mercoledì 28 dicembre 2011

Quale strategia per il partito democratico

Lettera aperta di Matteo Cristani
Mi presento brevemente, perché non voglio che chi leggerà questa lettera la consideri, come spesso accade, uno strumento di comunicazione politica di corrente, mentre essa è lo sfogo sincero, la protesta ragionata, e la discussione di una proposta che sta a cuore a me e spero a tanti altri.
Sono un costituente del Partito a livello regionale del Veneto, e non avevo mai aderito a nessuno dei partiti fondatori prima. Viceversa vengo da una storia di volontariato nel mondo cattolico e dalla militanza nella sinistra estrema da ragazzo. Cercavo e cerco dal 2007 un luogo aperto di discussione e credo che, nonostante i molti impedimenti che ci hanno confuso in questi anni, il PD sia ancora un luogo aperto di discussione del centro-sinistra nel triste panorama della politica italiana di oggi.
Svolgo nella vita il mestiere di Ricercatore, con passione, orgoglio e in questo momento una tremenda insoddisfazione, a causa delle cosiddette riforme del governo Berlusconi che hanno colpito tutti i settori pubblici ma in particolare scuola ed università.
Il tema di questa lettera è semplice da enunciare e nello stesso tempo imbarazzante per la maggior parte dei militanti del Partito Democratico: la strategia attuale e futura di questo partito, in particolare di fronte alla crisi economico-finanziaria ed al modo con cui il governo Monti, che appoggiamo, la sta affrontando. In conseguenza di questo ragionamento sulla strategia, possiamo poi andare al nocciolo della questione per il 2013: le alleanze.
A parte gli appelli alla battaglia di testimonianza, a parte la ricerca di miglioramenti, rimane la sostanza della manovra che ha due nomi ideologici chiari ed indiscutibili:
- Monetarismo;
- Neoliberismo.
Approviamo una manovra che fa poco per la crescita (e di nuovo Monti ci ha detto, per la quattordicesima volta dall’inizio della legislatura – la prima sua, le altre tredici volte è stato Berlusconi – che la crescita verrà promossa in un futuro decreto), che pesa tutta sui lavoratori dipendenti ed i pensionati e fa pochissimo per la lotta all’evasione. Soprattutto fa tutto ciò a partire da considerazioni economiche che nascono in un filone di pensiero che, io penso, il Partito Democratico non può condividere.
Naturalmente non possiamo fare a meno di approvarla, ma usiamo questa occasione per riflettere su come ci muoviamo, ci siamo mossi e ci muoveremo nel futuro.
Un certo numero di persone che stanno nel partito si professano liberali. Io accolgo la loro posizione come nobile. Dato che questa stagione è quella della fine delle ideologie, mi sia concessa l’opportunità di criticare l’ideologia liberale. Si tratta di una ideologia che ha dimostrato di essere erronea nelle previsioni, autoreferenziale nei fondamenti e disposta a sacrificare esigenze base delle persone all’efficienza del sistema, mostrandosi in questo altrettanto cinica di altre ben più criticate ideologie quali il fascismo o il comunismo.
Ora, naturalmente, molte cose positive esistono nel liberalismo, ma non posso che considerare particolarmente deteriori le sue versioni sopra citate, cui sembriamo votarci, per sposarle, come bagaglio ideologico. Dato che abbiamo superato le ideologie, scegliere una posizione oltranzista di destra neoliberista e monetarista appare una scelta improvvida. Questo specialmente nel quadro europeo delle sinistre, che dopo decenni di autocritica sull’attenzione agli aspetti sociali, si sono in parte ricredute e stanno muovendo i propri passi nella direzione di un serio recupero di politiche di centro-sinistra attente agli aspetti dello sviluppo e della crescita quanto a quelli della giustizia sociale. Ritengo che un numero elevatissimo di persone nel partito non accettino questa idea, e non necessariamente quando la loro provenienza di militanza precedente li marchia come socialisti, o socialdemocratici. La giustizia sociale è un tema di grande rilievo per tutte le persone di centro-sinistra.
Non riesco a credere alla proposizione totalmente apodittica di comunismo, fascismo e, paradossalmente, perfino del neoliberismo e del monetarismo, secondo cui si può avere una società più giusta solo se si accetta di sacrificare una parte della domanda di giustizia sull’altare dello sviluppo della società.
Riconosciamo che si tratta di un errore. Lo abbiamo fatto a sinistra, sostenendo che solo una società più controllata può garantire equità, cioè che solo una società senza libertà può essere giusta, e non è vero. Si è fatto da parte del fascismo un discorso simile, sperando in una società più completa in cui la giustizia e la libertà venivano sacrificate per l’ordine. Lo hanno fatto i liberali, asserendo che solo una società più ricca può distribuire la ricchezza.
L’inganno è tutto ideologico, ogni volta. Non dobbiamo cercare o costruire nuove ideologie, su questo sono d’accordo. Non dobbiamo cercare le parti che ci stanno bene delle varie ideologie, e non dobbiamo infine smettere di pensare perché ogni volta si genererebbe un pensiero organico di natura ideologica. Occorre pensare in un modo nuovo.
La scienza da tempo ci insegna che il modo nuovo di pensare si chiama comunità. Non ci sono più deus ex-machina capaci di concentrarsi per un intervallo di tempo sufficientemente lungo su un argomento per produrre un pensiero talmente perfetto da risultare incriticabile, non esistono più pensatori organici capaci di illudere generazioni di persone sulla perfezione del loro pensiero. Non ci sono più Marx, Adam Smith o Ezra Pound. Non ci dobbiamo fidare di chi dice di essere alcuno di questi redivivo.
La destra americana ha adottato Milton Friedman come unico riferimento per il pensiero neoliberista e monetarista. Possiamo ritenere che questo sia un punto di riferimento per la sinistra italiana? Non sembra affatto possibile.
Eppure la comunità economica ha prodotto pensatori non neoliberisti capaci di definire una linea di pensiero, spesso parzialmente criticabile, ma di grande importanza, come Jeremy Rifkin, Joseph Stiglitz o Lawrence Summers.
Possiamo poi continuare a parlare di molte altre cose in termini non economici, o forse, in molti sensi, in termini strettamente economici. Possiamo discutere di ambiente, di scuola, di ricerca, di spese militari. Ma dobbiamo farlo connotando le nostre scelte. E ci occorre una vera scelta strategica di fondo.
Una strategia vera quindi deve basarsi sull’assunto del cercare una linea di pensiero critica con questa presunta modernità che invece è solo vecchiume ideologico. Una strategia vera deve basarsi su prospettive realistiche. E dobbiamo dire vere parole, non numeri senza contenuti.
Mi sono chiesto, in questa fase, per dirla con John Kennedy, che cosa posso fare io per il mio partito prima di quello che il partito può fare per me.
Per prima cosa, voglio parlare di una ipotesi di programma elettorale. Poi vorrei che questo si agganciasse ad alcune idee del Partito e ad una strategia elettorale.
PROGRAMMA
1) La prima cosa su cui dobbiamo nettamente invertire rotta è la ricerca scientifica. Siamo un paese sempre più preda di demenziali superstizioni, che non crede nemmeno più alle proprie doti, come la creatività, l’energia dei suoi gangli sociali, la serietà. Occorre spendere almeno cinque volte quello che si spende ora per andare avanti, altrimenti il declino è inesorabile. Le priorità, evidenti, sono tre:
a. Energia;
b. Nuove tecnologie;
c. Invecchiamento.
Chi non coglie queste priorità non guarda la realtà con disposizione d’animo sincero, ma è accecato dall’ideologia.
2) Dobbiamo creare nuove condizioni per il lavoro. Questo significa scelte coraggiose in termini di azione politica e sociale, significa scegliere le direzioni:
a. Piccole e medie imprese;
b. Liberalizzazioni;
c. Assunzioni nei settori rilevanti del pubblico impiego, in particolare Scuola ed Università;
d. Nuove disposizioni per le infrastrutture, naturalmente in particolare quelle di medio-piccole dimensioni che sono più importanti delle grandi opere;
e. Sblocco dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, anche mediante sospensione del patto di stabilità;
3) Scelte di fondo sul tema delle spese militari, che vanno ridotte in modo drastico a partire da domani.
Ma il programma non può essere che il frutto di una scelta strategica. Io credo che si debba parlare in modo comprensibile. E per farsi capire in Italiano le parole esistono. Per la strategia del Partito Democratico le uniche parole che vorrei vedere sono:
- Scienza (e le annesse Cultura, Scuola, Ricerca, Arte, Territorio, Innovazione Industriale);
- Persone (Dignità, Diritti, Omosessualità, Povertà, Immigrazione);
- Comunità (Famiglia, Servizio, Senso dello stato, Coesione nazionale ed internazionale).
E per finire, al di là delle considerazioni banali che si possono fare sul fatto che le alleanze si fanno con chi ci sta su programma e strategia, io credo che dobbiamo scegliere in base a tre considerazioni elementari:
- Non possiamo stare in coalizione con chi sceglie ancora delle ideologie in blocco, perché questo sarebbe contrario allo spirito di fondazione del Partito Democratico;
- Non possiamo stare in coalizione con chi crede di risolvere i problemi con soluzioni prive di strategia;
- Non possiamo stare in coalizione con chi dubita della serietà di queste prese di posizione.
In conclusione, temo sia difficile accettare l’abbraccio mortale che Monti e il PDL ci stringono, ma occorre anche ripensare l’assetto d’alleanza con l’UDC.

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sabato 24 dicembre 2011

Biciclette gialle a Verona



Sono apparse nel centro di Verona nei luoghi più frequentati (via Roma, piazza Bra, via C. Battisti, corso Porta Nuova, Castel Vecchio, Ponte Pietra) delle biciclette tutte dipinte di giallo con delle scritte strane. Le biciclette sono state legate ai pali ed alcune sono prive della sella o del manubrio. Tutte le biciclette gialle riportano un cartello con delle scritte indecifrabili:
- Veicolo Fermo Perché non sorridi più;
- Veicolo Fermo Ma cosa mi chiedi;
- Veicolo Fermo Hai fatto all’Ammore;
- Veicolo Fermo Hai salutato il tuo vicino;
- Veicolo Fermo Ammira i colori della tua città.
E' una forma di propaganda o di recupero artistico dei veicoli fermi?
Niente di tutto questo. Infatti si apprende da una comunicazione del gruppo “Biciclette Gialle” che esprime una riflessione sull’immobilismo di Verona: “Verona e' immobile da tempo ormai. Verona invece di andare avanti sembra essersi fermata nel tempo, senza stimoli culturali, sociali, politici, economici”. “Noi siamo un gruppo di giovani, si afferma nel comunicato, che in questa città ci sono nati o ci vivono e vogliamo esprimere la nostra voglia di una città più mobile, aperta, interculturale, creativa, innovativa ed ecologica. E per esprimerlo abbiamo scelto un simbolo: bici gialle”.
Il gruppo si auspica il passaggio di Verona da una città “ferma, bloccata, incatenata, come le macchine in fila tutte le mattine sulle vie principali” ad una “città più mobile, aperta, interculturale, creativa, innovativa ed ecologica”.
Molte città (Seattle, Austin, Barcellona, Bilbao, Glasgow, Edimburgo, Denver, Pittsburgh o Lille) hanno utilizzato i fattori immateriali (creatività ed innovazione) per avviare il cambiamento e lo sviluppo. Perché Verona trovandosi nelle medesime condizioni di altre città rimane ferma senza una strategia di crescita e di miglioramento della qualità della vita dei cittadini?
Irene Tinagli scrive in un editoriale: “la tendenza più in voga in tema di sviluppo urbano: far leva su fattori creativi ed immateriali come l’arte, la cultura, la musica o il design per promuovere una nuova immagine della città, per attrarre artisti, giovani professionisti e imprenditori innovativi”.

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Ivan Scalfarotto, chiarezza sui diritti dei lavoratori

Articolo di Ivan Scalfarotto, vice-presidente del Pd, pubblicato su Europa il 23 dicembre 2011

Nel vortice di reazioni scatenato dall’intervista del ministro Fornero al Corriere si è perso a un certo punto il senso della realtà. È bene quindi ristabilire e chiarire alcuni punti fermi senza i quali non si parla di riforma del mercato del lavoro ma di altro.
Innanzi tutto: nessuno vuole togliere diritti a nessuno, anzi. Nella puntata di Porta a porta di mercoledì sera, dove si affrontava il tema, si è discusso a lungo della domanda di un sondaggio che chiedeva agli italiani se fosse giusto o meno togliere qualche diritto ai lavoratori stabili per darne un pò di più ai precari. La domanda era completamente fuori luogo, così come il dibattito che ne è seguito, dato che nessuno penserebbe mai di fare una cosa del genere.
Il tema andrebbe più correttamente posto così: premesso che chi ha un contratto a tempo indeterminato se lo tiene com’è, cosa offriamo ai giovani che entrano oggi sul mercato del lavoro? In questo momento, nella maggior parte dei casi la prima esperienza lavorativa ha le sembianze di uno stage, di un contratto a progetto, di una (falsa) consulenza per ottenere la quale è necessario aprire una partita Iva.
Questo comporta che chi entra nel mercato del lavoro, oggi, spesso non ha diritti elementari (ferie, indennità di malattia, congedo per maternità), nessuna protezione (se sei antipatico al capo, bastano due minuti per troncare una consulenza), nessuna prospettiva di sviluppo professionale (perché formare un lavoratore che per definizione è in azienda di passaggio?). Non si tratta quindi di togliere diritti ad alcuno, si tratta di darne – e di essenziali, in un paese civile – a qualcuno che oggi non ne ha.
Secondo tema: l’abrogazione dell’articolo 18. Non è affatto vero che consentire il licenziamento per ragioni economico-organizzative (si chiama “giustificato motivo oggettivo”) significherebbe abolire l’articolo 18. Al contrario, nella proposta Ichino si prevede un chiaro allargamento dell’applicazione dell’articolo 18.
Mi spiego. L’articolo 18, oltre al caso della reintegrazione in assenza del giustificato motivo, prevede la reintegrazione nel posto di lavoro per i licenziamenti contra legem: quelli discriminatori o determinati da motivi futili (si parla di assenza di giusta causa). Oggi i precari non sono coperti in nessuno dei due casi: sono indifesi nel caso che vengano licenziati perché l’azienda oggettivamente necessita di ridurre il costo del lavoro. Ma sono assolutamente nudi anche davanti a un licenziamento causato dal fatto di essere gay o lesbiche, o incinte, o perché semplicemente di opinioni politiche diverse da quelle del capo.
Nella proposta che il governo verosimilmente ha in mente, tutti questi casi sarebbero immediatamente coperti dall’articolo 18, copertura di cui oggi assolutamente non godono. In sostanza, con la riforma, i neoassunti entrerebbero in azienda con un contratto vero, con tutti i diritti dovuti a un lavoratore e con la doverosa protezione contro licenziamenti capricciosi. Unica novità, rispetto ai contratti indeterminati di oggi: la possibilità delle aziende di licenziarli per ragioni economico-organizzative, ma in un sistema in cui viene predisposto un meccanismo di retribuzione quasi piena per tre anni e di formazione per la ricerca di un nuovo posto di lavoro.
In un momento di grande incertezza, un’iniezione di certezza. Il tutto avverrebbe in un’economia, si badi, meglio attrezzata ad attrarre capitali stranieri, oggi tenuti lontani dall’Italia anche dall’assurda farraginosità della legge sul lavoro e dalla imprevedibilità dei tempi e dei costi per far fronte a ristrutturazioni aziendali, se non nel caso di fallimento. È quello che avviene in tutta Europa, non solo in Danimarca.
La conseguenza di tutto ciò è che in nessun paese come da noi esistono milioni di giovani che vivono (e invecchiano) nell’attesa di avere un contratto inamovibile che nessun governo sarà mai in grado di garantire loro. Tutto questo va cambiato, e il Pd di questo cambiamento dovrebbe essere il campione.

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giovedì 22 dicembre 2011

Il viaggio di Ferrero, Damiano e Treu in Danimarca

Articolo pubblicato su L’Unità venerdì 3 giugno 2005 pag. 13
Lavoro, la via scandinava è sempre di moda
I responsabili del centrosinistra in Danimarca: formazione, mobilità e occupazione vanno d’accordo
ROMA. Nonostante le continue revisioni, il «modello scandinavo» continua a fare scuola in fatto di Welfare e inclusione sociale. Quanto ai servizi per l’impiego è la Danimarca ad essere depositaria del «modello vincente». È questo il parere di Tiziano Treu, Cesare Damiano e Paolo Ferrero nei giorni scorsi a Copenhagen in una sorta di «missione studio». Del resto il responsabile Lavoro della Margherita ed ex ministro prese ispirazione proprio dalla Danimarca per avviare, nel ‘97, la riforma del collocamento. E oggi a metterlo d’accordo con i colleghi dei Ds e di Rifondazione Comunista è la forte protezione sociale, l’accompagnamento del disoccupato a ricollocarsi sul mercato del lavoro e il coinvolgimento di sindacati e imprese in questo percorso.
È il «golden triangle» danese. «Un triangolo dorato, composto da Stato, dai sindacati e dai datori di lavoro ed è veramente un modello funzionante
- spiega Damiano -. L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale».
La mobilità del lavoro investe circa 800mila persone su 4 milioni «ma non fa paura – continua l’esponente diessino - perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione».
Insiste sul ruolo delle parti sociali anche Treu che parla di un «patto di fiducia» tra chi rappresenta i lavoratori, le imprese e i cittadini. «Quello che ci pare importante di questa gestione – aggiunge Paolo Ferrero di Prc - è che è regolata da un’idea per cui la possibilità della concorrenza e dello sviluppo stanno assieme a un altissimo livello di garanzie sociali».

Dall’articolo dell’Unità si evince la capacità di attrazione del modello danese nei confronti degli esponenti politici impegnati in una missione di studio in Danimarca per conoscere il modello danese del mercato del lavoro.

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Walter Veltroni, invertire la scala delle priorità sul lavoro

Articolo di Goffredo De Marchis pubblicato su La Repubblica il 22 dicembre 2011
Ricominciare daccapo. Ma «senza totem, senza ideologismi da parte di nessuno», dice Walter Veltroni. Ripartire non significa certo fermarsi: «La nuova frontiera della sinistra e dei democratici è dare una risposta a 15 milioni di lavoratori che l`articolo 18 non l`hanno mai incrociato, che vivono nell`angoscia disperante dell`incertezza. Per loro il licenziamento discriminatorio esiste eccome.
Per questo c`è bisogno che la discussione riparta su basi nuove e con responsabilità da parte di tutti», ricorda l`ex segretario del Pd.
Perché c`è stata una falsa partenza sulla riforma del lavoro?
«È una discussione che riguarda la condizioni di vita di milioni di italiani, ancora più delicata in un momento di crisi. Per questo non credo sia stato utile cominciare a parlarne adesso e parlarne a partire dall`articolo 18, anche se condivido molte delle idee espresse da Elsa Fornero. Ugualmente penso non siano giustificabili le reazioni così aspre e personalizzate ascoltate in questi giorni contro il ministro».
L`articolo 18 si può cancellare?
«Ripartenza vuol dire invertire la scala delle priorità. Si può discutere della norma sulla giusta causa ma non cominciando da essa. Vanno prima stabiliti alcuni principi. Il primo è la concertazione. Una materia come il lavoro va affrontata in uno spirito di collaborazione con le forze sindacali e sociali.
Direi che è un obbligo civile».
Così sembra scontato uno stop. «Non penso. Il secondo principio è che il confronto avvenga senza tabù e senza totem, fuori da ogni ideologia. Va preso di petto il tema che fu al centro della campagna elettorale del Pd nel 2008: l`intollerabile ingiustizia sociale della precarietà. Da qui si parte. Come estendere garanzie e sicurezza a quei milioni di cittadini che vivo- neutralizzare la decisione, allora è no senza certezza di futuro. Dal governo e dai sindacati perciò ci si deve aspettare, quando sederanno al tavolo della concertazione, una risposta chiara alla domanda:
quali soluzioni propongono per eliminare la discriminazione sociale che divide a metà il mondo del lavoro?».
Il tema sotto riflettori oggi è l`articolo 18. «Un conto è il dibattito sui giornali, un altro è la discussione sul vero, drammatico, problema: la lotta alla precarietà. L`articolo 18 semmai deve arrivare alla fine del percorso. A quel punto si vedrà se è uno strumento utile o meno.
Faccio notare, però, che anche con la legge vigente si producono licenziamenti come a Termini Imerese. E con l`articolo 18 vigente è probabile che 800 mila persone nel 2012 vadano a casa».
La riforma del lavoro non andrebbe affrontata da un governo eletto? «Non ho capito se, ancora, nel dibattito pubblico fanno tutti i furbi. Siamo in una situazione Medita, eccezionale, il tracollo era a un passo e non è detto che ne siamo completamente fuori. L`intervento di Napolitano martedì ha avuto accenti storici. È stato giusto richiamare tutti a un`urgenza drammatica. In questa urgenza ci sta anche l`innovazione di cui il Paese ha bisogno. Compresa quella del mondo del lavoro. Non abbiamo più mesi o anni se vogliamo far crescere il paese. E trovare il lavoro che non c`è e produrre la ricchezza di cui l`Italia ha bisogno. Perché è questa l`urgenza drammatica di oggi.
Non pare che Monti sia favorevole alla concertazione. «Non è vero, credo pensi, a ragione, che su una materia come questa la concertazione è un dovere.
Ho fatto tavoli di concertazione a decine nella mia vita. Se il tavolo è finalizzato a decidere è un tavolo che funziona. Se serve a un guaio. Il governo si deve preparare al confronto senza pregiudizi.
Ma il sindacato tutto non può non porsi la questione di milioni di lavoratori che non sono rappresentanti dal sindacato e nel sindacato.
Non può non considerare questa sfida decisiva. Ho molta fiducia nelle organizzazioni dei lavoratori e spero che la nuova unità produca pensieri di lungo periodo».
Il Pd è destinato a spaccarsi sulla riforma? Subirà la pressione della Cgil? «La sinistra italiana è specialista nel trovare icone ideologiche sulle quali dividersi. La mia formazione è diversa, preferisco puntare a soluzioni sociali e valoriali capaci di modernizzare il Paese. Possiamo affrontare solo il punto dell`articolo 18, se vogliamo continuare a dividerci. Oppure si può discutere nel complesso di una riforma. Le ipotesi sono tante: quella di Ichino, quella di Boeri e Garibaldi, la proposta di far pagare di più un`ora lavorata da precario. Valutiamole.
Ma il punto è favorire l`integrazione dei precari in un mondo del lavoro uguale per tutti. È la battaglia del Duemila, paragonabile alle 8 ore. Nel `99 proposi il passaggio dal retributivo al contributivo nel sistema previdenziale. La Cgil di Cofferati era d`accordo, Rifondazione mise il veto e ci sono voluti 12 anni per arrivare al traguardo. Non possiamo più permetterci questi tempi lunghi».

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Pietro Ichino, risolvere i problemi per realizzare il modello danese

lettera di Pietro Ichino pubblicata su il Corriere della Sera il 22 dicembre 2011
Caro Direttore, nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro che si è aperto dopo l'intervista del ministro Elsa Fornero al Corriere del 18 dicembre, si osserva una straordinaria divaricazione tra la sostanza politico-economica della questione, che viene per lo più sottaciuta, e gli argomenti sui quali ci si accapiglia. Il primo tema caldo sollevato a sproposito è stato quello del rischio che l'introduzione di una nuova disciplina del lavoro in un periodo di recessione economica scateni un'ondata di licenziamenti.
Il capo del governo Mario Monti è stato chiarissimo, fin dal discorso programmatico del 17 novembre, sul punto che la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, bensì soltanto quelli destinati a costituirsi da qui in avanti. Nella congiuntura attuale, dunque, la riforma potrà influire soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo su quello dei licenziamenti.
Un altro tema caldo, anzi caldissimo, sollevato a sproposito per chiudere il discorso prima ancora che si apra, è quello dell'intangibilità dell'articolo 18 dello Statuto, come chiave di volta della protezione della libertà e della dignità dei lavoratori. Ora, la questione che il ministro del Lavoro ha posto nella sua intervista al Corriere è proprio quella del come voltar pagina rispetto a una situazione che vede le nuove generazioni per lo più escluse da quella protezione. E tutti i progetti di riforma oggi sul tavolo prevedono che per questo aspetto - cioè in particolare quello della tutela antidiscriminatoria - il campo di applicazione dell'articolo 18 venga esteso a tutta la vasta area di lavoro sostanzialmente dipendente che ne è attualmente esclusa.
Molto più serie sono le questioni sollevate da chi, come Cesare Damiano, nell'intervista al Corriere di ieri, entra nel merito del problema. Le obiezioni dell'ex-ministro del Lavoro alla prospettiva enunciata da Mario Monti di imitare in Italia il modello scandinavo sono essenzialmente tre: i Paesi scandinavi sono molto più piccoli del nostro; il loro mercato del lavoro è dotato di servizi molto più efficienti dei nostri; essi infine dispongono di molte più risorse economiche per il sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto. A ben vedere, è sostanzialmente lo stesso discorso che su queste pagine ha proposto Mario Fezzi, avvocato della Cgil, il 30 novembre scorso. Entrambi questi interventi, molto ragionevolmente, lasciano intendere il vero nodo politico: affrontiamo e risolviamo prima la questione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, e la questione di come estenderla davvero a tutti i lavoratori; risolta quella, un accordo sulle regole della flessibilità del lavoro non faticheremo a trovarlo.
Esaminiamo dunque una per una le questioni di merito sollevate. Sulle dimensioni geopolitiche, in realtà, il problema non dovrebbe porsi. La Svezia ha la stessa popolazione - e lo stesso identico reddito pro capite - della Lombardia; all'incirca lo stesso può dirsi della Danimarca in riferimento a Regioni come il Piemonte, il Veneto o l'Emilia Romagna; le altre per la maggior parte sono più piccole. E dal 2001 le nostre Regioni hanno piena competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi al mercato del lavoro. Certo, i nostri servizi pubblici in questo campo sono gravemente inefficienti. Ma non è che in Italia manchi il know-how specifico: abbiamo anche noi le agenzie che sanno offrire servizi eccellenti di outplacement (assistenza intensiva per la ricollocazione) e di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Il problema è che sono agenzie private, le quali chiedono di essere pagate a prezzi di mercato. Nulla impedisce, però, di pensare che le Regioni incomincino a spendere meglio i fiumi di denaro che oggi sperperano in questo campo, ivi compresi i cospicui contributi del Fondo sociale europeo oggi poco e malissimo utilizzati, per rimborsare il costo standard di mercato di questi servizi alle imprese che se ne avvalgano per ricollocare i propri lavoratori.
Resta il problema del sostegno del reddito ai lavoratori stessi. Qui non sarebbe difficile riconvertire una parte dell'enorme spesa oggi sostenuta dall'Inps per la cassa integrazione «a zero ore» attivata a fondo perduto per congelare le crisi occupazionali aziendali, destinandola invece a estendere a tutti i settori il trattamento di disoccupazione speciale oggi riservato ai lavoratori dell'industria: 80 per cento per il primo anno successivo alla perdita del posto. Per arrivare ai livelli danesi di entità e durata del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato occorre aggiungere un trattamento complementare; questo oggi può essere chiesto alle imprese stesse, in cambio di una flessibilità di livello danese. In questo modo non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare una flessibilità delle nostre strutture produttive molto maggiore con una sicurezza economica e professionale dei lavoratori di livello scandinavo. E a questo punto i veti politico-sindacali sono destinati a cadere, o quanto meno a stemperarsi.

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Giulia Innocenzi per un dibattito sull’articolo 18

Articolo di Giulia Innocenzi pubblicato su il Fatto Quotidiano il 21 dicembre 2011
I sindacati fanno le barricate contro la riforma del mercato del lavoro perché “l’articolo 18 non si tocca”. Non lo stanno facendo per difendere me e i miei coetanei, ma per una battaglia ideologica che a mio parere danneggia proprio chi l’articolo 18 non ce l’ha.
Mi spiego. Oggi il mercato del lavoro è diviso come segue: da una parte ci sono i lavoratori coperti dall’articolo 18 e con tutti i diritti che spettano loro; dall’altra quelli che non hanno niente, e cioè che vanno avanti con contratti a progetto e partite Iva, senza il diritto ad ammalarsi, a prendere le ferie, ad accendere un mutuo, a costruire una famiglia e anche a fare carriera. Per i secondi l’articolo 18 non è un’oasi da raggiungere, ma è un’opzione che è stata loro preclusa grazie alla selva di contratti che il legislatore in questi anni ha offerto al datore di lavoro. E infatti per questi lavoratori invisibili vale proprio lo slogan che “l’articolo 18 non si tocca”, nel senso che non potranno mai toccarlo con mano.
Allora cosa fa la ministra Fornero, riprendendo la proposta del senatore Pietro Ichino? Dice (con parole mie): per chi ha l’articolo 18 resta tutto come prima. Per gli altri, gli invisibili, prevedo un contratto unico con assunzione a tempo indeterminato, ma non l’inamovibilità dal posto di lavoro. Così finalmente anche i lavoratori esclusi potranno beneficiare dei diritti che spettano loro, senza però usare le aziende come ammortizzatori sociali.
Perché è questo che fa l’articolo 18: scarica il peso del sostegno ai lavoratori tutto sulle imprese, che agendo invece sulla base del profitto preferiscono assumere con contrattini anziché accollarsi in azienda lavoratori che non potranno più licenziare se non per giusta causa. E la riorganizzazione della produzione? E l’ammodernamento della struttura? E il taglio dei rami meno competitivi dell’azienda? Non sono anche queste giuste cause per le aziende che vogliono sopravvivere in un mercato spietato e che garantiscono allo stesso tempo il lavoro nel nostro paese?
Oggi il mercato del lavoro non è più quello degli anni Settanta, quando l’articolo 18 è stato concepito. Oggi occorre più flessibilità. E lo stato come deve rispondere alla maggiore mobilità da un posto di lavoro a un altro? Deve spostare il welfare dalla protezione del lavoro a quella dei lavoratori. Tutti i lavoratori, senza distinzione fra aziende grandi o piccole e fra tipi di contratti. Chiunque perde il posto di lavoro e ne cerca un altro va protetto, ma oggi questo non succede. E se vogliamo ripartire con la crescita (e non intendo quella delle tasse), dobbiamo ammodernare le nostre leggi al sistema economico di oggi, adottando il modello della flexicurity che funziona nei paesi scandinavi e che offre la migliore protezione ai lavoratori.
E allora mi chiedo: perché i sindacati anziché portare avanti questa ipocrisia dell’articolo 18 da difendere a tutti i costi, quando invece già oggi copre una fetta minoritaria di lavoratori, non pensano a come proteggere e garantire chi l’articolo 18 non lo vede neanche con il binocolo?

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Intervista a Cesare Damiano sul modello danese

a cura di Enrico Marro pubblicata su il Corriere della Sera del 21 dicembre 2011
«Già allora, sul posto, capimmo che la flexicurity non si poteva importare in Italia. Anche adesso, a chi guarda al modello danese, direi che la strada da seguire è un' altra perché troppe sono le differenze tra l' Italia e quel Paese del Nord Europa con appena 6 milioni di abitanti, dieci volte meno dei nostri, e un modello sociale e culturale molto diverso». Cesare Damiano (Pd), ex ministro del Lavoro del governo Prodi, in Danimarca ci andò per una settimana, nella primavera del 2005, a studiare il mercato del lavoro che veniva ritenuto dagli organismi internazionali il migliore del mondo.
Partirono lui, Tiziano Treu e Paolo Ferrero. I tre erano rispettivamente responsabili Lavoro dei Ds, della Margherita e di Rifondazione comunista. «Ci vedevamo a Trastevere nella casa dove allora abitavo e un giorno ci venne l' idea di andare a vedere come funzionavano le cose in Danimarca», ricorda Damiano. Il gruppetto si riuniva per scrivere i capitoli sociali del programmone dell' Unione, l' alleanza che un anno dopo vinse le elezioni portando Romano Prodi alla guida del governo. Nel quale Damiano fu ministro del Lavoro e Ferrero delle Politiche sociali, mentre Treu divenne presidente della commissione Lavoro del Senato.
Sembra un secolo fa, ma il tema sta sempre lì, all' ordine del giorno, pur in un contesto politico ed economico profondamente cambiato: come si fa a rendere il mercato del lavoro italiano più efficiente? A quale buona pratica ispirarsi?
Il modello danese, indubbiamente, ha funzionato. E non stupisce quindi che ancora pochi giorni fa il presidente del Consiglio, Mario Monti, abbia dichiarato che l' Italia guarda «con interesse alle esperienze danesi nel mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali». Parole non solo di cortesia, dopo l' incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro danese Helle Thorning Schmidt, ma che ribadiscono la volontà dell' Italia di varare le riforme promesse all' Unione europea e annunciate dallo stesso Monti in Parlamento nel discorso programmatico. In Danimarca, nel 2010, la disoccupazione è stata del 7,4%, ma era del 3,4% nel 2008, prima della crisi finanziaria mondiale. Ma sopratutto il tasso di occupazione è del 75%, contro il 57% dell' Italia. In media, un terzo della forza lavoro danese cambia attività ogni anno. Le imprese possono licenziare per motivi economici, ma il lavoratore licenziato riceve un' indennità tra il 70% e il 90% della retribuzione, con un tetto di 2 mila euro al mese, per un massimo di tre anni. Il sussidio è pagato in parte dallo Stato, in parte dai contributi delle imprese e in piccola parte anche dall' azienda che licenzia. Il lavoratore che perde il posto viene preso in carico da una rete di uffici di collocamento molto efficienti e ramificati sul territorio che si occupa di offrigli a ritmo serrato nuove occasioni di lavoro, impegnandosi a fornirgli anche la necessaria riqualificazione professionale. Se il lavoratore rifiuta di collaborare e non accetta le proposte di ricollocamento, perde l' indennità.
«Il ricordo che mi è rimasto più impresso - racconta Damiano - è proprio quello di questi uffici bellissimi. Sembravano degli studi di architettura: silenziosi, luminosi, eleganti, dove si svolgevano colloqui individuali tra i funzionari e i lavoratori licenziati finalizzati al loro ricollocamento. C' era uno di questi centri che aveva perfino un' officina per la formazione sul campo degli operai». Damiano, Treu e Ferrero si resero subito conto che l' Italia era molto lontana. «Quando divenni ministro del Lavoro cercai di tradurre in pratica qualcosa, ma subito vidi quali erano le difficoltà. Per esempio, misi la regola per cui se al lavoratore licenziato l' ufficio di collocamento fa un' offerta di lavoro equivalente e questi la rifiuta, perde il sussidio. Ma subito gli ispettori del Lavoro mi fecero notare che in certe realtà, in particolare nel Sud, dove la camorra controlla settori per esempio del mercato agricolo, sarebbe stato difficile applicare un sistema del genere. Insomma, parliamo di realtà molto diverse. In Danimarca c' è un' etica calvinista della responsabilità molto forte. E raramente si riscontrano atteggiamenti opportunistici delle imprese o dei lavoratori per approfittare di sostegni pubblici».
E comunque, conclude Damiano, fossimo anche uguali ai danesi, non potremmo importare la loro flexicurity, cioè la flessibilità unita alla sicurezza sociale, perché «costa tantissimo e non possiamo permettercela» con un debito pubblico del 120% del Pil, il triplo di quello della Danimarca.
Per stringere la questione all' Italia, su un punto sono tutti d' accordo: se si rendono più facili i licenziamenti, modificando l' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bisogna rafforzare il sistema degli ammortizzatori sociali, prevedendo in particolare una indennità di disoccupazione più estesa, più elevata e più duratura di quella attuale, e ci vuole un sistema di uffici di collocamento che funzionino, mentre oggi solo il 4% delle assunzioni passa attraverso questo canale. Conclusione: non ci sono le risorse economiche per finanziare un modello alla danese, né la cultura, né le strutture necessarie.
E allora? Il rischio che vede Damiano, lo stesso che vedono i sindacati, è che toccando l' articolo 18 in un momento di crisi come questo non si aumentino le opportunità di lavoro, ma si favorisca un aumento della disoccupazione. Anche l' ex ministro non può però negare che la riforma del mercato del lavoro sia necessaria. Per superare il dualismo tra lavoratori anziani garantiti e giovani precari e per innalzare il tasso di occupazione, vera anomalia italiana. Sono gli stessi problemi che c' erano al momento della missione a Copenaghen. Ma la ricetta per risolverli non può essere in salsa danese. «Tra l' altro si mangiava terribilmente», sorride Damiano. «In Italia servono sette cose: disboscare i contratti precari; ripristinare il divieto di dimissioni in bianco; estendere lo sconto Irap alle assunzioni degli over 50; adottare il contratto unico di inserimento formativo per i giovani, con un periodo di prova di tre anni durante i quali si può licenziare, ma poi si ha l' articolo 18; velocizzare il processo del lavoro; riformare gli ammortizzatori sociali; trovare una soluzione per chi a causa della riforma della previdenza resterà senza stipendio e senza pensione». Altro che flexicurity.

Modello danese Come funziona
1) Le norme e i sussidi In Danimarca le imprese possono licenziare per motivi economici, ma il lavoratore licenziato riceve un’indennità tra il 70% e il 90% della retribuzione, con un tetto di 2 mila euro al mese, per un massimo di tre anni.
2) Le possibilità di riqualificarsi Il sussido è pagato in parte dallo Stato, in parte dai contributi delle imprese e in parte dall’azienda che licenzia. A chi perde il posto una grande rete di uffici di collocamento offre formazione e nuove occasioni.
3) Gli occupati e la mobilità In Danimarca (dove gli abitanti sono 6 milioni) nel 210 la disoccupazione è stata del 7,4%, ma era del 3,4% nel 2008, prima della crisi. In media, un terzo della forza lavoro danese cambia attivitrà ogni anno.

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martedì 20 dicembre 2011

Per Franco Marini l’articolo 18 è un falso problema

Intervista a Franco Marini a cura di Maria Zegarelli pubblicata su L’Unità il 20 dicembre 2011
Non so se il governo ha capito che l‘articolo 18 non ha alcuna influenza sull'occupazione e l'arrivo di investimenti esteri qui in Italia. Forse quando aprirà il tavolo di confronto con le forze sociali se ne renderà conto». E poi gli sfugge un sorriso amaro. «Assurda, la trovo una discussione assurda. Si parla di questo per non parlare del problema vero». Un grande piano per le politiche del lavoro, questo è il problema, per Franco Marini (ex ministro del Lavoro nonché segretario della Cisl a metà degli anni Ottanta), che ieri leggendo le dichiarazioni di leader politici, sindacali e ministri, ci ha tenuto a mettere qualche paletto.
Presidente, discussione inutile o ideologica quella sull'articolo 18?
«Io non ho difficoltà ad aprire una discussione sul mercato del lavoro, ma facciamola partendo dalle reali necessità. La trattativa sulle politiche del lavoro va fatta con grande serietà e pragmatismo perché è un punto rilevante per la possibilità di rilanciare la crescita della produttività del lavoro, una delle ragioni del ristagno dell'economia italiana e una delle cause per cui non arrivano investimenti stranieri. Ed è normale che un governo chiamato in carica per battere la decadenza economica del Paese si ponga il problema».
Che secondo lei non è l'articolo 18.
«Non è l'articolo 18 non perché sono io a sostenerlo: quell'articolo tutela il singolo lavoratore nelle aziende con più di 15 dipendenti e non c'entra niente con i licenziamenti e le riduzioni di personale legati a crisi economiche e ristrutturazioni delle stesse. L'articolo 18 di cui tanto si discute ha un unico limite: quello di essere stato caricato di forte valenza ideologica e oggi qualcuno fa finta di dimenticare che è mirato a tutelare i licenziamenti individuali. In questi giorni mi sono documentato su quanti lavoratori si sono rivolti alla magistratura per essere reintegrati proprio sulla base dell'articolo 18. Sa quanti sono stati nel 2010? Meno di mille. Le sembra questo il problema?».
Da dove dovrebbe iniziare il governo per riformare il mercato del lavoro, allora?
«Si dovrebbe integrare il percorso delle crisi aziendali e gli esuberi previsti dalla legge 223 del 1991».
Una legge che porta la sua firma...
«Per fare quella legge condussi da ministro del Lavoro una difficile trattativa con i sindacati e con Confindustria e trovai un punto di equilibrio. Prima di allora la cassintegrazione aveva di fatto una durata illimitata. Io convocai Confindustria e fui chiaro: "mettiamo un tetto alla cig, introduciamo la mobilità con la quale si rescinde il rapporto di lavoro, ma voi dovete accettare le condizioni di questa legge". E la 223 in tutti questi anni ha consentito di gestire le crisi di medie e grandi aziende senza mai obiezione alcuna né dei sindacati né dei datori di lavoro. Ha funzionato bene, con il limite che si rivolge solo ad aziende con più di 15 dipendenti».
La ministra Fornero è tornata a parlare del contratto unico.
«È evidente che oggi occorre una riforma che allarghi la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori senza alcuna garanzie e allenti la rigidità in uscita. In Senato il Pd ha depositato due proposte sul contratto unico: una è quella di Ichino e una porta la prima firma di Nerozzi. Io mi ritrovo molto in questa ultima che prevede una fase di ingresso nel lavoro di tre anni durante i quali il contratto può anche risolversi, ma dopo i quali scatta il tempo indeterminato e con esso l'applicazione dell'articolo 18 ai vecchi e ai nuovi contrattualizzati. E questa è la differenza tra la proposta Nerozzi e quella Ichino, che invece fa una distinzione».
Fabrizio Cicchitto, Pdl, sostiene che a chiedere di rivedere l'articolo 18 è la Ue.
«Ma che vuol dire? Lo sa, visto che si prende sempre la Germania ad esempio, che lì c'è una legislazione molto simile al nostro articolo 18? In Germania il datore di lavoro può licenziare per giusta causa ma poi davanti al giudice la deve dimostrare la giusta causa, altrimenti il lavoratore viene reintegrato».
Marini però non è che bisogna andare nel Pdl per trovare i sostenitori della revisione dell'articolo 18. Anche nel Pd ce ne sono, a partire da Ichino, appunto. Dicono che non può essere un tabù.
«I tabù non piacciono neanche a me ed è naturale che nel Pd su cose di questo rilievo si discuta. L'ostacolo per la ripresa non è l'articolo 18 ma la eccessiva incertezza connessa alla spaccatura del mercato del lavoro. Completiamo la 223, poniamo fine a questa irragionevole frammentazione dei contratti che è diventata uno strumento per evitare, anche quando ci sono le condizioni per farlo, l'assunzione a tempo indeterminato».
Lei in un'intervista all'Unità lo scorso agosto invocava l'unione dei sindacati, che è arrivata oggi "grazie" alla manovra. Qualcuno l'ha definito un miracolo di Monti.
«I miracoli risolvono i problemi e qui mi sembra che non ci siamo ancora. Certo, vedere le tre sigle confederali muoversi insieme mi fa un grande piacere. Capisco chi parla, in polemica con il governo, di miracolo di Monti, però anche i sindacati...».
Se la prende con Cgil, Cisl e Uil?
«No, non me la prendo con loro, ma quando dicono no al contratto unico poi hanno il dovere di andare al tavolo della trattativa per dire quale è la loro proposta per superare la spaccatura del mercato del lavoro».

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lunedì 19 dicembre 2011

Oscar Giannino, responsabilità del debito pubblico


Il giornalista Oscar Giannino, giornalista del Sole 24 Ore, ricostruisce l’evoluzione del debito pubblico italiano che ha causato la crisi del paese.
Dalle valutazioni di Giannino risulta che:
- il debito pubblico è stato accumulato maggiormente dalla seconda Repubblica. Dal 1946 al 1992, la Prima Repubblica ha accumulato un debito pubblico pari a circa 6-700 miliardi di euro. Tutto il restante debito, ossia i 1300 miliardi di euro che hanno portato il debito pubblico italiano a quasi 2 milioni di miliardi di euro, lo ha prodotto la Seconda Repubblica;
- il debito pubblico della seconda repubblica è stato accumulato maggiormente dai Governi di centro destra rispetto ai Governi di centro sinistra. In assoluto, il record di debito pubblico accumulato da un governo sono stati i 330 milioni al giorno accumulati dal primo governo Berlusconi, che nell'ultimo governo non è sceso di molto: 207 milioni di euro al giorno di debito. Con Prodi il debito pubblico è aumentato di circa 96 milioni di euro al giorno (primo governo Berlusconi = 330 milioni al giorno), con D'Alema è arrivato addirittura a 76 milioni di euro al giorno.

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domenica 18 dicembre 2011

Elsa Fornero: Pensioni e Lavoro

Articolo di Enrico Marro pubblicato sul Corriere della Sera il 18 dicembre 2011
Adesso che la riforma delle pensioni è passata alla Camera e nessuno dubita che passerà al Senato, si possono tirare le somme con il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, economista, torinese, 63 anni, che mai avrebbe pensato, fino alla chiamata nel governo Monti, di essere protagonista della riforma della previdenza più dura nella storia d'Italia.
Ministro, non ha usato la mano troppo pesante? Non poteva fare una riforma un po' più graduale?
«Noi, col decreto "salva Italia" ci siamo trovati in emergenza. Nei decenni passati erano state fatte riforme tutto sommato buone, ma è come se le avessimo accantonate proprio perché eccessivamente graduali. Questa volta la riforma non poteva che essere forte. La priorità è stata quella di mandare un segnale deciso all'Europa sulla nostra capacità di riequilibrare il sistema secondo equità intergenerazionale».
Lei aveva promesso equità anche sul fronte dei privilegi. Che cosa è riuscita a fare?
«Intanto siamo intervenuti sui regimi speciali (elettrici, telefonici, trasporti, dirigenti d'azienda, ndr), attraverso un contributo di solidarietà. Inoltre, per i lavoratori autonomi, che godevano di pensioni generose in rapporto ai contributi versati, abbiamo previsto un aumento graduale degli stessi fino al 24%. Infine c'è l'inasprimento del contributo di solidarietà sulle pensioni sopra i 200 mila euro, che io avrei voluto più alto del 15%».
E per categorie come i militari e i magistrati?
«Per questi c'è un rinvio, ma solo per approfondire le specificità dei loro ordinamenti. Nessuno si illuda che non interverremo. Stessa cosa per le casse dei professionisti. Lo so che qui dentro c'è buona parte della classe dirigente, ma sicuramente procederemo».
Entro giugno, se non saranno le stesse casse ad autoriformarsi? «Il termine iniziale era il 31 marzo. E francamente ci sembrava più che sufficiente, visto quello che abbiamo fatto in 20 giorni sul sistema che riguarda tutti gli italiani. Alla fine hanno invece ottenuto tre mesi in più. Ma insomma...»
Teme che facciano ostruzionismo? «Lo dice lei. Sappiamo che tutti o quasi questi regimi non sono sostenibili nel lungo periodo. Prima o poi non avranno i soldi per pagare le pensioni. Senza interventi, come immagina che finirà?».
Me lo dica lei. «Come è già successo con l'Inpdai (dirigenti d'azienda, ndr). Che è finita sotto l'ombrello del soccorso pubblico. Vorrei evitare che questa storia si ripetesse».
Alla Camera il governo ha accolto un ordine del giorno che chiede di togliere la penalizzazione (1-2%) per chi ha cominciato a lavorare giovanissimo e va in pensione dopo 42 anni. La correzione finirà nel decreto milleproroghe? «Posso dire che secondo me un briciolo di penalizzazione deve restare, perché è la logica del contributivo. Se vai in pensione prima di 62 anni ci vuole un minimo di disincentivo, perché non dobbiamo venir meno al principio che la pensione si commisura alla speranza di vita».
Ma con questa crisi, anche occupazionale, ha senso tenere le persone al lavoro, in prospettiva, fino a 70 anni? «Siamo tutti concentrati sulla contingenza, ma questa è una riforma strutturale. Per funzionare ha bisogno di un sistema in crescita. Non ci possiamo permettere la stagnazione e tantomeno la recessione. Il punto è: il lavoro è ciò che ti dà la pensione. Un buon lavoro ti dà una buona pensione. Il messaggio è: non vi stiamo tagliando la pensione - al netto del blocco della perequazione dovuto all'impegno al pareggio di bilancio nel 2013 - ma vi stiamo chiedendo di lavorare di più, perché questo vi premia».
Lei crede che le imprese terranno le persone fino a 70 anni?
«Qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d'impresa sfociano in prepensionamenti. Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l'anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all'età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo. Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata. E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani. Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».
Ma come può il governo intervenire sulla dinamica retributiva, materia della contrattazione? Eppoi, gli stipendi sono già bassi... «La riforma delle pensioni deve accompagnarsi a quella del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali e, anche se non è di mia competenza, della formazione. Sono tutti aspetti di un disegno di riforma del ciclo di vita. Certo che la contrattazione è materia tra le parti. Ma noi vogliamo presentare ad esse le nostre analisi e spingerle non a ridurre i salari, ma a riflettere sulla necessità di avvicinarli il più possibile alla produttività».
La trattativa sul mercato del lavoro comincerà entro il 31 dicembre? «Forse non ce la faremo, perché vorrei presentarmi alle parti con delle analisi approfondite sulle diverse questioni».
Sicuramente, tra queste, c'è quella giovanile, come ci ha ricordato ieri l'Istat: il 40% dei disoccupati ha meno di 30 anni e chi lavora, ha quasi sempre contratti precari. «Giovani e donne sono i più penalizzati perché la via italiana alla flessibilità ha riguardato solo loro, risparmiando i lavoratori più anziani e garantiti. Sono rimasta molto colpita nel sentire i pensionati che si lamentano perché devono mantenere anche i nipoti. Questo è un ciclo perverso. Non è possibile che la pensione di un nonno debba mantenere dei giovani né che questi si adagino su una prospettiva di vita bassa».
Come se ne esce? «Penso che un ciclo di vita che funzioni è quello che permetta ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto».
I sindacati non ci stanno a toccare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «Sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: "Non voglio vincere contro mia figlia". Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte».
Monti ha detto che le nuove regole si applicheranno solo ai futuri assunti.
«Certamente penso ci voglia maggiore gradualità nell'introduzione delle nuove regole rispetto a quanto abbiamo fatto sulle pensioni».
Oltre ai giovani, le donne sono molto penalizzate. «Sono anche ministro delle Pari opportunità, che non considero figlie di un dio minore. Sulle donne bisogna invertire la logica delle compensazioni. Non vogliamo queste, ma la parità. Quando sento dire "io lavoro molto e poi devo anche occuparmi di mio marito e della casa" dico che le famiglie condividono ancora troppo poco i lavori di cura».
Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, dice che una manovra come la vostra poteva farla anche suo zio che non sa nulla di economia. «Lascio a Bonanni il suo giudizio. Vorrei invitarlo a discutere delle cose che stanno in questa manovra e penso di avere la presunzione di poterlo convincere che l'equità c'è, magari non quanto lui vuole, e il rigore c'è, e non ne potevamo fare a meno, pena la messa a rischio dei risparmi degli italiani e il non pagamento delle tredicesime».
Ha avuto tempo di occuparsi anche della sicurezza del lavoro? In Italia ci sono ancora troppe morti bianche. «Non ci può essere tolleranza soprattutto in una fase di crisi dove magari qualcuno può pensare che è meglio un lavoro anche non sicuro che niente. Agli ispettori del ministero ho detto che devono andare nelle imprese come amici e collaboratori ma anche con intransigenza piena».
Le sue lacrime sulla perequazione delle pensioni hanno fatto discutere. «È stata una commozione dovuta alla tensione. Può sembrare che io sia una donna dura, ma non è così. È successo che quando dovevo dire la parola sacrifici mi si è soffocata in gola, anche perché in quel momento ho pensato ai miei genitori, che di sacrifici ne hanno fatto molti».

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Pietro Ichino: articolo 18 e mercato del lavoro duale

Articolo di Stefano Feltri  pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 18 dicembre 2011
Il governo Monti presto costringerà il Pd a scegliere da che parte stare. Con chi vuole difendere le tutele esistenti - a cominciare dall`articolo 18 - o con chi le vuole ripensare per garantire più diritti a chi oggi è fuori dal sistema, come i giovani precari e le partite Iva. "Non credo alla licenziabilità che produce lavoro", ha detto ieri l`ex ministro del Welfare Cesare Damiano al Fatto. Gli risponde Pietro Ichino, senatore Pd, giuslavorista. Le sue posizioni sono state finora minoritarie nel Pd, ma ora sembrano coincidere con la linea del governo.
Professor Ichino, il premier Monti ha già detto che, chiusa la manovra, una delle priorità sarà la riforma del mercato del lavoro. Cosa si aspetta?
Convocherà partiti, sindacati, associazioni rappresentative di parti sociali interessate e dirà loro: "Dobbiamo adempiere entro maggio l`impegno con l`Unione europea: per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, dobbiamo emanare una disciplina che sia applicabile davvero a tutti, per voltar pagina rispetto alla situazione attuale di apartheid fra protetti e non protetti". E dobbiamo farlo senza accollare, almeno per ora, maggiori costi allo Stato. Fermi questi punti, chiunque abbia buone idee sul come fare, le metta subito sul tavolo.
Cesare Damiano, sul Fatto di ieri, dice che queste sono sue posizioni personali e non del Pd.
Il discorso programmatico di Monti ha degli evidenti punti di contatto con il mio progetto Flexsecurity. E dal maggio 2010 il Pd ha preso le distanze da questo progetto. Ma quando, a gennaio, il governo indicherà quei punti fermi della riforma, il Pd non potrà esimersi dal dire come intende risolvere il problema.
Damiano l`ha detto: non è un problema di disciplina dei licenziamenti, ma solo un problema di costi. Occorre aumentare il costo del lavoro precario ed estendere a tutti gli ammortizzatori sociali.
Per gli ammortizzatori. sociali, occorre anche dire dove si reperiscono i fondi. Il mio progetto risolve questo problema a costo zero per lo Stato, utilizzando meglio una parte dei fondi che oggi vengono sperperati in cassa integrazione a zero ore e a fondo perduto, per estendere a tutti un trattamento speciale di disoccupazione; e chiedendo alle imprese di farsi carico di un trattamento complementare di disoccupazione per i lavoratori che licenziano.
Lei sostiene che riformare il lavoro implica comunque una revisione della normativa sui licenziamenti. Che nel dibattito pubblico diventa "cambiare l`articolo 18". Ma Damiano obietta: non si può abbassare le difese contro i licenziamenti in un momento di crisi come questo.
Il mio progetto non le abbassa affatto: non le tocca proprio. La riforma riguarda soltanto i nuovi rapporti che si costituiranno da qui in avanti. Per i quali non abbassa le difese, ma le rende più efficaci e soprattutto più adatte ad applicarsi davvero a tutti. E proprio in una situazione di gravissima incertezza, come questa, che le imprese sono più riluttanti ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato e con vincoli forti al licenziamento. È proprio ora che una disciplina più flessibile è indispensabile per facilitare le assunzioni a tempo indeterminato.
Una delle perplessità sul suo progetto è che l`assicurazione per chi perde il lavoro sarebbe a carico dell`impresa. Con un aumento del costo del lavoro.
Non ci sarebbe un aumento del costo del lavoro. Oggi le imprese italiane, quando hanno necessità di sciogliere uno o più rapporti di lavoro per ragioni economiche od organizzative, affrontano un ritardo tra i due e i sei anni, a seconda delle dimensioni: un costo molto rilevante, anche se non è contabilizzato come tale. La proposta è questa: risparmiate quel costo e utilizzate una parte del risparmio per il trattamento complementare di disoccupazione a favore dei lavoratori licenziati. I costi di mercato della parte restante del trattamento, cioè dei servizi efficienti di outplacement e di riqualificazione mirata può essere coperta agevolmente dalle Regioni, attingendo anche ai contributi del Fondo Sociale Europeo.
Ma chi garantisce che le imprese non continuino ad assumere i nuovi dipendenti con la partita Iva, o con altri sotterfugi? 
Nel nuovo regime non occorreranno ispettori, avvocati e giudici per accertare il lavoro subordinato, come accade oggi. I dati rilevanti perché si applichi integralmente il nuovo diritto del lavoro emergeranno direttamente dai tabulati dell`Erario o dell`Inps: carattere continuativo del rapporto, monocommittenza, reddito medio-basso del lavoratore.
Il Pd rischia di spaccarsi sul lavoro? C`è chi parla di scissioni.
No. Accadrà soltanto che l`iniziativa decisa del governo su questo terreno costringerà il Pd a una nuova riflessione approfondita. Occorrerà chiedersi, per esempio, se sia davvero meglio il periodo di prova allungato a tre anni proposto da Damiano, oppure una regola che faccia crescere gradualmente l`indennizzo a favore per il lavoratore già dopo sei mesi di rapporto. Se sia meglio l`attuale situazione in cui l`articolo 18 si applica a meno di metà della forza-lavoro e l`altra metà è totalmente scoperta; oppure la mia riforma, che estende l`articolo 18 a tutti per la parte in cui esso serve davvero, cioè la repressione delle discriminazioni, e dà a tutti un protezione di livello scandinavo contro il licenziamento per motivi economici.
In caso il governo presenti una riforma ispirata al suo modello, su quali sponde può contare, tra Pd e Pdl?
Al Senato, una larga maggioranza del gruppo Pd sostiene il mio progetto. Tutte le componenti del Terzo polo lo hanno fatto proprio. E anche il Pdl è sostanzialmente disponibile. Già un anno fa il Senato si è pronunciato a larghissima maggioranza a favore di una mozione di Rutelli che impegnava il governo a varare una riforma modellata sul mio progetto. E anche alla Camera, credo che quando si entrerà nel merito della riforma si vedrà che le obiezioni "di sinistra" non riguardano, in realtà, questo progetto: si riferiscono a qualche cos`altro, che non è all`ordine del giorno.
La Cgil di Susanna Camusso potrebbe cercare una nuova grande battaglia per ritrovare un po` di compattezza.
Non lo credo proprio. Ce la vede, lei, la Cgil a fare le barricate contro una riforma che non tocca i lavoratori regolari stabili, e a tutti i new entrant offre un rapporto a tempo indeterminato, con articolo 18 contro le discriminazioni e una protezione di livello scandinavo su tutti gli altri fronti?

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sabato 17 dicembre 2011

Urbanistica: Verona e Firenze a confronto

Il Partito Democratico di Verona ha organizzato un incontro sul piano urbanistico di Verona e Firenze. Tale evento ha messo a confronto lo sviluppo urbanistico di Firenze e Verona.
L’incontro-confronto è stato possibile grazie alla partecipazione del presidente della commissione urbanistica del Comune di Firenze Mirko Dormentoni.
Il tema dell'incontro è stato lo sviluppo urbanistico delle città, mettendo a confronto quanto realizzato dall'amministrazione comunale di Firenze che ha programmato il suo piano urbanistico secondo il concetto dei "volumi zero" contrariamente al comune di Verona, il quale prevede una cementificazione degli spazi liberi ed uno sfruttamento del suolo molto sproporzionato rispetto alle esigenze della città. Infatti, Verona presenta una contraddizione tra l’incremento demografico della città molto contenuto e la possibilità di costruire  non allineata allo sviluppo della città del piano degli interventi. Risultato di tale contraddizione sono le migliaia di case sfitte.
“Volumi zero, ha spiegato Dormentoni, è un concetto molto attuale soprattutto all'estero ma in Italia presente solo in pochi casi. Esso presuppone un uso più attento del territorio. A Firenze, ad esempio, volumi zero significa che nessuna area vuota potrà essere trasformata in area edificabile, si punta invece al massimo recupero delle aree degradate o di vecchia edificazione. Il Piano strutturale di Firenze ha infatti stralciato 140.000 mq previsti dal vecchio PRG. Soprattutto, volumi zero significa "città nella città" ovvero città compatta e recupero dell'esistente. La riqualificazione di Firenze punta al miglioramento della qualità della vita e alla sostenibilità economica e culturale: una pianificazione urbanistica che legge le necessità di oggi ovvero, minore cementificazione e salvaguardia del verde”.
Si riportano i dati sulla situazione urbanistica di Firenze:
- Il piano strutturale di Firenze prevede superfici commerciali massime di 2.500 mq, pari a piccoli supermercati, molto lontane rispetti ai megacentri commerciali previsti a Verona
- ogni intervento di edilizia residenziale deve prevedere una quota di edilizia sociale non inferiore al 20% della superficie;
- laddove gli interventi di riqualificazione proposti su aree degradate non si integrino con l'ambiente urbano cresciuto attorno, l'area viene automaticamente ceduta a titolo gratuito al Comune che la trasforma a verde e che poi ricompensa il proprietario mediante perequazione con un'area più appropriata;
- per approvare il suo Piano strutturale, Firenze ha visto almeno 42 riunioni della commissione urbanistica e decine di assemblee sul territorio.
"Il confronto con Firenze avviene nei giorni in cui in commissione urbanistica del Comune di Verona si stanno esaminando le osservazioni al Piano del Sindaco che invece esprime un concetto opposto rispetto alla filosofia della pianificazione fiorentina, afferma Stefano Vallani, segretario cittadino Pd - questa amministrazione comunale ha stravolto il Pat eliminando la linea rossa che consentiva lo sviluppo della città compatta. Ha sviluppato un Piano degli interventi che invece di preservare la città andrà ad aggredire il territorio in tutte le circoscrizioni con concessioni ai privati al limite dell'immaginazione. Il tutto a svantaggio della vivibilità dei quartieri e della crescita sostenibile e responsabile della città. “Non esistono, conclude Vallani, più alibi per l'amministrazione ed emerge chiaramente, se ce ne fosse ancora bisogno di ricordarlo, come a Verona vince la logica degli affari di bottega anziché quella di guardare al futuro per consegnare al domani una città più vivibile e più qualificata".
Il piano degli interventi predisposto dalla Giunta Tosi, se realizzato, incide sulle caratteristiche di Verona che sono molto apprezzate dai cittadini e dai turisti. Sconvolgere la bellezza, la vivibilità e lo sviluppo moderato di Verona significa costruire un’altra città, sicuramente non gradevole ed oppressiva.

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venerdì 16 dicembre 2011

Federico Testa: politica energetica nel nostro paese

intervista a Federico Testa* a cura di Antonino Leone in corso di pubblicazione su Sistemi e Impresa
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire?
Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate, pur in un quadro –relativamente ai Paesi OECD- di sostanziale costanza della domanda, a fronte invece di importanti trend di crescita relativi al resto del mondo (cfr all. 1 relativo alle tendenze della domanda globale di energia e all. 2 relativo ai diversi scenari di domanda elettrica nel nostro Paese). A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, quali dovrebbero essere le principali linee di intervento (in ordine di priorità)?
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora è importante procedere sulla linea di sviluppo delle fonti rinnovabili, “aggiustando il tiro” così da:
- ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- costruire un “percorso di sviluppo” delle fonti rinnovabili che consenta di massimizzare l’utilità degli incentivi, cogliendo fino in fondo i benefici derivanti da curve di apprendimento estremamente significative; in altre parole, cercando di approfittare della diminuzione continua e veloce dei costi di produzione per unità di energia prodotta;
- consentire l’incentivazione di impianti che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sè speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- favorire l’uso termico delle fonti rinnovabili, che può contribuire significativamente all’aumento dell’efficienza ed alla costruzione di una filiera energetica italiana;
- sviluppare l’uso diffuso delle biomasse. La disponibilità complessiva di biomasse in Italia potrebbe coprire fino al 14% della domanda energetica interna. L’attuale produzione di energia da biomasse in Italia è pari a quasi il 3% del consumo globale distribuito in energia elettrica, energia termica e in biocarburanti. Le stime del GSE prospettano la possibilità di raggiungere nel 2020 una produzione annua tre volte superiore.
- collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese.
E quanto alle fonti “tradizionali”? Quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sé vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- nucleare: la prospettiva del ritorno all’uso di questa tecnologia nel nostro Paese era già di per sé resa estremamente difficile –al di là delle questioni di merito- dall’approccio scelto dal Governo. La teorizzazione dell’imposizione della scelta da parte del Governo centrale, il mancato coinvolgimento delle amministrazioni locali (cfr il contenzioso con le Regioni) e delle popolazioni, i ritardi nell’emanazione dei provvedimenti, i distinguo e gli opportunismi dei Governatori di centro destra (favorevoli in teoria, ma tutti contrari alla localizzazioni di centrali nei loro territori, con le motivazioni più fantasiose e prive di fondamento logico) le beghe di potere sulle nomine all’Agenzia della Sicurezza, il suo mancato finanziamento dopo mesi (facciamo le riunioni al bar, confessa il presidente) sono la dimostrazione di un approccio più legato alla retorica del “governo del fare” che alle scelte operative concrete, ed hanno reso non credibile questa prospettiva prima che l’incidente di Fukushima costringesse nei fatti il mondo intero a riconsiderare fin dalle basi il tema della sicurezza legata all’uso della tecnologia nucleare.
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti (ulteriormente aumentato a seguito delle vicende del Nord Africa), alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima legati a quelli del petrolio ed in tendenziale crescita (soprattutto se le scelte in tema di abbandono del nucleare finiranno per “assorbire” la crescita dell’offerta conseguente allo sviluppo dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato interno (non pienamente concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica), elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
Ma quindi cosa si può dire a proposito del costo di produzione? Da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione. In proposito, la scelta del Governo italiano di non puntare sulla costruzione di processi di coinvolgimento, quanto piuttosto su logiche autoritarie e centralistiche, già da prima della scelta di moratoria suscitava non pochi dubbi;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
Che ruolo giocano le reti di trasporto? se l’energia fosse prodotta lì dove viene utilizzata, non ci sarebbe evidentemente bisogno di reti di trasporto. Ma questo non avviene, per molte ragioni (tecniche, geografiche, storiche, legate ai processi economici e sociali di ciascun territorio). Allora lo sviluppo della rete può contribuire ad eliminare alla base eventuali rendite di posizione, mettendo in concorrenza tra loro impianti di territori diversi, mandando fuori mercato gli impianti più costosi ed obsoleti e consentendo così un costante miglioramento dell’efficienza del parco di generazione. Non diversamente nel caso del gas, là dove per esempio potrebbe essere inefficiente localizzare i rigassificatori al sud a fronte di consumi concentrati al nord (i produttori risparmiano un giorno di nave gasiera ma poi si dovrebbero raddoppiare la rete di trasporto e relativi contro flussi sud-nord). Poiché i costi relativi alla gestione di tutto questo, in ogni caso, li pagano due volte i consumatori, vuoi con le tariffe finalizzate allo sviluppo delle reti, vuoi con le bollette in ragione delle congestioni che si vengono a creare nelle divisioni/separazioni del mercato, è evidente l’interesse collettivo alla individuazione di un “punto di equilibrio” che minimizzi i costi sociali. Emerge quindi chiaramente che qualsiasi strategia di produzione energetica non può prescindere dall’affrontare contestualmente il nodo reti, in modo da far procedere in parallelo le due cose.
Ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi)? Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
Per finire, quale deve essere l’assetto di mercato futuro? il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector e stoccaggi virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale, ad iniziare dalla reale terzietà delle infrastrutture di trasporto. Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti.

* Federico Testa è docente di Economia e gestione dell’impresa presso l’Università di Verona, parlamentare del Partito Democratico e membro della commissione attività produttive.

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mercoledì 14 dicembre 2011

Guido Papalia e Guido Melis: corruzione e criminalità

L’incontro, organizzato dal Partito Democratico di Verona, è riuscito per la partecipazione attenta ed attiva dei cittadini veronesi. Gli argomenti molto impegnativi sono stati affrontati dai relatori con molta efficacia ed hanno suscitato l’interesse dei convenuti.
E’ intervenuto Vincenzo D’Arienzo, segretario del PD di Verona, che ha ringraziato i partecipanti ed ha sottolineato i pericoli di infiltrazione della criminalità organizzata a Verona a causa degli investimenti, di cui è interessato il territorio scaligero. Per tale motivo ha richiesto a tutta la classe politica molta attenzione ed ha proposto un accordo con le istituzioni al fine di respingere eventuali fenomeni criminali che potrebbero manifestarsi.
L’incontro è stato presieduto da Franco Bonfante, vice presidente del Consiglio Regionale Veneto, il quale ha ricordato i fenomeni criminali che hanno interessato la Provincia di Verona ed il disegno di legge per disciplinare i rapporti tra la Regione e le lobby, il quale è stato sabotato dall’attuale maggioranza di centro destra in Regione. Bonfante ha informato i presenti che il gruppo regionale del PD sta preparando un disegno di legge sulla prevenzione del crimine organizzato e mafioso.
Guido Melis, deputato del Pd della commissione Giustizia ma storico di professione, ha iniziato il suo intervento con una memoria d’altri tempi. Nel 1913 – ha detto – capitò ad Attilio Brunialti, eminente consigliere di Stato e amico di Giolitti, “uno di quegli incidenti che raramente si ripetono”: “gli fu intestata una casa senza che ne fosse a conoscenza”. L’episodio – ha spiegato Melis – si inquadrava nello scandalo del Palazzo di giustizia romano (il cosiddetto “palazzaccio”) e Brunialti era accusato di aver presieduto una commissione arbitrale favorendo l’impresa che poi gli avrebbe …intestato la casa. Scoppiato il caso, il presidente del Consiglio di Stato propose a Giolitti di mettere tutto a tacere in cambio delle dimissioni del Brunialti. Ma Giolitti rifiutò. Chiese e pretese la commissione di disciplina e l’allontanamento del reo dal Consiglio di Stato. Episodio istruttivo – ha sostenuto Melis - , che denota una sensibilità della politica verso la correttezza amministrativa che in tempi più recenti si è andata molto attenuando.
Secondo Melis al dilagare della corruzione concorrono alcuni fattori strutturali: in primo luogo la soppressione o quasi dei grandi corpi ispettivi dell’amministrazione, in grado in passato di intervenire istantaneamente senza attendere l’eventuale iniziativa di un giudice e la condanna penale; e in secondo luogo la fine dei corpi tecnici (a cominciare da quelli preposti alle opere pubbliche) che garantivano un tempo allo Stato di poter valutare minuto per munito la congruenza degli appalti e lo stato di avanzamento delle opere pubbliche. Melis ha molto insistito sul fatto che la lotta alla corruzione ha successo se si esprime con misure preventive , e non meramente repressive. Occorre innanzitutto ripristinare una opinione pubblica attenta, che davvero si indigni dinnanzi alla corruzione (il berlusconismo, in questo senso, ha fatto dei disastri, indebolendo molto queste autodifese del corpo sociale). Ma bisogna pure agire sul contesto generale nel quale la corruzione matura: la politica deve stare più distante dall’amministrazione, la pubblica amministrazione stessa dev’essere autorevole (reclutata per concorso, valutata secondo il merito), la dirigenza amministrativa deve avere una sua specifica capacità di resistere alle pressioni esterne degli interessi. Si tratta di lavorare con una legislazione adeguata ma soprattutto con una prassi costante, ricostruendo mattone dopo mattone l’edificio della credibilità dell’apparato pubblico. “La scure del magistrato è spesso indispensabile – ha concluso Melis -, ma non può sostituire il bisturi tempestivo della buona e corretta amministrazione, che interviene subito e elimina il fenomeno corruttivo al suo nascere”.
Guido Papalia, procuratore generale della Corte di Appello di Brescia, ha dichiarato che, come espressamente affermato in vari strumenti internazionali che sollecitano l'impegno di tutti gli Stati contro tale forma di criminalità, “la corruzione è una "piaga insidiosa" che, tra l'altro, minaccia la democrazia, cagiona gravi danni economici e aiuta lo sviluppo della criminalità organizzata. Questa mala pianta oggi è molto diffusa nel nostro paese e alligna anche a Verona e viene percepita come una "tassa" o un "pizzo" ingiusto e insopportabile dai cittadini”.
“Se all' epoca della c.d. "tangentopoli", ha spiegato Papalia, la corruzione era stata regolamentata e gestita direttamente dai partiti che amministravano la cosa pubblica e facevano parte con i propri rappresentanti legali dei c.d. "comitati d'affari", cittadini che imponevano le tangenti e le distribuivano tra le varie rappresentanze a seconda del peso politico di ciascun partito e, all'interno di ogni partito, a seconda del peso delle varie correnti, oggi tale attività criminale e opera di personaggi singoli che agiscono come "cani sciolti" che si fanno appoggiare da poteri occulti, preesistenti o appositamente creati (P3, P4, ecc.), e che, purtroppo, riescono ad acquisire molto potere e ad inquinare dall'interno i gangli più alti dell'apparato politico”.
“Se è certamente importante, continua Papalia, un intervento sul versante preventivo/amministrativo, secondo le linee tracciate dall'on. Melis, è altrettanto urgente e necessaria una riforma sul versante repressivo/penale. Come già accade in molti altri paese europei e come è espressamente raccomandato da molte convenzioni internazionali, deve essere prevista la punizione anche di chi funge da intermediario facendosi dare soldi o altri utilità per influire sul comportamento di un pubblico ufficiale (c.d. traffico di influenze) e di chi vende la propria funzione venendo, iscritto al cosiddetto "libro paga", in violazione del principio costituzionale secondo cui la pubblica funzione deve essere esercitata con disciplina e onore, indipendentemente dal compimento di un determinato atto di ufficio che, spesso, è difficilmente individuabile”.
“Altrettanto importante, conclude Guido Papalia, è una rivisitazione del reato di abuso di ufficio che consenta di intervenire più efficacemente in tutti i casi di conflitto di interessi che si verificano quando, come sempre più spesso accade, il pubblico amministratore è anche imprenditore o affarista, nonché una reintroduzione come fattispecie penale effettivamente sanzionata, del reato di falso in bilancio. Una particolare attenzione deve essere, poi, rivolta da chiunque ha responsabilità politico/amministrative ai tentativi di infiltrazione mafiosa nella gestione della cosa pubblica. Se fino a qualche anno fa l'intervento diretto della mafia nella gestione degli affari politico/amministrativi sembrava avvenire esclusivamente nelle regioni del sud dove la mafia e tradizionalmente ben radicata, oggi, come hanno dimostrato recenti indagini della magistratura sull'asse Milano Reggio Calabria, tale pericolo è presente anche in molte zone del nord Italia”.
“L’Italia pur rimanendo la settima potenza industriale nel mondo, afferma Antonino Leone (responsabile PA del PD di Verona), presenta fattori di debolezza strutturale misurati e valutati da organismi internazionali: alto livello di corruzione, alta opacità (bassa trasparenza), il ranking più basso per la competitività tra i paesi del G7. Inoltre, presenta alcuni fenomeni che sembrano incontrollabili: - l’evasione fiscale con un imponibile evaso ogni anno di circa 270 miliardi e un’imposta evasa di circa 125 miliardi; - l’economia criminale che fattura il 10% del Pil che ammonta a circa 100-135 miliardi con una imposta evasa di circa 63 miliardi”. “Fenomeni questi, continua Antonino Leone, che possono essere combattuti adeguatamente anche con uno scambio tra i cittadini e le istituzioni: - Meno privacy per i cittadini e più trasparenza per lo Stato; - Meno riservatezza da parte delle Istituzioni e più trasparenza a favore dei cittadini. Il primo punto consente allo Stato di utilizzare l’informazione analitica attraverso l’elaborazione di dati ed informazioni per contrastare l’evasione fiscale e l’economia criminale (flussi di pagamento, dichiarazione fiscale). Il secondo consente ai cittadini di controllare in modo costante l’operato degli amministratori e di partecipare con proposte ed interventi al fine di migliorare l’erogazione dei servizi, eliminare i costi inutili e gli sprechi che non ci possiamo più permettere (performance, indicatori) e recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini. Occorre riorganizzare controlli mirati ed adeguati che, basandosi sulle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, consentano allo Stato di assumere decisioni ed intraprendere azioni efficaci e di creare capacità distintive per combattere il fenomeno della corruzione e della criminalità ed un vantaggio competitivo nei confronti della criminalità organizzata”.
“Il Partito Democratico di Verona, conclude Antonino Leone, è impegnato a rimuovere gli ostacoli di natura culturale e creare nuove prospettive affinché la cultura della franchezza, della sincerità e della trasparenza possa affermarsi nel sistema politico e nelle enti locali della Provincia”.
Dopo le relazioni introduttive sono stati numerosi gli interventi dei partecipanti che hanno posto dei quesiti e chiesto chiarimenti ai relatori, i quali hanno risposto con completezza e disponibilità. Sonia Todesco, dirigente della Cgil, ha sottolineato gli ostacoli insormontabili che si incontrano nel sistema pubblico nell’affrontare il problema della corruzione in particolar modo da parte dei dirigenti e Gabriella Dimitri, dirigente dell’Azienda Ospedaliera di Verona, ha espresso l’urgenza di ripristinare i concorsi pubblici e la valutazione delle competenze nel processo di selezione delle risorse umane nel settore della sanità.

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