martedì 31 gennaio 2012

Eugenio Scalfari controreplica a Susanna Camusso

Articolo di Eugenio Scalfari pubblicato su La Repubblica il 31 gennaio 2012
Mi aspettavo una risposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, al mio articolo di domenica che si apriva con una lunga citazione da un'intervista che Luciano Lama ci dette nel gennaio del 1978. Me l'aspettavo e la ringrazio vivamente di avercela inviata. Avevo anche deciso che non l'avrei commentata poiché speravo che - pure ribadendo i punti di vista del sindacato da far valere al tavolo del negoziato con il governo - avrebbe dimostrato d'aver capito quale sia la situazione attuale nella quale si trova l'economia dell'Italia, dell'Europa e di tutto l'Occidente
L'intervista con Lama da me citata poteva essere di grande insegnamento: un dirigente sindacale metteva l'interesse generale al di sopra del pur legittimo "particulare" e faceva diventare il sindacato un protagonista attraverso una politica di sacrifici che andavano dalla licenziabilità alla moderazione sindacale, alla riduzione della cassa integrazione, con la principale finalità di far diminuire la disoccupazione e aprire l'occupazione alle nuove leve giovanili.
Purtroppo non ho trovato, nella risposta della Camusso, l'intelligenza politica che in altre recenti circostanze aveva dimostrato.
È possibile che la sua rigidità su tutti i piani della discussione sia una tattica negoziale, ma temo di no. La Camusso sa che il governo tenterà di arrivare a un accordo, ma se la controparte sindacale dicesse no su tutti i punti, andrà avanti comunque perché la riforma del mercato del lavoro è un tassello essenziale del mosaico che il governo sta componendo.
Ogni tattica negoziale è quindi inutile, il tempo a disposizione è limitato, la crisi e la recessione sono ancora tutt'altro che domate. Non di tattica sindacalese c'è bisogno, ma di strategia politica e realistica. Perciò risponderò alla lettera del segretario della Cgil; servirà almeno a chiarire alcuni aspetti del problema che mi sembra siano sfuggiti alla sua attenzione. La Camusso sostiene che l'elemento dominante della crisi sta nell'occupazione precaria e nella disoccupazione.
Che il precariato sia un fenomeno deprecabile che va affrontato con energia e priorità è una verità ammessa da tutti. Il governo Prodi del 2007 lo poneva al primo posto del suo programma, anche se non riuscì a ottenere alcun risultato: era un governo con due voti di maggioranza e poteva far ben poco. Ma il governo Prodi del 1996, che aveva ben altra forza politica, fu quello che introdusse la flessibilità del lavoro con i provvedimenti caldeggiati dal ministro Treu.
Dunque il precariato è un male, la flessibilità un bene in un'economia aperta e globalizzata. Il Lama del '78 già lo diceva a chiare lettere, era uno dei punti essenziali dell'intervista da me citata.
Il precariato non si sconfigge abolendo la flessibilità perché la flessibilità, se è ben strutturata attraverso una riforma dei contratti, rappresenta l'alternativa al precariato. La Camusso dovrebbe saperlo e aprirsi a questo discorso, non arroccarsi.
Ma se è vero che il precariato è un male (ed è certamente vero) non è invece vero che il precariato sia la causa della crisi. Qui la Camusso sbaglia radicalmente. Il precariato e la disoccupazione sono gli effetti della crisi insieme alla recessione e alla "stagflation", ma le cause sono del tutto diverse.
Le cause sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia. L'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva.
Dice la Camusso che il mondo attuale è molto cambiato rispetto a quello di Lama. L'ho detto anch'io domenica scorsa e del resto è ovvio che sia cambiato, ma in che modo è cambiato? Nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell'inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell'Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell'Europa opulenta.
I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l'invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all'estero interi settori delle loro lavorazioni? L'esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?
Difendere i diritti sindacali è sacrosanto, dare battaglia per i diritti di rappresentanza anche ai sindacati che non hanno firmato i contratti è più che giusto, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è una sciagura.
Quanto al debito, è un dato di fatto che i suoi nodi vengano inevitabilmente al pettine dopo una o due generazioni ed è quanto sta accadendo. La recessione - come il precariato - non è causa della crisi ma effetto. Se la fiducia scompare non è colpa della speculazione. La speculazione, gentile Susanna, gioca indifferentemente al rialzo come al ribasso. Se scompare la fiducia gioca al ribasso e finché la fiducia non torna il ribasso ha la meglio.
Il ribasso ha come effetto un costo del debito insostenibile. Lei, cara Camusso, sostiene che i lavoratori hanno già dato. E le famiglie che hanno investito in titoli del debito pubblico italiano come pensa che stiano? Il 17 per cento di quel debito pubblico è posseduto da privati cittadini italiani, il 40 per cento da banche italiane. Lei pensa che con queste cifre si possa scherzare?
Nel 1978, quando Lama proponeva ai lavoratori una politica di austerità e sacrifici, la situazione era certamente diversa; allora la Cina e le "tigri asiatiche" erano ancora addormentate. L'economia italiana non aveva problemi di questa portata. Eppure Lama riteneva che solo con una politica di sacrifici la classe operaia poteva aspirare alla guida morale e politica della società italiana.
Oggi si tratta di salvare il salvabile e di far valere il principio dei vasi comunicanti anche all'interno della nostra società.
Concordo pienamente con Lei, cara Camusso, sulla necessità di combattere le disuguaglianze. Questo nostro giornale ha fatto di questo tema uno dei punti essenziali del nostro discorso con la pubblica opinione. Libertà ed eguaglianza.
Con cautela. La libertà ha bisogno di regole, l'eguaglianza significa aprire al merito a pari condizioni di partenza.
Questa è la società aperta, con un fisco che redistribuisca il benessere con equità. Ma produrre benessere oggi è più difficile di prima e la libertà è l'altro principio fondamentale affinché il benessere sia prodotto.
Personalmente non mi sono mai commosso quando sentivo cantare Bandiera rossa, ma quando ascoltavo la Marsigliese, allora sì, sentivo qualcosa che si agitava nel mio animo.
Fu l'inno che celebrava i tre grandi principi dell'Europa moderna: libertà, eguaglianza, fraternità. Se il sindacato dei lavoratori li facesse propri, potrebbe ancora ridiventare (lo fu per molti anni) il protagonista della nuova modernità sapendo però che non si tratta d'un protagonismo indolore.
Lei parla d'una dose massiccia di intervento pubblico in economia. Ci vuole sicuramente l'intervento pubblico ma non è mai a costo zero. Bisogna che ci siano risorse. Bisogna che ci siano anche per una nuova ed efficiente architettura degli ammortizzatori sociali. La lotta all'evasione può dare risorse e può far diminuire la pressione fiscale. Le altre risorse possono derivare dalla lotta agli sprechi e ai privilegi.
Questo governo è impegnato al raggiungimento di questi obiettivi. La riforma del mercato del lavoro fa parte di questa strategia e non può esser fatta se non col vostro aiuto che, a mio modo di vedere, può esser dato con l'intento di farvi carico dell'interesse generale entro il quale la coesione sociale e il rispetto dei diritti dei lavoratori sono legittimi obiettivi.
"No taxation without representation" ma "no representation without taxation". Non è una metafora ma la realtà e scacciare dalla porta la realtà è impossibile perché rientrerà inevitabilmente dalla finestra. Luciano Lama questo l'aveva capito.

Risposta di Susanna Camusso a Eugenio Scalfari

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lunedì 30 gennaio 2012

Tiziano Treu e Paolo Nerozzi a Verona

Il Partito Democratico di Verona ha organizzato un incontro sul seguente tema:
Il Partito Democratico e la riforma del mercato del lavoro
L’incontro si svolgerà il giorno 3 febbraio 2012, alle ore 21,00, presso il Teatro San Giovanni Evangelista – Piazza del Quadrato, 2 - Verona

L’incontro è cosi articolato:
Saluti di Vincenzo D’Arienzo, segretario PD di Verona

Interventi di
Tiziano Treu, senatore e Vicepresidente della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale
Paolo Nerozzi, senatore e membro della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale
Nicola Baldo, Vice Presidente Confcommercio Verona
Michele Bertucco, Candidato Sindaco per la coalizione di centrosinistra

L’incontro è moderato da Diego De Carlo, Responsabile Lavoro – PD Verona

Il Partito Democratico pone al primo posto il problema dell’occupazione, considerando i parametri negativi della disoccupazione e di quella giovanile in particolare, del lavoro precario, della disoccupazione femminile e di coloro che non studiano e non lavorano.
Per i temi che verranno trattati e per la qualità dei relatori si ritiene l’incontro molto interessante ed utile per capire alcuni fenomeni negativi che esistono nel nostro paese che bisogna superare per realizzare un paese equo e solidale.

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domenica 29 gennaio 2012

Eugenio Scalfari scrive a Susanna Camusso

Articolo di Eugenio Scalfari pubblicato su La Repubblica il 29 gennaio 2012
Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l'obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.
La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d'una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione,hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti.  Sono sciocchezze perché in un'economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall'altra.
Qui il resto del postSe il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell'occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l'assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.
Alla base di tutto però c'è il problema dello sviluppo. Se l'economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio "particulare" in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un'alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell'avviare un'intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.
Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l'ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d'una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
Lama parlava in quell'intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l'elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei "servizi deviati" che facevano capo a Gladio e alla P2.
Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l'altra politica.
Chiedevano, e nell'intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.
Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell'82 e nell'84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell'84 la Federazione si ruppe. D'altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l'urto delle nuove tecnologie produttive e dell'economia globalizzata e finanziarizzata.
Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo - già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani - di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall'emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d'interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L'emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l'interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell'intervista sopracitata) che anteponga l'interesse generale del Paese al "particulare" delle singole categorie.
Perciò l'intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d'interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.
Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell'economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. "No taxation without representation", questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d'una società come la nostra dove l'85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell'Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.
I principali interessati al rinnovamento del Paese - ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato - sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l'interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l'equità impedisca la macelleria sociale.
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l'agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l'avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l'Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l'Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch'essi inesistenti dell'immensa platea dei migranti. Ecco perché l'agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall'emergenza e dalla necessità di farvi fronte.
Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell'economia italiana. Dipende dall'Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.
La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d'un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l'avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l'ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.

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Ripensare gli ammortizzatori sociali

Per rimuovere gli ostacoli ed i problemi del mondo del lavoro ed in particolare dei lavoratori che si trovano in specifiche condizioni occorre che il sistema degli ammortizzatori sociali sia trasparente ed equo rispetto alla valutazione aziendale ed allo status dei lavoratori.

Le aziende durante la propria vita effettuano interventi di riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione aziendale ed adeguano la pianta organica alla domanda dei consumatori al fine di adattarsi alle nuove esigenze e cambiamenti del mercato e riprendere il cammino della crescita e della prosperità. Più grave è la condizione dei lavoratori dipendenti da imprese che decidono di concludere l’attività imprenditoriale. Spesso le imprese che intraprendono tali interventi riducono la pianta organica risultando una base occupazionale nell’impresa inferiore a quella preesistente e, di conseguenza, una parte dei lavoratori rimane senza lavoro ed ha bisogno di tutele e sostegno.
Lo status dei lavoratori che si trova nelle condizioni descritte può essere classificato nel modo seguente:
1) Lavoratori che non lavorano per sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi aziendali temporanei (contrazione del mercato, intemperie stagionali). Superati tali eventi i lavoratori vengono integrati nel posto di lavoro. Tali lavoratori hanno diritto alla Cassa integrazione guadagni ordinaria;
2) Lavoratori che dal punto di vista formale mantengono il rapporto di lavoro con l’azienda ma non hanno alcuna sicurezza di rientrare nel posto di lavoro da cui sono stati esclusi. La sospensione dal lavoro avviene per ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione aziendale, crisi aziendale e procedure concorsuali. Tali lavoratori sono posti in Cassa integrazione guadagni straordinaria;
3) Lavoratori licenziati che sono costretti a trovare una nuova occupazione. Tali lavoratori hanno diritto all’indennità di disoccupazione o di mobilità ordinaria o lunga.
I casi indicati presentano degli elementi diversi e comuni rispetto alla status dei lavoratori (licenziati, sospesi) ed alle prestazioni a sostegno del reddito (requisiti, durata, importo della prestazione) di cui hanno diritto.
Il primo caso è interessato solo alle politiche del sostegno del reddito, in quanto superata la fase di temporanea crisi aziendale i lavoratori dovrebbero rientrare in azienda.
Il secondo caso è complicato in quanto i lavoratori pur rimanendo legati all’azienda dal rapporto di lavoro non hanno possibilità di rioccuparsi nella medesima azienda e spesso sono parcheggiati per diversi anni ed in alcuni casi oltre i limiti previsti dalle disposizioni vigenti al fine di assicurare una forma di sostegno del reddito. Il tempo di permanenza in tale situazione è definito inizialmente e può essere soggetto a proroghe spesso molto lunghe. I lavoratori che rientrano in questo caso hanno diritto ad una prestazione a sostegno del reddito.
Il terzo caso interessa i lavoratori licenziati, i quali ricevono soltanto un intervento a sostegno del reddito.
I lavoratori del secondo e terzo caso hanno bisogno di servizi di outplacement per riqualificarsi professionalmente e rioccuparsi. Tali servizi al momento non rientrano nelle tutele a favore dei lavoratori sospesi o licenziati.
Il primo ed il terzo caso sono trasparenti rispetto allo status dei lavoratori e, pertanto, si può intervenire con efficacia.
In tutti e tre i casi l’importo delle prestazioni a sostegno del reddito è troppo basso per garantire ai lavoratori una vita dignitosa.
Un moderno Welfare del lavoro, cosi come avviene in molti paesi europei, deve essere organizzato su tre fattori essenziali: - il sostegno del reddito in misura adeguata alle necessità del lavoratore e della sua famiglia (1°, 2° e 3° caso); - la riqualificazione professionale in base alle esigenze del mercato del lavoro al fine di trovare nuovi sbocchi occupazionali (2° e 3° caso); - la rioccupazione dei lavoratori licenziati (2° e 3° caso).
In Italia il sistema attuale degli ammortizzatori sociali è formato da numerose prestazioni, è diversificato per requisiti, importo e durata delle prestazioni ed incompleto perché non comprende tutti i servizi previsti da una politica attiva del lavoro efficace.
L’ammortizzatore sociale su cui maggiormente poggia la tutela dei lavoratori è la Cig, la quale permette ai lavoratori delle grandi imprese in crisi di ricevere una prestazione economica per un certo periodo di tempo.
I lavoratori delle piccole imprese non possono accedere alla Cig ed hanno diritto, possedendo i requisiti, all’indennità di disoccupazione di importo più basso e di durata più breve. Inoltre, occorre tenere presente che i lavoratori atipici non hanno diritto ad alcuna prestazione.
Tra i problemi da risolvere si menzionano: - l’allargamento della platea delle imprese tenute a versare i contributi per finanziare il Welfare del lavoro; - l’eliminazione dei falsi lavoratori autonomi (contratti atipici) e la loro inclusione tra i lavoratori dipendenti.
Il sistema di ammortizzatori sociali, il quale risale agli anni ’70, non rappresenta un quadro di interventi equo e omogeneo. Le modifiche e gli adeguamenti successivi non si sono posti la visione d’insieme del sistema ma l’adattamento ai singoli problemi che emergevano nel tempo.
La crisi economica è stata affrontata in Italia ricorrendo, dal 2009, alla Cig in deroga, estendendo l’ammortizzatore sociale alle imprese che non contribuiscono alla Cig e ad alcune fasce di lavoratori atipici.
La contraddizione del sistema si evince dall’esistenza di imprese che, cessando l’attività o delocalizzando all’estero la produzione, collocano i propri lavoratori in Cig.
Il sistema attuale produce inefficienza ed illegalità da parte di coloro che percepiscono le prestazioni a sostegno del reddito e svolgono lavoro in nero.
La recente riforma delle pensioni con l’innalzamento dell’età pensionabile non facilita il precedente rapporto di continuità tra gli ammortizzatori sociali e la pensione (mobilità lunga, prepensionamenti ecc.) e, quindi, occorre trovare altre soluzioni innovative che risolvano lo stato di sofferenza dei lavoratori e rendano produttive le risorse impiegate dallo stato.
Per ricondurre ad unità il sistema occorre tenere presente che lo status che accomuna i lavoratori è il non espletamento dell’attività lavorativa con tutte le conseguenze che ne derivano dal punto di vista delle tutele. Questa posizione a sua volta può essere classificata tra lavoratori sospesi e licenziati. Tale classificazione è utile per unificare gli ammortizzatori sociali in due categorie:
- Cassa integrazione guadagni per i lavoratori sospesi;
- Indennità universale di disoccupazione per i lavoratori licenziati.
Si potrebbe pensare di unificare gli ammortizzatori sociali in un’unica indennità universale di disoccupazione di importo adeguato, superando sperequazioni e lacune che l’attuale sistema presenta.
Occorre, inoltre, unificare gli ammortizzatori sociali nella parte che riguarda i requisiti, gli importi e la durata delle prestazioni. Gli importi delle prestazioni vanno aumentate ed adattate alle esigenze di vita dei lavoratori e la durata delle prestazioni va adeguata ai tempi degli altri paesi europei.
Il sostegno ai lavoratori effettuato in modo diversificato e con una pluralità di prestazioni per il medesimo evento (perdita del lavoro in modo temporaneo o definitivo) non sembra rispondere all’esigenza di equità sociale tanto avvertita nella società e di efficienza della spesa pubblica.
Ovviamente l’unificazione delle prestazioni a sostegno del reddito va accompagnata da servizi efficaci di riqualificazione professionale e di rioccupazione. I lavoratori che rifiutano i corsi di formazione professionale e le proposte di rioccupazione sono esclusi dall’erogazione delle prestazioni.
Mantenere in vita un sistema che eroga soltanto prestazioni economiche differenziate significa sostenere i lavoratori non in modo completo, rinunziando ad interventi che qualificano la spesa pubblica e rispondono alle esigenze dei lavoratori che vogliono continuare ad offrire il proprio contributo per aumentare la ricchezza del paese.
Per i motivi esposti condivido la proposta del Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, sugli ammortizzatori sociali (Cig ordinaria e disoccupazione) e quella del senatore Pietro Ichino di unificazione delle prestazioni di disoccupazione (90% del salario per il primo anno, 80% nel secondo e 70% nel terzo). Inoltre, la proposta del senatore Ichino prevede che la prestazione a sostegno del reddito venga integrata da servizi efficaci di riqualificazione professionale e di rioccupazione dei lavoratori licenziati.     
Occorre un cambio di paradigma per passare dalla tutela dei posti lavoro alla tutela dei lavoratori.

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Confronto sullo stabilimento Fiat di Pomegliano

lettera del senatore Pietro Ichino pubblicata il 24 gennaio 2012 su Corriere della Sera
Caro Direttore
venerdì mattina ho visitato in ogni reparto il nuovo stabilimento della Fiat di Pomigliano. Il pomeriggio dello stesso giorno, all'Università di Napoli, ho assistito all'intervento urlato di un gruppo di contestatori; uno dei loro slogan era «contro Marchionne e contro il precariato». Ho provato una stretta al cuore per l'inganno di cui quei ragazzi sono vittime. E per la responsabilità grave che tanta parte della sinistra italiana si assume demonizzando un insediamento industriale come questo.
Ho visto moltissime fabbriche metalmeccaniche; ma una come questa di Pomigliano non l'ho vista mai. Non mi riferisco all'esercito dei robot del reparto lastratura, che compiono interamente da soli il lavoro più pesante e pericoloso: il montaggio e la saldatura della scocca, la struttura della Panda. Mi ha impressionato molto di più il resto della fabbrica, dove a operare direttamente sono le persone. La prima cosa che mi ha colpito è stata l'assenza di rumore, l'ampiezza degli spazi, la distribuzione della luce, l'azzurro della rete dei vialetti, con strisce spartitraffico e passaggi pedonali, che attraversano le zone di lavoro; gli uffici con le pareti di cristallo collocati in mezzo al percorso del montaggio, quasi a sottolineare il superamento di ogni distinzione tra operai e impiegati. Poi il serpentone giallo: la nuova «catena» che catena non è più, collocata su di un largo nastro di parquet tirato a lucido, che si sposta lentamente, dove anche a me estraneo viene consentito di muovermi liberamente nei larghi spazi tra una postazione e l'altra.
Tutto è strutturato in funzione della persona che lavora: è la scocca ad abbassarsi o rovesciarsi, non le braccia ad alzarsi. I lavoratori, per lo più giovani, ragazzi e ragazze, tutti con una tuta bianca pulitissima, suddivisi in gruppi di cinque o sei e tra loro intercambiabili. Scelgo a caso quelli o quelle con cui parlare a tu per tu. Tutti mi dicono che la nuova organizzazione è meno pesante della precedente. La paga base mensile lorda di un quinto livello, qui, è sopra i 1.700 euro, quasi 1.550 per un terzo livello; poi ci sono il premio e gli scatti; quando entrerà in funzione il terzo turno, a questi si aggiungerà il compenso per l'ora e mezza media settimanale di straordinario e la maggiorazione per il lavoro notturno.
Uscito di lì, attraversando le vie sdrucite della periferia di Napoli, mi frulla per la testa la frase più benevola che ho sentito dalle mie parti politiche riguardo a questo stabilimento due anni fa, quando si discuteva del progetto «Fabbrica Italia»: «Sì, purché sia un'eccezione». Ma perché questa diffidenza? Solo per le due deroghe marginali che il progetto comportava rispetto al contratto collettivo nazionale, delle quali la più rilevante riguardava appunto la possibilità di un'ora e mezza di straordinario alla settimana? A me sembra che dovremmo, semmai, auspicare altri cento stabilimenti come questo per lo sviluppo del nostro Mezzogiorno, per rimettere in moto la crescita del nostro Paese. Altro che «un'eccezione»!
Oggi l'obiezione è che a Pomigliano si viola la democrazia sindacale, perché non viene riconosciuto il diritto della Fiom-Cgil a una rappresentanza in fabbrica. Questo è il risultato - conforme, peraltro, alla legge vigente - del rifiuto opposto dalla stessa Fiom alla firma di qualsiasi contratto collettivo applicato dalla Fiat. Cambiamo questa norma. Però l'attacco violentissimo contro il piano «Fabbrica Italia» è venuto molto prima che sorgesse il problema della rappresentanza sindacale. E la guerriglia giudiziaria contro il progetto, l'opposizione a che qualche cosa di simile a Pomigliano si faccia anche altrove, prescinde da questo particolare problema.
Si dice, ancora: «La Fiat non ha chiarito il suo piano industriale». Sarà; ma qui c'è un investimento colossale che sta dando lavoro per almeno quattro anni a migliaia di persone; e lavoro di alta produttività e qualità, relativamente ben retribuito. Chiediamo pure chiarimenti ulteriori sul futuro, ma qui c'è già qualcosa di chiarissimo per il presente, che stiamo disprezzando senza neppure degnarlo di uno sguardo (il sindaco di Napoli de Magistris ha rifiutato di visitare lo stabilimento!). Oltretutto, disprezzandolo, presentiamo a tutte le multinazionali che potrebbero essere interessate a investire da noi, un'immagine repellente del nostro Paese.
Ai ragazzi del centro sociale «contro Marchionne e contro il precariato» ho chiesto: non vi accorgete che, tolto Marchionne, vi resta solo il lavoro nei sottoscala controllati dalla camorra? Chi incita al rifiuto di un investimento come quello della Fiat-Chrysler su Pomigliano, da dove pensa che possa venire lo sviluppo del Mezzogiorno e la crescita di questo Paese?

Replica di Francesco Percuoco e delle rsu Fiom pubblicata il 26 gennaio 2012 su Corriere della Sera
Caro professore Ichino,
abbiamo letto la sua lettera sul Corriere della Sera e abbiamo pensato di rivolgerci a lei, dalle stesse colonne, nella speranza di non spezzare il filo del dialogo tra chi esprime opinioni diverse.
Innanzitutto, e non è per spirito polemico, vorremmo dirle che noi operai di Pomigliano eravamo già puliti, prima della nascita della newco.
Le confessiamo che abbiamo provato anche un po’ di fastidio nel leggere la sua descrizione della fabbrica: una location da spot, proprio come quello della nuova Panda, in cui si esalta la creatività di chi vi lavora mentre scorrono le immagini di un’operaia che si sveglia con il sorriso, prepara la colazione e il caffè (che beve, a proposito di immagini stereotipate, affacciata ad un balcone che ricorda quello di Eduardo in “Questi fantasmi”), accompagna serenamente i figli a scuola e poi attraversa la città, senza traffico, per recarsi a lavorare.
Una pubblicità, per definizione, deve essere accattivante: del resto, serve a vendere un prodotto. Ma viene da chiedersi, vivendo nella realtà e non nella pubblicità: ma a che ora arriva la signora al lavoro, dopo tutte quelle “pause”?
Caro Professore, noi sappiamo che la realtà è ben diversa e pensiamo che lei abbia una frequentazione saltuaria delle fabbriche. Lei ha avuto la fortuna di entrare in quella fabbrica, la maggioranza di noi lavoratori no. Sappiamo che molti, per la natura industriale del progetto, probabilmente non vi rientreranno. E’ un problema politico enorme, non le pare?
Così come un problema politico è la discriminazione ai danni dei lavoratori iscritti alla Cgil perpetrata dopo una sentenza esecutiva del Tribunale di Torino che condanna la Fiat per condotta antisindacale a Pomigliano e riconosce alla Fiom la possibilità di esercitare il suo ruolo sindacale, pur non avendo firmato l’accordo. In forza di una distorta interpretazione dell’articolo 19 dello statuto dei lavoratori, così come modificato dal referendum del 1995, le spieghiamo le mosse di Fiat (altro che “due deroghe marginali”): contratto aziendale sostitutivo del contratto nazionale con l’aggiramento (legale?) dell’articolo 2012 del codice civile; uscita da Confindustria per non essere vincolata ad accordi interconfederali; utilizzo della crisi e del possibile ridimensionamento della forza lavoro occupata, per selezionare i lavoratori da “riassumere”. Si fa sapere loro che chi è iscritto alla Fiom non sarà richiamato ed il gioco è fatto.
Le chiediamo: cosa ha da temere la Fiat? Sul serio possiamo pensare che il “manager dei due mondi” possa temere il “saldatore di Castelnovo ne’ monti”?
E se tutto fosse come da lei descritto, così bello (si lavora meglio, si guadagna di più, nessun rumore o puzza), quanto pensa durerebbe un sindacato che si porrebbe contro questa “città del sole”? Qual è la necessità di terremotare il diritto del lavoro per come si è consolidato nel nostro paese.
Vuoi vedere che la realtà è diversa da come appare ai suoi occhi di visitatore occasionale?
Le rivolgiamo un invito: venga a trascorrere qualche settimana con noi, provando a “leggere” la vicenda da quest’altra parte, non ricorrendo a stereotipi e luoghi comuni sul sud. Scoprirà, forse, anche le ragioni dell’amarezza di chi, per tenere aperto lo stabilimento, si è beccato le randellate sulla testa dalla polizia; che qualche pregiudizio negativo nei nostri confronti, inconsapevolmente, lei lo ha maturato; che abbiamo una dignità di lavoratori cui non intendiamo rinunciare. E che c’è un mezzogiorno che vuole svilupparsi, con un’idea diversa da quella di Marchionne, o di chi la pensa come lui, che non teme di confrontarsi.

Controreplica del senatore Pietro Ichino del 27 gennaio 2012
Caro Direttore, rispondo alla lettera dei rappresentanti Fiom di Pomigliano pubblicata ieri sul Corriere. C’è anche la versione della direzione aziendale, che nega la discriminazione, sostenendo che, semplicemente, gli ex-iscritti alla Fiom assunti nel nuovo stabilimento non si iscrivono più al loro vecchio sindacato. La spiegazione è plausibile, perché se fosse per la Fiom, la nuova fabbrica non sarebbe mai nata. Però, certo, può essere che le cose non stiano così. C’è un modo per verificarlo: il procedimento d’urgenza previsto dalla legge n. 125/1991, che consente al lavoratore di denunciare la discriminazione limitandosi a mostrare l’indizio statistico (com’è che, con tutti i ricorsi promossi dalla Fiom, di questo non si è vista traccia?). Quanto al riconoscimento della rappresentanza Fiom, la norma oggi in vigore (articolo 19 dello Statuto) priva di quel diritto il sindacato che non abbia firmato alcun contratto applicato in azienda. Considero anch’io sbagliata questa norma: tre anni fa ho presentato un disegno di legge (n. S-1872) per stabilire il principio che la coalizione sindacale maggioritaria può contrattare, anche in deroga rispetto al contratto nazionale, con efficacia estesa a tutti, e il sindacato minoritario può non firmare senza perdere il diritto alla rappresentanza riconosciuta. Ma la Fiom si opponeva anche a quella soluzione, sostenendo che il contratto nazionale dovesse rimanere intangibile. Sta di fatto che ora, con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale è accettata anche dalla Cgil; dunque le ragioni originarie dell’opposizione al contratto aziendale di Pomigliano sono cadute. Perché dunque ora la Fiom non firma quel contratto, se non altro per ottenere il diritto alla rappresentanza in fabbrica? Davvero vogliamo mettere in discussione un gioiello della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro come lo stabilimento di Pomigliano solo per un puntiglio sindacale? Propongo comunque una soluzione ragionevole: cambiamo la legge sulle rappresentanze sindacali e teniamoci lo stabilimento-gioiello. Almeno su questo la Fiom sarebbe d’accordo?

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martedì 24 gennaio 2012

Riforma degli ammortizzatori sociali

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato su Corriere della Sera il 24 gennaio 2012
La riforma degli ammortizzatori sociali è uno dei piatti forti del confronto fra governo e sindacati avviato ieri mattina. Il ministro Fornero ha proposto di ridisegnare l'attuale sistema di tutele caratterizzato da marcate sperequazioni e lacune. L'idea non è certo nuova: quasi tutti i governi dell'ultimo decennio hanno cercato di riformare gli ammortizzatori. Ma i tempi sembrano oggi maturi per fare sul serio.
Il sistema è oggi imperniato sulla cassa integrazione guadagni (cig), che consente alle grandi imprese in crisi (aziendale o settoriale) di tenere a casa i dipendenti, erogando loro parte della retribuzione per un periodo che può durare fino a 48 mesi. Quanti non possono accedere alla Cassa (ad esempio i dipendenti delle piccole imprese) hanno diritto, se perdono il lavoro, a un'indennità di importo più basso e di durata molto più breve. Non tutti i disoccupati riescono però a ottenere questa prestazione, soprattutto per mancanza di requisiti assicurativi: col risultato che l'Italia ha il record europeo di disoccupati privi di qualsiasi tutela.
Dagli anni Settanta in poi la cig è stata l'ammortizzatore sociale per eccellenza, molto apprezzato sia dalle imprese sia dai sindacati. La crisi scoppiata nel 2008 è stata fronteggiata principalmente tramite questo strumento: attraverso una serie di «deroghe», i cancelli della cig sono stati aperti anche alle piccole imprese e ad alcune fasce di lavoratori atipici. Nessun Paese europeo ha investito così tanto durante la crisi su questo tipo di schema e così poco sulle tradizionali indennità di disoccupazione. Il sistema delle deroghe ha consentito, è vero, di tamponare l'emergenza occupazionale, ma non può durare ancora a lungo. Non solo costa troppo, ma può diventare inefficiente e iniquo. Da un lato congela l'occupazione esistente anche in aziende o settori senza prospettive di recupero, dall'altro continua a lasciar scoperti un numero molto alto di outsider.
La proposta del governo è quella di correggere la situazione in due modi. Da un lato, riconducendo la cassa integrazione alla sua funzione originaria di sostegno a crisi aziendali temporanee, così come avviene in tutti i Paesi Ue. Dall'altro lato, creando un robusto «secondo pilastro» volto a erogare prestazioni di importo e durata europea a tutti i lavoratori che perdono l'impiego.
Il nuovo sistema andrebbe accuratamente raccordato con le altre riforme del mercato del lavoro, in particolare quelle sul contratto unico, sui servizi per l'impiego e sulle nuove forme di flessibilità in uscita previste per le imprese disponibili a sperimentare forme innovative di flexsecurity.
Le organizzazioni sindacali sono uscite dall'incontro di ieri esprimendo forti perplessità sull'approccio Fornero. Eppure gli orientamenti di riforma da loro stessi formulati nel documento unitario (encomiabilmente) portato all'incontro non sembrano affatto lontani da questo approccio: tutt'altro. È vero che il ridimensionamento della cig ridurrebbe il ruolo dei sindacati nella gestione delle crisi. Ma tale ruolo potrebbe essere recuperato ed anzi accresciuto tramite la contrattazione decentrata e la sperimentazione di schemi integrativi di welfare a livello aziendale o settoriale. Il terreno per un accordo c'è, il tempo stringe. Al Paese non servono polveroni polemici, ma riforme serie, efficaci e senza strappi.

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domenica 22 gennaio 2012

Giovani, precari e mercato del lavoro

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato su Corriere della Sera il 22 gennaio 2012
Con il pacchetto di liberalizzazioni approvato venerdì scorso, il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall’introduzione dell’euro. Al di là dei singoli provvedimenti, che vanno tutti nella giusta direzione, la cosa forse più importante è il messaggio politico che ne esce. Non è vero che «in Italia non si può fare»; non è vero che l’Italia è bloccata dalle corporazioni. In queste ore il governo viene attaccato da ogni parte: nelle strade, nelle telefonate dei capi delle categorie, che in piazza non vanno ma usano canali più occulti, e da domani anche in Parlamento. Non deve cedere, anche se venerdì qualche pezzo per strada si è perduto.
Ora però arriva un passo forse ancor più difficile: la riforma del mercato del lavoro. Al centro c’è una questione di equità fra padri e figli. E di equità tra cittadini protetti dai sindacati e cittadini coinvolti nelle liberalizzazioni. Una questione che il ministro Fornero -ricordando una frase di Luciano Lama, il leader della Cgil negli anni 70;- ha colto perfettamente. Riflettendo sul ruolo del sindacato in quel periodo, e quindi sui criteri che ispirarono la legislazione sul lavoro tuttora in vigore, Lama disse: «Noi, purtroppo, in un certo senso, abbiamo vinto contro i nostri figli». E non vale l’argomento che oggi i padri aiutano i figli all’interno della famiglia. Questo è vero, ma la famiglia non deve diventare un’istituzione che, lo voglia o no, è costretta a sostituirsi a ciò che dovrebbero fare lo Stato e il mercato. La riforma dei contratti di lavoro deve liberare i giovani da una dipendenza forzata dai loro padri e dalle loro madri.


Nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto più flessibile: il risultato, con buona pace di chi pensa che più flessibilità significhi più disoccupazione, è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte più persone lavorano. Il guaio è che la maggior flessibilità è stata ottenuta imponendo un costo elevato ai giovani, mentre i lavoratori più anziani continuavano ad essere protetti da contratti a tempo indeterminato. E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti (ecco un altro fattore di iniquità), protetti anche dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ne sancisce l’illicenziabilità per motivi economici. E se poi la loro azienda è in difficoltà li soccorre la cassa integrazione, un istituto sconosciuto alla gran maggioranza dei giovani.
Come mostrano Emiliano Mandrone e Nicola Massarelli sul sito www.lavoce.info, la precarietà involontaria (cioè i lavoratori a termine involontari, i finti collaboratori e gli individui non più occupati perché hanno concluso un contratto temporaneo e ne cercano un altro) coinvolgeva, prima della crisi, poco meno di quattro milioni di lavoratori, quasi tutti giovani.
Per loro il precariato non è una breve parentesi nel percorso verso un lavoro stabile, è una «trappola»: nemmeno uno su tre riesce a passare a un contratto a tempo indeterminato. Il motivo è che, per un’impresa, passare un lavoratore dalla precarietà ad un contratto a tempo indeterminato significa renderlo illicenziabile, a causa appunto dell’articolo 18, e questo comporta un rischio troppo elevato per l’impresa stessa. Quindi i giovani rimangono precari troppo a lungo, talvolta a vita. E quando arriveranno alla pensione i pochi contributi saltuariamente versati non saranno sufficienti. Non solo, ma un’impresa non investe nella formazione di un lavoratore che dopo pochi mesi perderà: quindi la produttività dei giovani precari rimane bassa, non imparano nulla e più l’età avanza meno diventano impiegabili. È un dramma non solo per i giovani ma per la produttività del Paese. Per abbattere questo muro c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale.
Il ministro Fornero ha perfettamente chiari i termini e la soluzione del problema: «Penso», ha detto nell’intervista al Corriere del 18 dicembre, «che un ciclo di vita che funzioni è quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Un contratto che riconosca che sei all’inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa, ma che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto». Questo significa abolire l’articolo 18. Si obietta che oggi, nel mezzo di una recessione, eliminare l’articolo 18 significherebbe consentire alle imprese licenziamenti indiscriminati. È vero il contrario. In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti.
Ma anche alle imprese dev’essere chiesto un contributo. A fronte dell’abolizione dell’articolo 18 devono essere disposte a pagare una quota dei sussidi di disoccupazione. E questo non tanto per alleggerire l’onere a carico dell’Inps, quanto soprattutto perché in questo modo un’impresa ci penserà bene prima di licenziare un lavoratore, e lo farà solo se davvero è convinta che la domanda per i suoi prodotti rimarrà bassa a lungo. Una possibilità è quanto prevede la proposta di legge presentata dal senatore Pietro Ichino. Il sussidio del primo anno potrebbe rimanere, come già previsto, quasi interamente a carico dell’Inps. Questo sussidio, che oggi raggiunge l’80% della retribuzione di base, potrebbe essere integrato ponendo un ulteriore 10% a carico dell’impresa. Il secondo anno, quando viene meno il sussidio pubblico, potrebbe essere interamente a carico dell’impresa, con una copertura, ad esempio, del 70%. Questa scenderebbe il terzo anno con un onere suddiviso fra Inps e impresa. Ovviamente questo richiederebbe che la cassa integrazione fosse riservata ai soli casi di caduta temporanea degli ordini, cinque o sei mesi, non di più. Oltre questo periodo deve intervenire un moderno sistema di sussidi temporanei, decrescenti nel tempo e accompagnati da attività di riqualificazione dei lavoratori. Non stiamo inventando nulla di originale: più o meno così funziona il welfare in quasi tutti i Paesi industriali tranne l’Italia e pochi altri.
Le imprese non dovrebbero esser obbligate ad aderire al nuovo sistema: quelle che accettano di contribuire al finanziamento dei sussidi avrebbero accesso ai nuovi contratti non protetti dall’articolo 18. Le altre possono rimanere nel vecchio regime. Ma al di là degli aspetti tecnici, un punto è cruciale. Deve esserci un unico contratto per tutti e l’articolo 18 va abolito. Solo così si abbatte il muro che ha trasformato i giovani nei paria del mercato del lavoro. Accettare compromessi su questi due punti significa varare una riforma inutile. Fare una riforma parziale è peggio che non far nulla perché si darebbe l’impressione di aver risolto un problema senza averlo fatto, perdendo così un’occasione forse irripetibile.

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Liberalizzazioni per avviare il cambiamento

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa il 21 gennaio 2012
Attese e polemiche, sono arrivate le liberalizzazioni. Molte critiche erano già partite prima ancora del decreto, figuriamoci adesso. Ogni dettaglio sarà scandagliato, ogni partito metterà i propri paletti, ogni lobby si armerà fino ai denti. In tutto questo rumore l'opinione pubblica rischia di restare confusa e divisa. A cosa servono davvero, chi ci guadagnerà e chi ci perderà?
Fioriscono stime e tabelle, ma essendo le previsioni incerte per definizione, alla fine molti temono che chi ci perde sia più di chi ci guadagna. Le tariffe dei professionisti diminuiranno, anzi no, aumenteranno. Si creeranno nuovi posti di lavoro, anzi no, la concorrenza li distruggerà. E così via. E su queste confusioni e paure giocano molte lobby e molti politici. Il rischio però è che si perda di vista la vera essenza delle liberalizzazioni e l’impatto complessivo che possono avere sul Paese.
Liberalizzare significa semplicemente rendere più semplice e meno vincolata la concorrenza, ovvero creare le condizioni perché nuovi concorrenti possano organizzarsi per entrare ed operare sul mercato. Tutto qua. Non è detto che ogni città verrà invasa da edicole, farmacie, negozi e professionisti, né che all’improvviso tutti i prezzi crolleranno o aumenteranno. Ma il punto, nonostante molti giochino su queste argomentazioni, non è questo, non è se qualcuno alza o abbassa la tariffa. Il punto è che ci sia un’offerta sufficientemente variegata che consenta al cittadino di scegliere il rapporto qualità/prezzo che fa al caso suo.
E creare un mercato che consenta ad un negoziante o ad un professionista di decidere come preferisce competere. Questo implica un cambiamento profondo di come si muovono i consumatori, i produttori, ma anche del ruolo dello Stato. Il compito del regolatore pubblico in alcuni settori non sarà più decidere quanta e quale offerta e a quale prezzo è disponibile al cittadino, ma sarà vigilare che i cittadini abbiano accesso ad un’informazione chiara e trasparente su prezzi e caratteristiche di tutta l’offerta disponibile, e strumenti efficaci per potersi difendere da eventuali frodi o abusi. Questa è la vera novità che potrebbe cambiare profondamente non solo la nostra economia ma anche la nostra società. Che poi questo si traduca in un determinato aumento o diminuzione dei prezzi medi in certi settori non possiamo saperlo con certezza.
Potrebbe anche semplicemente tradursi in un aumento di qualità ed efficienza a parità di prezzo. Ma non sarebbe comunque un ottimo risultato che cambia la qualità della vita e del lavoro nel nostro Paese? Stesso ragionamento per gli effetti occupazionali. Prendiamo l’esempio dei servizi pubblici. Una maggiore concorrenza e trasparenza nei settori pubblici non necessariamente porterà un aumento di posti di lavoro. Potrebbe capitare che certe aziende erogatrici che fino ad oggi hanno assunto centinaia di figli di amici e parenti, si trovino costrette, per poter competere, ad assumerne un po’ meno, persone che siano però veramente competenti e produttive. Ma non sarebbe forse un risultato positivo? E’ vero, la concorrenza, nei settori pubblici come altrove, dovrebbe favorire la creazione di nuove aziende e quindi nuovi posti di lavoro che vadano a compensare la perdita che avrà luogo nelle aziende meno efficienti. Ma non è facile stimare di quanto sarà l’impatto netto nel prossimo anno o due, soprattutto in un contesto di forte contrazione dell’economia nazionale e internazionale come quello attuale. La domanda che dobbiamo porci non è soltanto «quanti posti di lavoro» creeremo quest’anno, ma quali logiche cambieremo, quale Paese vogliamo costruire e quali condizioni stiamo creando affinché ciò si realizzi.
Recuperare efficienza, eliminare sacche di inefficienza e posizioni di rendita, dare alle persone la libertà di potere scegliere se, quando e come produrre un certo servizio op- pure se, quando e come consumarlo, significa dare più opportunità ai cittadini. E anche questa è equità. Anche questa è redistribuzione. Non si ridistribuisce solo dando assegni di assistenza, ma anche creando spazi ed opportunità per chiunque abbia voglia e capacità di mettersi in gioco, a prescindere dalle persone di cui è figlio, amico o parente. Quanti consumatori o quanti aspiranti imprenditori, professionisti, farmacisti e commercianti decidano poi di cogliere davvero queste opportunità nel giro di un anno o due è un altro discorso. Che dipende da fattori economici congiunturali, da fattori culturali (non è detto che tutti gli aspiranti professionisti o farmacisti italiani decida- no di investire i loro risparmi in un’attività imprenditoriale e rischiosa), e anche da una serie di altri fattori di contesto (riforma della giusti- zia civile, del mercato del lavoro, della burocrazia e del fisco, perché anche questi fattori influenzano le scelte d’investimento e di consumo).
Ma il cambiamento che è in gioco è più profondo e va ben oltre il 2012. E per quanto sia giusto discutere e valutare anche gli effetti immediati di questi provvedimenti, occorre fa- re molta attenzione. Per anni siamo stati vittime di riforme fallite perché vincolate agli interessi di breve periodo, affossate dal «chi ci guadagna e chi ci perde». Dimostriamo che abbiamo imparato dagli errori passati. Ci guadagneremo tutti.

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Michele Bertucco, vivibilità nei quartieri di Verona

Intervento di Michele Bertucco, candidato sindaco a Verona
Ho incontrato più di 150 persone tra consiglieri comunali, di circoscrizione e cittadini nel mio primo giro di ricognizione dei quartieri. E’ l’avvio della costruzione del progetto di città che porterò al confronto elettorale attraverso i contributi di tutti i veronesi che vorranno rispondere al mio invito alla partecipazione. Per adesso registro un generale senso di insicurezza a cui l'amministrazione uscente ha opposto per lo più soluzioni insufficienti e disomogenee.
Innanzitutto insicurezza per la nuova ondata di delinquenza che ha investito tanto il quartiere Stadio quanto la “tranquilla” Valsquaranto o il quartiere “bene” di Borgo Trento. L'incolumità dei cittadini e dei loro beni va affidata a chi fa sicurezza per mestiere, senza improvvisarsi sceriffi per convenienza o per audience.
In secondo luogo un forte senso di insicurezza per il futuro che colpisce tante famiglie in cui c’è già un disoccupato, giovane o meno giovane, o che sono minacciate dallo spettro della disoccupazione, ma anche tante famiglie della classe media che stanno vedendo a rischio molte delle loro certezze. Di fronte a tale malessere diffuso non basta, come ha fatto l'amministrazione uscente, gonfiare gli organici delle aziende partecipate o moltiplicare a dismisura le aree commerciali o residenziali (vedi Piano degli Interventi o le grandi riqualificazioni come le ex Cartiere) nella speranza che “il mercato si riprenda”. Occorre riavviare un dialogo vero e franco con le associazioni imprenditoriali ed economiche, con gli enti pubblici deputati allo sviluppo, e ridare speranza alla città rimediando alla desertificazione produttiva che colpisce tanto i quartieri Sud che quelli ad Est (Compometal, Cardi, Officine Ferroviarie, Tiberghien, Pasqua, Mondadori). Da questo passaggio dipende in buona parte anche il benessere di migliaia di professionisti, dagli avvocati ai notai, dagli ingegneri agli architetti. Soprattutto, dipende il futuro occupazionale dei giovani, in particolare diplomati e laureati, altrimenti costretti ad andarsene da Verona. La città ha già perso la grossa occasione del Polo Finanziario, la cui logica è stata invece sposata da Milano, non possiamo permetterci altri errori.
Rilevo, infine, una grave crisi della vivibilità dei quartieri, conseguenza della mancanza di investimenti condivisi. Sono indispensabili interventi di messa in sicurezza attorno alle grandi arterie (da via Mantovana a via Tombetta a via Unità d'Italia); il completamento di percorsi protetti fruibili a piedi e in bicicletta, nonché la ricostruzione di spazi di socialità sia sotto forma di centri di aggregazione giovanili sia come riqualificazioni di piazze che privilegino l'aspetto della funzionalità su quello estetico, anche adottando misure di limitazione del traffico come la Ztl di quartiere. Per gli anziani serve una nuova casa di riposo nella zona a sud della città.
In breve: non ha più senso parlare di centro e periferia. Chi lo fa assegna più importanza e attenzione al primo che ai secondi. Ogni quartiere deve ritornare ad avere una propria identità e questo significa ripensare l’urbanistica, la ricerca delle risorse necessarie, la distribuzione equilibrata degli interventi. Occorre tornare a parlare del progetto di città che vogliamo e, soprattutto, del suo sviluppo.

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mercoledì 18 gennaio 2012

Prevenire e contrastare il crimine organizzato

Il Gruppo Consiliare del Partito Democratico della Regione Veneto al fine di promuovere una proposta di legge per prevenire e contrastare il crimine organizzato e promuovere la cultura della legalità e della responsabilità ha organizzato un seminario per lunedì 23 gennaio 2012, alle ore 9,45, presso il Palazzo Ferro Fini a Venezia.
Il seminario prevede il seguente programma dei lavori:
- ore 9,45 Saluto di Clodovaldo Ruffato, Presidente del consiglio regionale Veneto;
- Roberto Fasoli, presentazione del seminario;
Interventi:
- Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico;
- Don Luigi Tellatin, referente regionale Veneto di Libera;
- Roberto Terzo, Sostituto procuratore direzione distrettuale antimafia di Venezia
- Simonetta Saliera, Vice-Presidente della Giunta regionale Emilia-Romagna;
- Davide Boni, Presidente del Consiglio regionale della Lombardia;
- Flavio Zanonato, Sindaco del Comune di Padova;
Conclusioni di Laura Puppato, Presidente del gruppo consiliare PD Veneto.
Si riporta la presentazione del seminario.
Le più recenti inchieste giudiziarie testimoniano come l’infiltrazione della criminalità organizzata e mafiosa riguardi in modo particolare le regioni più ricche del nostro Paese. Le mafie non sono più soltanto una questione meridionale. Anche in Veneto, infatti, l’attività degli inquirenti ha scoperto e colpito alcune realtà di infiltrazione mafiosa. Dal lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine è emerso che nelle regioni centro-settentrionali il crimine organizzato utilizza spesso il canale del riciclaggio del denaro sporco e dell’usura per inserirsi all’interno del sistema economico legale, approfittando anche dei momenti di crisi com’è quello attuale.
Il Veneto non è terra di mafia, ma è certamente una regione che interessa alle mafie. Lo testimoniano alcuni darti ufficiali in materia di operazioni finanziarie sospette, traffico di droga e beni confiscati.
Di fronte ad una situazione simile, altre regioni italiane si sono dotate di una legislazione organica finalizzata alla prevenzione e al contrasto del crimine organizzato e mafioso e alla promozione della cultura della legalità e della responsabilità. Questo passaggio è maturato nella convinzione che il ruolo della magistratura e delle forse dell’ordine è necessario ma non sufficiente. La lotta alle mafie e al crimine organizzato deve fondarsi su un’azione collettiva e culturale capace di mettere insieme, in modo coordinato, realtà istituzionali, sociali, categorie professionali, mondo della scuola e dell’università. In tale ottica, quindi, è necessario che anche il Veneto si doti di una strumentazione legislativa organica.
Scopo del seminario è quello di costruire unitariamente, con il concorso dei gruppi consiliari disponibili, una proposta di legge, condivisa dagli interlocutori istituzionali e dalle forse sociali, che consente di affrontare in modo efficiente e adeguato la prevenzione e il contrasto del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata.
In preparazione del seminario sarà predisposta una raccolta della principale documentazione legislativa antimafia nazionale e regionale.
Per informazioni e comunicazioni: 041/2701407 - pdveneto@consiglioveneto.it

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domenica 15 gennaio 2012

Flexicurity in Danimarca

Articolo di Danilo Taino pubblicato sul Corriere della Sera il 14 gennaio 2012
Guarda un po': il Paese più felice del mondo (classifica Gallup) è anche il Paese a più alta mobilità sociale (classifica Ocse). Se la scala che consente miglioramenti individuali all'interno della società funziona, la gente si sente più sicura e ha fiducia nel futuro. Ecco, questo succede in Danimarca, appunto il Paese più mobile e più felice della Terra.
E su questo deve focalizzarsi l'Italia se vuole importare qualcosa dal modello danese di cui si parla molto come esempio di riforma del mercato del lavoro. Non su un pacchetto chiuso, non su una ricetta. E nemmeno sul nome magico che molti oggi citano, Flexicurity alla danese. Miracoli non arrivano nemmeno dal Nord scandinavo. Ma sul concetto preciso che ci sta dietro: chi sta fermo intristisce e impoverisce.
 «È chiaro che il nostro modello non è esportabile - dice Per Kongsh0j Madsen, professore di Ricerca sul mercato del lavoro all'università di Aalborg - ma c'è qualcosa che tutti, soprattutto gli europei, possono imparare. Cioè che se si protegge chi ha un lavoro stabile inevitabilmente si alzano barriere all’ingresso nel mercato all'ingresso nel mercato del lavoro contro chi un posto non ce l'ha». Questo è il nocciolo della Flexicurity e questo è ciò che si può importare da Copenaghen: occorre spostare la protezione dal posto di lavoro - che se deve chiuso prima o poi verrà chiuso - al lavoratore - che se ha perso il posto va sussidiato e, sostenuto affinché ne trovi un altro. «È un concetto che sottoscrivo senza esitazioni - sostiene Marie-Louise Knuppert, responsabile degli Affari internazionali del sindacato Lo -. Nessuno in Danimarca lo metterebbe in discussione: il problema non è il posto di lavoro ma la tua competenza, quello che sai fare e quanto sai migliorare nel corso della vita. Come sindacalista non cambierei mai modello: migliorarlo sì ma cambiarlo mai». A dirsi, facile e bello.
Nel 2009, un cantiere navale storico, quasi centenario, del gruppo Maersk ha annunciato l'intenzione di chiudere: in altri Paesi si producono navi a prezzi molto più bassi. Culturalmente uno choc per i danesi e 2.500 lavoratori che nei due anni successivi hanno perso il posto. Ma nessuno sciopero, nessuna protesta: la logica aziendale di delocalizzare la produzione non è stata messa in discussione. Gran parte dei lavoratori, però, si è riconvertita, nonostante la crisi colpisca anche la Danimarca (la disoccupazione è salita al 6,9%). Molti si occupano ora di energie alternative nel parco sorto al posto del cantiere. Altri hanno cambiato tutto. Nei giorni scorsi è diventato famoso un fabbro che, licenziato dalla Maersk, ora si occupa félicemente di ragazzi handicappati. Il guaio è che un sistema di questo tipo, sofisticato ed estremamente organizzato, non è facile da mettere in piedi.
Di base, la Flexicurity - un « compromesso storico» tra imprese, sindacati e Stato - è sostenuta da tre pilastri. Primo, l'elemento flessibile: la possibilità che le imprese hanno di licenziare (unico limite la discriminazione se hai gli occhi del colore sbagliato). «È ciò che ci consente di avere una struttura produttiva che è libera di investire e innovare senza vincoli - spiega Nils Trampe, direttore degli Affari internazionali della Confederazione degli imprenditori -. È la libertà che ci permette di salire sempre di più nella scala delle produzioni a maggiore valore aggiunto». Secondo, l'elemento sicurezza: quando si è in disoccupazione lo Stato eroga benefici significativi,: «In teoria, il 90% dell'ultimo salario — spiega il professor Madsen — ma ciò vale solo per i redditi più bassi, perché c'è un tetto massimo, attorno ai duemila euro. Per cui il sussidio medio è tra il 60 e il 70%». Finora fino a quattro anni, ma dal 2013 fino a non più di 24 mesi. Terzo pilastro, una politica molto attiva di mercato del lavoro: riqualificazione continua dei lavoratori, quando sono disoccupati ma anche quando hanno un posto; ricerca di un lavoro per chi l'ha perso; creazione di nuove opportunità di occupazione. n risultato è che la mobilità è fortissima. Circa il 25% dei danesi cambia azienda ogni anno (e molti altri cambiano posizione nella stessa impresa). Significa che, nel corso di una vita di lavoro, un cittadino può cambiare azienda e settore anche sette-otto volte. E tutti sono soddisfatti: la paura della perdita del posto non c'è perché si sa che se ne presenterà un altro; c'è in compenso l'opportunità di migliorare, in parallelo alla sempre maggiore sofisticatezza e capacità innovativa delle imprese danesi indotta dalla Flexicurity. «Se proponete a un danese un lavoro a vita, lo prenderà come una condanna all'ergastolo» sostiene Trampe. Anche nel pieno della crisi, il modello ha risposto bene: la disoccupazione di lungo periodo è al 2%, la metà della media Ue, e quella giovanile è al 14%, contro il 21 dell'Europa. Non che tutto sia perfetto in Danimarca. «Ci sono casi - racconta Trampe della Confederazione degli imprenditori - di ragazzi di 28 anni che si fanno fare un certificato medico di inabilità mentale al lavoro e per il resto della vita percepiscono un sussidio pubblico. È una situazione insostenibile che va sanata, per i giovani stessi e anche per poter ridurre il peso delle tasse». Questo però non ha niente a che fare con la Flexicurity, che invece funziona.
La difficoltà a esportare il modello nella sua interezza sta nelle condizioni al contorno necessarie a renderla possibile. Innanzitutto, il sistema sta in piedi solo se l'educazione e il training continuo sono eccellenti. Esistono corsi di educazione permanente per chi lavora, corsi di riqualificazione per chi è disoccupato, scuole tecniche e professionali che funzionano secondo la regola sei mesi in classe, sei mesi in azienda. In secondo luogo, tutto si basa sul cosiddetto sistema tripartito: Stato, imprenditori, sindacato. Un Comitato nazionale a tre fa da consulente permanente del ministro dell'Occupazione, molti altri comitati sono istituiti su questioni specifiche. In più, ogni due anni si fa un contratto nazionale collettivo per ogni settore: prima discutendo tra imprenditori e sindacati, poi chiamando un arbitro del governo se c'è disaccordo e infine passando allo sciopero se il risultato dell'arbitrato non è accettato (l'ultima volta è successo nel 1997). Infine, sindacati, imprenditori e autorità si incontrano a livello locale per risolvere ogni problema interno al modello della Flexicurity.
Un sistema del genere può funzionare solo sulla base di un'enorme fiducia reciproca, nella certezza che tutti facciano l'interesse nazionale e non solo il proprio: e questo è il terzo corollario. Quarto, i meccanismi che regolano il mercato del lavoro, a cominciare dai job-center, devono essere efficienti e non inquinati da privilegi e imbrogli. Quinto, le risorse richieste dalla Flexicurity — tra il 3 e il 4 per cento del Prodotto interno lordo - sono massicce e sono accompagnate da un Welfare State costoso, che garantisce scuola, università, ospedali gratuiti. Ciò richiede l'accettazione da parte dei cittadini di livelli di tassazione alti (il 50% del Pil) e di evasione fiscale bassi (non più del 5% del Pil).
Infine, per vedere l'occupazione come un risultato di sistema e non come un posto di lavoro garantito serve una mentalità condivisa che non si crea in poco tempo: il modello danese di mercato del lavoro basato sulla flessibilità ha quasi 113 anni, risale al settembre 1899, quando un'azione sindacale lunghissima e distruttiva convinse lavoratori e padroni a sedersi attorno a un tavolo e a discutere fino a quando non trovarono un accordo. Da allora, le cose in Danimarca funzionano così: si discute e si arriva prima o poi a una soluzione.
In altre parole, buona parte del sistema danese è molto poco esportabile. Quando la sindacalista signora Knuppert dice che se lei fosse Mario Monti costringerebbe in una stanza sindacati e Confindustria e non li farebbe uscire fino a quando non raggiungono un accordo sulla riforma del mercato del lavoro, fa capire quanto sia lontana la Danimarca dal Mediterraneo. Ciò nonostante, una lezione c'è. «Certo non potete copiarci, ognuno è il prodotto della sua storia — dice il professor Madsen — ma se qualcosa la nostra esperienza insegna è che la difesa del posto fisso e la rigidità non creano uguaglianza e benessere. Creano inefficienza, perdita di lavoro, perdita di reddito». E, presumibilmente, infelicità. «Lo status quo non è un'opzione», dicono gli imprenditori. Quelli danesi, naturalmente.

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sabato 14 gennaio 2012

Protocollo legalità nel Veneto per prevenire la mafia

Articolo di Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso pubblico, pubblicato su Corriere Verona il 13 gennaio 2012
È superiore ai 100 miliardi di euro, vale a dire l’8% del PIL, il valore del mercato degli appalti pubblici in Italia e in esso trovano occupazione quasi 1,5 milioni di persone. Questi dati sono contenuti nella relazione annuale dell’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (www.acpt.it). Si tratta di numeri importanti destinati ad attirare l’attenzione non solo degli operatori economici ma, altresì, delle organizzazioni mafiose. È un mercato delicato quello degli appalti, in cui, come scrive l’Autorità, non mancano casi dove si registra «una sproporzionata durata dell'esecuzione dei contratti e un ricorso frequente e immotivato a varianti progettuali che provocano un sensibile aumento dei costi contrattuali». A tutto questo, si legge sempre nella relazione, si aggiunga che oltre 5.000 imprese non applicano il codice degli appalti pubblici e che il 30% degli appalti avviene senza gara.
Di fronte di questo scenario, è certamente un segnale importante quello che è giunto dal Veneto lo scorso 9 gennaio con la firma del Protocollo di legalità finalizzato a prevenire l’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, sottoscritto dalle Prefetture, dalla Regione, dalle Province e dall’Anci alla presenza del Ministro dell’Interno Cancellieri. Un protocollo chiaro e specifico che si propone come modello per altre regioni italiane. Un documento importante anche per i messaggi che veicola. Il primo è quello che il problema della presenza mafiosa nel tessuto economico locale è un rischio concreto, anche in Veneto. Il secondo è che il contrasto alle mafie non è delegabile esclusivamente alla fase repressiva svolta dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Anche la politica e la pubblica amministrazione sono chiamate a fare la loro parte rafforzando la trasparenza, la sicurezza e il controllo sul sistema degli appalti pubblici.
Nella nostra regione, come in altri territori dell’Italia settentrionale, una seria politica preventiva antimafia deve fondarsi sul monitoraggio costante dei capitali che circolano e delle imprese che operano. E questo va fatto soprattutto in determinati settori, elencati anche nel Protocollo, e con particolare attenzione nel sistema dei sub-appalti. Per questo, come previsto nel documento sottoscritto a Venezia, è fondamentale conoscere gli assetti societari delle realtà coinvolte nella realizzazione delle opere, rendere tracciabili i flussi finanziari, affidare precise responsabilità di controllo e monitoraggio di quanto avviene nei cantieri ogni giorno. E altrettanto significativo è l’obbligo che il Protocollo conferisce all’impresa aggiudicataria dei lavori, alle imprese subappaltatrici e ad ogni altro soggetto che intervenga nella realizzazione dei lavori di denunciare tentativi di pressione criminale; così come è importante la previsione della rescissione del contratto con imprese e società qualora emergano infiltrazioni mafiose. La mafia non è compatibile con la libertà di impresa e con il principio della libera concorrenza. Questo deve essere chiaro ai cittadini e agli operatori economici che credono nel libero mercato.
Il Protocollo ha una durata di due anni al termine dei quali sarà interessante conoscere i risultati prodotti dalla sua applicazione. Chi lo dovrà fare non è stato specificato nel documento sottoscritto. Una mancanza, alla quale, ci auguriamo si possa presto porre rimedio.

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venerdì 13 gennaio 2012

Verona contraria a Cà del Bue

Si è svolta oggi una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Vincenzo D’Arienzo, segretario del Pd di Verona, Michele Bertucco, candidato sindaco del centro sinistra, e Diego Zardini, capo gruppo del Pd al consiglio provinciale di Verona. L’argomento trattato è stato l’inceneritore di Ca’ del Bue.
Sull’inceneritore che Tosi vuole costruire è stato commissionato un sondaggio dal PD di Verona.
Sono emersi dati e risultati chiari sulla contrarietà/preoccupazione della maggioranza dei veronesi all’impianto nonché diffusi timori verso l’inquinamento, anche da diossina, che sarà prodotto.
I veronesi si sono espressi così:
- favorevoli a Cà del Bue il 33,8% (uomini 36,4%, donne 31,5%);
- contrari per i rischi alla salute il 32% (uomini 29,4%, donne 34,2%);
- preoccupati dall’inquinamento che produrrà il 23,9% (uomini 29,4%, donne 19%)
- non conoscono il tema il 10,3% (uomini 4,7%, donne 15,3%)
In pratica, il 66,2% dei veronesi residenti in città è contrario, preoccupato dall’inquinamento che Cà del Bue produrrà o non conosce nulla dell’impianto che Tosi vuole costruire.
Una quota alta di donne (15,3%) non conosce il pericolo, ma tra quelle informate spicca la contrarietà: il 53,2% delle intervistate sono contrarie o preoccupate da Cà del Bue e avvertono l’impianto come una minaccia per i propri parenti o figli.
La sensibilità femminile è stata confermata nel focus group organizzato con 15 donne di varie età a sondaggio terminato. Sebbene la prima reazione all’argomento dell'inceneritore sia stata negativa, ma non drammatica, oltre a considerazioni marginali sul fatto che non risolve il problema dei rifiuti, che non produce energia sufficiente e che costituisce uno sperpero, l’attenzione - anche delle donne rimaste fino a quel momento più passive – è stata alta sul tema/problema per la salute dei cittadini. Le possibili conseguenze su 'donne incinte' e 'neonati', hanno comportato un consenso unanime e appassionato contro l’inceneritore.
(estratto dall’interazione)
..io faccio il mio esempio, ho due sorelle, tutte incinta e sapere che il problema potrebbe essere per i miei nipoti o eventualmente per i miei figli…. Per me potrebbe chiudere anche oggi (Ca' del Bue). I veronesi non si fidano degli esperti che il Comune ha messo in campo per calmare le preoccupazioni.
Quel mostro che incombe sulla città va fermato. A Verona non ci sono rifiuti sufficienti e, quindi, l’inceneritore dovrà bruciare i rifiuti del Veneto e oltre. Se a ciò aggiungiamo la riattivazione dei forni a letto fluido, a S. Michele avremo un polo che incenerisce oltre 1.000 tonnellate al giorno di rifiuti.
Il Partito Democratico avvierà una capillare informazione per tutte le famiglie di Verona: migliaia di volantini che spiegheranno casa per casa il pericolo al quale Tosi sta esponendo la salute dei veronesi.

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Lorenzo Dalai, primarie ed elezioni a Verona

Lorenzo Dalai, consigliere del PD alla Provincia di Verona, è stato disponibile a farsi intervistare in un momento particolare della vita politica veronese.
Qualcuno, nel PD dice che tu sei contrario alle Primarie....
Questo non corrisponde assolutamente al mio pensiero e a quanto  riportato dai media, devo dire correttamente, sulle mie perplessità di tempi e modi. Sulla sostanza ribadisco che le Primarie sono il carattere distintivo del Partito Democratico e poiché si è proceduto in modo trasparente e altamente democratico, penso che si debba accettare il risultato e quindi appoggiare al massimo il candidato che ha prevalso.
Quindi non condividi le dichiarazioni di chi non ha accolto positivamente il verdetto delle urne ?
Qualsiasi dichiarazioni che non sia di sostegno a Michele Bertucco ritengo sia offensiva per tutti quei cittadini-elettori che si sono recati a votare e che hanno anche versato un contributo.
Il candidato Sindaco del Centrosinistra c'è, il quadro politico è in movimento vorticoso, ma non vorrei che alla fine ci si ritrovasse al punto di partenza: partiti di Destra compatti intorno a Tosi e Centro isolato e privo di chance. Dato che i partiti, che dovrebbero appoggiare il Sindaco uscente, sono lacerati da pesanti dissidi interni, potremmo trovarci in una situazione analoga al 2002.
Visto che noi il candidato lo abbiamo, se andiamo avanti compatti e convinti possiamo ripetere l'exploit!
Perciò ritieni non determinante una eventuale alleanza con il Terzo Polo? Con alcuni amici di questo raggruppamento il dialogo non si è mai interrotto, ma purtroppo si tratta di una realtà dove ci sono troppi colonnelli e poche truppe e, per di più, con obiettivi non sempre condivisi da tutti loro. Tra l'altro c'è anche poca “aria fresca”, ma tanti revival.
Cosa dici , visto che sei Consigliere Provinciale, delle dichiarazioni di Ruzzenente, comparse qualche giorno fa ? Mah...trovo strano che chi è stato assessore per un mandato e consigliere per altri due dica, per restare nel coro, che le Province vanno abolite subito. Mi sorge un dubbio: ma allora perché è restato a Palazzo Scaligero per 15 anni? Mi sembra che per accreditarsi si sia disponibili a cancellare con un tratto di penna la propria storia. Lo ritengo poco credibile, oltre che non condivisibile.
Allora sei convinto che Bertucco possa sbaragliare il campo? Bertucco da solo non può vincere. Bertucco con una squadra solida e ben assortita può farcela, eccome !!!
Proprio per questo io darò una mano, un contributo di idee e di lavoro, a due candidati: un giovane ed una donna che rappresentano le vere novità, persone che portano idee nuove, che non sono facce viste e riviste, disponibili al dialogo, ma con principi molto saldi e chiari.
Personalmente sono stufo di vedere personaggi logorati da anni e anni di agone politico; che si facciano da parte e largo al Nuovo !
Anche tu ti farai da parte ? Io ho iniziato a far politica nel 2002, con le elezioni vinte da Paolo Zanotto, perciò non ritengo di essere logoro, ma se dovesse servire a dare un impulso determinante, certo ! Sono disponibile da subito.

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Semplificazione e sperimentazione nel lavoro

articolo di Maurizio Ferrera pubblicato su Corriere della Sera il 12 gennaio 2012
Con le consultazioni avviate dal ministro Fornero, la partita sul mercato del lavoro sta entrando nel vivo. Sinistra e sindacati hanno levato gli scudi a difesa dell'articolo 18. Per ora, dunque, la discussione riguarda essenzialmente il cosiddetto contratto unico o «prevalente» (che dovrebbe sostituire la pletora di contratti atipici) e gli ammortizzatori sociali.
Precarietà e scarse tutele contro la disoccupazione sono problemi molto seri, che creano crescente disagio sociale. Su entrambi i fronti le soluzioni non possono che essere di tipo «difensivo»: ciò che serve è infatti maggiore protezione. L'agenda delle riforme non può però esaurirsi con questo tipo di misure. Occorrono anche provvedimenti di tipo «espansivo», capaci di stimolare l'occupazione.
In Italia mancano i posti di lavoro. Non è solo colpa della crisi, il problema ha radici strutturali. I nostri tassi di occupazione sono fra i più bassi d'Europa: rispetto alla Gran Bretagna (che ha la stessa popolazione dell'Italia) abbiamo quasi sette milioni di occupati in meno, soprattutto donne. La via maestra per creare lavoro è ovviamente la crescita. Ma attenzione: la struttura del mercato occupazionale è a sua volta un fattore di crescita. Se ci sono troppe strozzature, i posti di lavoro non arrivano neppure quando l'economia si espande. Le riforme possibili sono tante, ma la più promettente è una drastica semplificazione delle norme. Agli imprenditori stranieri il diritto del lavoro italiano appare come un indecifrabile mosaico bizantino, privo di certezze interpretative e applicative. Il risultato è che abbiamo pochissimi investimenti esteri e così rinunciamo a centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
C'è poi la riforma dei servizi per l'impiego. Mancano programmi efficienti di reinserimento e riqualificazione dei disoccupati, soprattutto i più anziani. Chi è in cerca di lavoro è abbandonato a se stesso, mentre ai beneficiari di sussidi non viene chiesta alcuna contropartita. Scuola e università non parlano con le imprese, che a loro volta non sanno valorizzare le competenze di diplomati e laureati. Abbiamo un enorme deficit di occupazione nel terziario: se non incentiviamo l'economia dei servizi è impensabile raggiungere i livelli d'impiego di Francia o Gran Bretagna.
Le parti sociali possono far molto, anche sul piano bilaterale. Ma sulle questioni decisive occorre l'iniziativa del governo. Ciò vale soprattutto per la semplificazione. La proposta Ichino sul nuovo Codice del lavoro costituisce un'ottima base da cui partire. La questione della flessibilità in uscita potrebbe anche essere accantonata e affrontata, per il momento, con sperimentazioni volontarie.
Sul mercato del lavoro dal governo Monti ci aspettiamo non un compromesso al ribasso, ma un progetto ambizioso che combini l'obiettivo dell'equità protettiva con quello dell'efficienza regolativa e organizzativa. E ci auguriamo che, al momento buono, sinistra e sindacati sappiano mostrare disponibilità e lungimiranza: non solo sul primo, ma anche sul secondo obiettivo.

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Lavoro, intervento di Luigi Mariucci

Intervento di Luigi Mariucci, responsabile per il Lavoro del Pd in Emilia Romagna e professore di diritto del lavoro nell’Università Ca’ Foscari di Venezia, svolto nel corso del Forum Lavoro del Pd, il 12 gennaio 2012
Il confronto tra le parti sociali e il governo farà presto chiarezza sul confuso dibattito in corso sui temi del mercato del lavoro. A quel punto arriverà l’ora della verità anche per il PD, le cui posizioni sulle questioni del lavoro costituiscono una discriminante essenziale in termini di credibilità e visione strategica.
Va riacquistato anzitutto il senso delle proporzioni. Un profondo riaggiustamento delle caotiche regole in materia di mercato del lavoro ereditate da un decennio di governo delle destre è certamente necessario. Ma è del tutto fuori misura immaginare chissà quali effetti miracolistici di nuovi interventi legislativi. I problemi italiani, e europei, hanno ben note radici strutturali che poco hanno a che fare con regolazioni formali dei rapporti di lavoro.
Perciò penso che le diverse proposte di legge fin qui presentate da parlamentari del PD, nella fase del governo Berlusconi, spesso a fini simbolici o di “manifesto politico”, dovrebbero essere accantonate. Invece che porsi l’inutile compito di effettuare “sintesi” o “mediazioni” di carattere puramente interno, che rischiano di essere persino dannose, il PD deve riconfermare l’impostazione programmatica già approvata dalla Assemblea nazionale del maggio 2010 e dalla Conferenza del lavoro di Genova del giugno 2011 e individuare alcune essenziali priorità. Occorre:
1) abrogare l’art. 8 della l. n. 148 del 2011, quello che ipotizza la derogabilità dell’intero diritto del lavoro ad opera di contratti aziendali o territoriali: una norma indecente, una vera anomalia rispetto agli ordinamenti europei;
2) modificare l’ art.19 dello Statuto nel senso di attribuire il diritto a costituire rappresentanze nei luoghi di lavoro ai sindacati che raggiungono specifiche soglie di rappresentatività, in termini di iscritti o di voti ricevuti, ponendo fine alla aberrante applicazione di tale norma diretta ad escludere i sindacati rappresentativi ma dissenzienti da specifici accordi (come accade alla Fiom negli stabilimenti Fiat), e ripristinando quindi un fondamento essenziale della libertà sindacale, come accade in tutti i paesi europei;
3) disboscare la giungla dei contratti precari accorpando i contratti atipici di lavoro in tre o quattro figure essenziali: l’apprendistato, il contratto a termine, la somministrazione di lavoro;
4) rendere convenienti per le imprese con incentivi fiscali le assunzioni a tempo indeterminato.
Si può anche prevedere un nuovo contratto di “ingresso al lavoro”, aggiornando il già esistente contratto di inserimento, per giovani, donne e lavoratori maturi licenziati per motivi di crisi, assegnando a questi soggetti una congrua indennità di avviamento al lavoro, una volta accertato rigorosamente l’effettivo stato di disoccupazione e l’autentica volontà di cercare lavoro.
Penso invece che sia sbagliata la proposta di introdurre un nuovo contratto c.d. “prevalente” [il riferimento è alla proposta illustrata nell'intervento di Stefano Fassina - n.d.r.], da contrapporre semanticamente al c.d. “contratto unico”, che unico naturalmente non è perché si aggiungerebbe agli altri contratti atipici. Prevalente in che senso? E con quali regole? A quanto si intende questa ennesima tipologia contrattuale si caratterizzerebbe per prevedere la licenziabilità nei primi tre anni, monetizzata con un risarcimento ex ante. Nulla si dice di cosa accadrebbe nel caso in cui quel lavoratore, al termine del triennio o in corso di rapporto, venisse appunto licenziato con un modesto indennizzo economico. Dovrebbe ricominciare daccapo, in una sorta di infinito gioco dell’oca.
È più ragionevole la piattaforma unitaria a cui stanno lavorando i sindacati: usare i contratti esistenti (apprendistato, contratto di inserimento), incentivare fiscalmente le assunzioni a tempo indeterminato, estendere gli ammortizzatori sociali a chi oggi non li ha, ridurre i contratti di ingresso al lavoro ad alcune forme essenziali. Quanto all’art.18 dello Statuto l’unica misura utile di riforma consisterebbe nello stabilire termini cogenti di abbreviamento delle controversie.
Introdurre nuovi e astrusi marchingegni normativi è inutile, anzi persino dannoso. I problemi della crescita sono altri. Guarda caso la stagnazione italiana dell’ultimo decennio è coincisa con la diffusione del lavoro precario. Va rovesciata l’idea mercantile per cui il lavoro è l’ultimo anello della catena produttiva, quello su cui scaricare risparmi di costo e iper-sfruttamento. Bisogna ripartire dai fondamenti: solo la valorizzazione del lavoro, in tutte le sue forme, può costituire un incentivo alla crescita. I diritti naturalmente vanno distinti dai privilegi, dalle posizioni parassitarie e assistenziali. Da qui la necessità di politiche selettive mirate a intervenire sulle differenze strutturali: nord-sud, settore privato e pubblico, occupazione giovanile e femminile.
Vi sono certo altre rilevanti questioni su cui sarebbe necessaria una organica riforma: il riordino complessivo degli ammortizzatori sociali, l’introduzione di efficaci strutture pubbliche di gestione e controllo sul mercato del lavoro (perché non costituire una vera Agenzia nazionale del lavoro, al posto degli attuali frammentati centri pubblici dell’impiego, abolendo nel frattempo altri organismi inutili, tipo l’ineffabile Civit, organo di controllo sulla produttività del pubblico impiego?), il tema della efficacia giuridica dei contratti collettivi sulla base dell’accertamento della effettiva rappresentatività dei sindacati stipulanti, e un più generale progetto di semplificazione del diritto del lavoro, diventato ormai una normativa caotica e persino irriconoscibile, centrato su un obiettivo autentico di razionalizzazione delle normative e non su quello, criptico, di controriformare il diritto del lavoro in senso regressivo. La bozza-Ichino, con gli opportuni correttivi di merito, può essere una buona base di partenza per un confronto utile.
Ma, al momento, le urgenze e le priorità sono quelle indicate.

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