretario Lucifredi; quelli infine costituiti negli anni Sessanta e Settanta, ad opera dei governi di centro-sinistra. Sino al più importante tra i progetti di riforma di questa prima fase, quello predisposto nel 1979-80 dal ministro della Funzione pubblica Massimo Severo Giannini, giurista insigne, conoscitore come nessun altro del problema, costretto tuttavia a lasciare l’opera a mezzo da una improvvida crisi di governo, prima ancora che si potessero verificare gli effetti della sua attività.
La lettera riservata che Giannini scrisse a Bettino Craxi, il leader del Partito socialista nella cui delegazione Giannini in quanto ministro era stato compreso (e dalla quale era stato poi escluso a vantaggio del democristiano Darida) è uno straordinario documento del problematico rapporto tra le élites illuminate dei riformatori e la sordità perenne della politica politicante. Ne leggo il testo, scritto nel tipico stile polemico di Giannini:
“Caro Craxi, da ieri sono tornato ai miei otia et negotia, dei quali sei l’autore. Due domande da farti. Primo: nei Paesi civili, quando si vuole dimissionare una persona, c’è l’uso di avvertirla in tempo utile, se non altro per assicurare la continuità dei servizi. Secondo: ti degnerai di spiegarmi perché hai rinunciato alla funzione pubblica, che pur ti era offerta dalla Dc […], a favore di quattro ministeri periferici […]. Che cosa è accaduto? Un errore di prospettiva? O un nuovo episodio dell’antica carenza del socialismo italiano in ordine ai problemi concreti del pubblico potere? O forse un tuo calcolo recondito?”.
Domande senza risposta. Dopo Giannini, per ritornare a parlare di riforma amministrativa si sarebbe dovuto attendere il 1993.
Dopo il 1993 la riforma amministrativa, se non altro, ebbe un posto fisso nell’agenda dei governi, collegandosi sempre più strettamente al tema delle politiche di bilancio. Fu merito di Sabino Cassese (1993-94) aver inserito nella finanziaria approvata a fine ’93 un’ampia parte sulla riforma. La bussola (ed era un’impostazione nuova) fu la centralità del cittadino, il suo diritto a godere dei servizi pubblici, l’interesse generale prevalente anche nei confronti di quello corporativo del personale.
Semplificazione organizzativa, delegificazione e riduzione del corpo normativo, spazio alle autocertificazioni (una legge le aveva introdotte, ma senza alcun effetto, sin dal 1968), furono alcune delle parole d’ordine. Ma soprattutto fu merito dell’iniziativa di Cassese (in ciò fortemente appoggiato dal presidente del Consiglio Ciampi) avere accreditato una concezione della riforma amministrativa non più come intervento di settore ma come motore strategico dell’intera attività governativa volta al risanamento finanziario.
Cessata forzatamente l’azione di Cassese per le dimissioni del governo Ciampi, dopo le elezioni del 1994 subentrò nelle riforme un periodo di relativa stasi (1994-96), coincidente dapprima con il breve governo Berlusconi (ministro della Funzione pubblica fu Urbani) e poi con il successivo governo Dini. Nel 1996 si aprì una nuova, intensa stagione riformista, caratterizzata dall’azione di Franco Bassanini, che nei governi succedutisi nel corso di quella legislatura svolse successivamente i ruoli di ministro per la Funzione pubblica e di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Tre provvedimenti in particolare caratterizzarono quello che (se non altro per le ambizioni che lo mossero) può essere considerato come un tentativo organico di innovare la struttura dello Stato: le leggi n. 59, n. 94 e n. 127 del 1997 (Bassanini-uno, Bassanini-due e Bassanini-tre). Da esse derivò una vera pioggia di interventi normativi, per lo più decreti delegati, su un amplissimo ventaglio di materie.
Non mi è qui possibile (l’ho fatto altrove) dare conto del complesso di questi provvedimenti, alcuni efficaci, altri rimasti sostanzialmente sulla carta. L’amministrazione fu comunque in quegli anni al centro di un vasto processo di trasformazione, il cui asse centrale può individuarsi nel superamento definitivo della struttura pubblicistica del rapporto di lavoro e nell’avvento di forme contrattuali. In particolare, andando oltre la disciplina del decreto legislativo n. 29 del 1993, il provvedimento che aveva per così dire aperto la strada, il regime di diritto privato fu esteso anche ai dirigenti generali, devolvendo così tutte le relative controversie al giudice ordinario. Una norma del 1998 sottopose per la prima volta alla discrezionalità del Governo (sia pure solo a scadenza di legislatura e con determinati temperamenti) gli incarichi per i dirigenti generali capi dei dipartimenti.
Quale sia stata la reale ricaduta delle riforme sulla realtà dell’amministrazione degli anni successivi è questione ancora meritevole di approfondimenti. Tanto più che la messa in opera della nuova legislazione bassaniniana fu poi in gran parte giocoforza affidata alla gestione del governo di centro-destra, succeduti nel frattempo alla guida del Paese. Le politiche di semplificazione amministrativa, al di là dell’enfasi retorica, furono ad esempio sostanzialmente messe in ombra, da un ritorno massiccio, in più campi, della tendenza alla complessità. La mobilità del personale tra il centro e la periferia, postulata nella riforma del Titolo V, non si realizzò se non in minima parte. La normativa sul cosiddetto spoils-system dei dirigenti fu con la legge 15 luglio 2002, n. 145 ulteriormente ampliata con il risultato di porre definitivamente in discussione quello stesso rapporto di reciproca indipendenza tra politica e amministrazione che le riforme della prima parte degli anni Novanta avevano cercato di fondare su basi di reciproca autonomia.
2. L’amministrazione in mezzo al guado
Comunque, dopo la cura Bassanini, l’amministrazione italiana voltò decisamente pagina, presentando un quadro mosso, in gran parte anzi in movimento, che riassumerei così.
Appaiono innanzitutto in atto cinque dinamiche non ancora del tutto risolte, nelle quali non è difficile scorgere però elementi di vistosa contraddizione. Dal loro futuro svolgimento dipenderà se l’amministrazione italiana si avvicinerà ai modelli europei più avanzati o se invece resterà – come è attualmente – uno dei fattori di debolezza e di freno del sistema-Paese.
La prima dinamica riguarda quella che possiamo definire come “la regionalizzazione incompiuta”, intendendo con questa espressione l’ambigua realizzazione del dettato costituzionale derivante dalla riforma del Titolo V, su cui si sovrappose la riforma ulteriore votata dal centro-destra (devolution) e successivamente la sua cassazione da parte del voto referendario del giugno 2006. L’attuale dibattito sul federalismo, nonché gli svolgimenti legislativi più recenti, non sembrano avere ancora al centro la questione delle prestazioni amministrative come tema centrale delle future riforme istituzionali.
La seconda dinamica concerne lo stato degli apparati centrali e potrebbe compendiarsi nella definizione di un “pluralismo senza ordine”. Lungi dall’essersi assottigliati, retrocedendo a funzioni di coordinamento e di governo “da lontano”, questi apparati hanno teso a mantenersi quantitativamente rilevanti (anzi a moltiplicarsi, sovrapponendosi) e al tempo stesso a rivendicare competenze e funzioni. Al loro interno si sono sviluppati tuttavia fenomeni di modifica molecolare: una accentuata pluralità di situazioni giuridiche differenti caratterizza il personale, mentre sul piano organizzativo si assiste ad una non sempre lineare e coerente moltiplicazione di forme istituzionali e di articolazioni di lavoro.
La terza dinamica è quella derivante dal processo di europeizzazione (e in parte anche, più latamente, di internazionalizzazione) delle amministrazioni pubbliche (non solo di quella statale, ma anche, almeno per certi settori, di quelle regionali: “il benefico contagio europeo”). Su questo punto sappiamo troppo poco, anche se qualche segnale ci dice che potrebbe venire da questa direzione un’inversione delle tendenze negative sin qui elencate.
La quarta dinamica ha riguardato il personale e la chiamerei “la privatizzazione ambigua”, cioè l’adozione di forme del rapporto di lavoro di diritto privato in un quadro di forte resistenza degli assetti primitivi ispirati al diritto pubblico.
Infine, la quinta ed ultima dinamica in atto, è stata la tendenza delle amministrazioni a misurarsi sul mercato (“i servizi amministrativi come prodotto”) e il delicatissimo profilo del nesso tra l’attività amministrativa delle istituzioni pubbliche e i valori sociali che ad essa debbono comunque, per definizione, essere sottesi.
3. La legislatura sprecata 
La legislatura in corso, iniziata con grandi ed enfatiche dichiarazioni di intenti, è stata, sotto il profilo della riforma amministrativa, sostanzialmente deludente. La campagna governativa contro la pubblica amministrazione (il “fannullonismo” evocato dal ministro Brunetta, le politiche generali punitive del pubblico impiego contenute in vari provvedimenti specie nelle finanziarie, l’idea diffusa che “pubblico” sia sinonimo di inefficienza e spreco) ha prodotto nell’ambito dell’amministrazione un acuto sentimento di depressione, del resto facilitato dalla invasione di campo da parte di figure di vertice tratte dall’esterno, dalla interruzione del turn-over generazionale, dalla mortificazione delle professionalità. Per il pubblico dipendente italiano (consentitemi una battuta) ci vorrebbe ormai lo psicanalista, tanto penetrante e martellante è stata la sua emarginazione sociale e la sua riduzione a capro espiatorio di tutti i mali dell’Italia contemporanea.
Sicché qualunque politica di rilancio delle amministrazioni pubbliche si voglia in futuro tentare, dovrà scontare prima il problema della ri-mobilitazione delle forze interne della riforma, della ri-motivazione di coloro (giovani dirigenti, culture professionali) che di quella riforma dovranno necessariamente costituire la guida e l’avanguardia.
L’azione del ministro Brunetta, inizialmente ambiziosa, ha però precocemente perduto la sua bussola, riducendosi a una serie di interventi separati l’uno dall’altro (ad esempio nel campo, pure cruciale, della informatizzazione), con l’esito finale di una dispersione dell’iniziativa e di una sua sostanziale vanificazione.
Persistono, se vogliamo tentare un bilancio, alcuni punti critici che non solo non sono stati risolti ma che si sono, se possibile, di recente ulteriormente aggravati. In sintesi:
1) L’abuso delle gestioni speciali o commissariali, o comunque l’affidamento di compiti via via più rilevanti (ed anche più delicati) ad apparati paralleli sottratti alla catena tradizionale dei controlli. Un abuso che nel caso della Protezione civile è sfociato in fattispecie da codice penale;
2) La conferma, in contraddizione con le asserite velleità federalistiche, della vocazione centralista del sistema, con concentramento al centro di risorse finanziarie (il ruolo assolutamente dominante del Ministero dell’economia e delle finanze) e di leve essenziali alla catena di comando;
3) Il blocco, in molti settori, dei concorsi quale naturale mezzo di ricambio, con conseguente invecchiamento delle pubbliche amministrazioni (e ricorso massiccio a forme di out-sourcing che hanno privato intere aree specialistiche dell’amministrazione del proprio personale, spesso in passato di elevatissimo livello professionale: si pensi a ciò che è avvenuto nei beni culturali);
4) L’assenza di una politica della formazione coerente, capace di tener conto delle trasformazioni in atto e di quelle che si intravedono per il futuro prossimo. E la riconferma, ad onta di tutti i buoni propositi, di un modello formativo tipico (e al tempo stesso obsoleto): quello basato sul laureato in giurisprudenza, preposto a attività di controllo formale piuttosto che a compiti di gestione e operativi;
5) La persistenza di una dirigenza troppo ampia, selezionata con metodi vecchi e antiquati, demotivata perché priva di una sua missione, umiliata dallo spoils system;
6) La scarsa propensione alla innovazione, come testimoniato dal calo del fatturato nel settore dell’11,2% tra il 2008 e il 2010 e dalle posizioni di coda occupate nelle specifiche classifiche europee;
7) La ripresa massiccia della corruzione amministrativa, anch’essa testimoniata dalle classifiche internazionali che ci collocano in coda alla lista dei paesi europei per capacità di reazione e soprattutto di prevenzione del fenomeno corruttivo.
Che fare dunque? Non è questa l’occasione adatta per avventurarsi in previsioni per il futuro. E neanche, nel mio caso in particolare, per esprimere opinioni o ricette su ciò che un eventuale cambio di guida nella maggioranza politica del Paese potrebbe o dovrebbe rappresentare nel campo della riforma amministrativa. Mi limito a citare, come altre volte mi è capitato, l’espressione felice di Carlo Azeglio Ciampi con riferimento al risanamento finanziario: “L’Europa ci obbliga ad essere virtuosi”. Ebbene può darsi, io me lo auguro, che anche nel campo delle performances amministrative l’Europa, prima o poi, ci obbligherà ad essere virtuosi. Anche in controtendenza rispetto alla lunga storia deludente del nostro riformismo amministrativo.

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