domenica 22 gennaio 2012

Liberalizzazioni per avviare il cambiamento

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa il 21 gennaio 2012
Attese e polemiche, sono arrivate le liberalizzazioni. Molte critiche erano già partite prima ancora del decreto, figuriamoci adesso. Ogni dettaglio sarà scandagliato, ogni partito metterà i propri paletti, ogni lobby si armerà fino ai denti. In tutto questo rumore l'opinione pubblica rischia di restare confusa e divisa. A cosa servono davvero, chi ci guadagnerà e chi ci perderà?
Fioriscono stime e tabelle, ma essendo le previsioni incerte per definizione, alla fine molti temono che chi ci perde sia più di chi ci guadagna. Le tariffe dei professionisti diminuiranno, anzi no, aumenteranno. Si creeranno nuovi posti di lavoro, anzi no, la concorrenza li distruggerà. E così via. E su queste confusioni e paure giocano molte lobby e molti politici. Il rischio però è che si perda di vista la vera essenza delle liberalizzazioni e l’impatto complessivo che possono avere sul Paese.
Liberalizzare significa semplicemente rendere più semplice e meno vincolata la concorrenza, ovvero creare le condizioni perché nuovi concorrenti possano organizzarsi per entrare ed operare sul mercato. Tutto qua. Non è detto che ogni città verrà invasa da edicole, farmacie, negozi e professionisti, né che all’improvviso tutti i prezzi crolleranno o aumenteranno. Ma il punto, nonostante molti giochino su queste argomentazioni, non è questo, non è se qualcuno alza o abbassa la tariffa. Il punto è che ci sia un’offerta sufficientemente variegata che consenta al cittadino di scegliere il rapporto qualità/prezzo che fa al caso suo.
E creare un mercato che consenta ad un negoziante o ad un professionista di decidere come preferisce competere. Questo implica un cambiamento profondo di come si muovono i consumatori, i produttori, ma anche del ruolo dello Stato. Il compito del regolatore pubblico in alcuni settori non sarà più decidere quanta e quale offerta e a quale prezzo è disponibile al cittadino, ma sarà vigilare che i cittadini abbiano accesso ad un’informazione chiara e trasparente su prezzi e caratteristiche di tutta l’offerta disponibile, e strumenti efficaci per potersi difendere da eventuali frodi o abusi. Questa è la vera novità che potrebbe cambiare profondamente non solo la nostra economia ma anche la nostra società. Che poi questo si traduca in un determinato aumento o diminuzione dei prezzi medi in certi settori non possiamo saperlo con certezza.
Potrebbe anche semplicemente tradursi in un aumento di qualità ed efficienza a parità di prezzo. Ma non sarebbe comunque un ottimo risultato che cambia la qualità della vita e del lavoro nel nostro Paese? Stesso ragionamento per gli effetti occupazionali. Prendiamo l’esempio dei servizi pubblici. Una maggiore concorrenza e trasparenza nei settori pubblici non necessariamente porterà un aumento di posti di lavoro. Potrebbe capitare che certe aziende erogatrici che fino ad oggi hanno assunto centinaia di figli di amici e parenti, si trovino costrette, per poter competere, ad assumerne un po’ meno, persone che siano però veramente competenti e produttive. Ma non sarebbe forse un risultato positivo? E’ vero, la concorrenza, nei settori pubblici come altrove, dovrebbe favorire la creazione di nuove aziende e quindi nuovi posti di lavoro che vadano a compensare la perdita che avrà luogo nelle aziende meno efficienti. Ma non è facile stimare di quanto sarà l’impatto netto nel prossimo anno o due, soprattutto in un contesto di forte contrazione dell’economia nazionale e internazionale come quello attuale. La domanda che dobbiamo porci non è soltanto «quanti posti di lavoro» creeremo quest’anno, ma quali logiche cambieremo, quale Paese vogliamo costruire e quali condizioni stiamo creando affinché ciò si realizzi.
Recuperare efficienza, eliminare sacche di inefficienza e posizioni di rendita, dare alle persone la libertà di potere scegliere se, quando e come produrre un certo servizio op- pure se, quando e come consumarlo, significa dare più opportunità ai cittadini. E anche questa è equità. Anche questa è redistribuzione. Non si ridistribuisce solo dando assegni di assistenza, ma anche creando spazi ed opportunità per chiunque abbia voglia e capacità di mettersi in gioco, a prescindere dalle persone di cui è figlio, amico o parente. Quanti consumatori o quanti aspiranti imprenditori, professionisti, farmacisti e commercianti decidano poi di cogliere davvero queste opportunità nel giro di un anno o due è un altro discorso. Che dipende da fattori economici congiunturali, da fattori culturali (non è detto che tutti gli aspiranti professionisti o farmacisti italiani decida- no di investire i loro risparmi in un’attività imprenditoriale e rischiosa), e anche da una serie di altri fattori di contesto (riforma della giusti- zia civile, del mercato del lavoro, della burocrazia e del fisco, perché anche questi fattori influenzano le scelte d’investimento e di consumo).
Ma il cambiamento che è in gioco è più profondo e va ben oltre il 2012. E per quanto sia giusto discutere e valutare anche gli effetti immediati di questi provvedimenti, occorre fa- re molta attenzione. Per anni siamo stati vittime di riforme fallite perché vincolate agli interessi di breve periodo, affossate dal «chi ci guadagna e chi ci perde». Dimostriamo che abbiamo imparato dagli errori passati. Ci guadagneremo tutti.

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