sabato 21 luglio 2012

Pietro Ichino per l’Agenda Monti

Intervento, pubblicato su http://www.pietroichino.it/, del senatore Pietro Ichino svolto all’inizio dell’assemblea svoltasi il 20 luglio 2012 a Roma, per iniziativa dei firmatari del documento L’Agenda Monti al centro della nuova legislatura
C’è una questione di giustizia sociale che è venuta assumendo un peso maggiore rispetto a tutte quelle con le quali abbiamo dovuto confrontarci negli ultimi decenni. Una questione che vede la mia generazione, quella che ha avuto la ventura di nascere nel quindicennio successivo all’ultima Guerra mondiale, imputata di molte responsabilità gravi nei confronti delle generazioni successive:
1. innanzitutto la responsabilità di aver condotto il Paese a consumare in ciascuno degli ultimi trent’anni l’equivalente di circa 30 miliardi di euro più di quanto il Paese stesso fosse in grado di produrre, accollandone irresponsabilmente il debito ai figli e ai nipoti;
2. ma anche la responsabilità di avere utilizzato quel denaro preso a prestito non per investirlo in infrastrutture moderne, o in istruzione, o in altri beni duraturi, ma per riservare a sé impieghi pubblici usati come rimedio alla disoccupazione e trattamenti previdenziali e assistenziali di cui sapevamo benissimo (quanto meno dall’inizio degli anni ’90) che essi non avrebbero potuto essere estesi alle generazioni successive;
3. la responsabilità di non avere colto, dieci anni fa, l’occasione straordinaria offerta dall’euro per incominciare a ridurre il debito pubblico, sfruttando il drastico abbattimento degli interessi che il nuovo sistema monetario ha portato con sé in dote (se anche soltanto nella prima metà dell’anno scorso, prima della crisi scoppiata nel corso dell’estate, avessimo adottato misure analoghe a quelle contenute nel programma del Governo Monti – come pure già si sapeva che si sarebbe dovuto fare: basti leggere gli atti dell’assemblea del Lingotto del 22 gennaio 2011 – oggi il Paese non correrebbe il rischio gravissimo che corre e il debito avrebbe già incominciato a ridursi);
4. la responsabilità di non aver saputo dare al Paese un sistema istituzionale – a partire dal sistema elettorale – capace di superare i particolarismi faziosi sul piano politico e i veti incrociati delle varie corporazioni su quello economico; basti osservare in proposito che il Paese stesso oggi affronta la crisi più difficile e pericolosa vedendo alternarsi tra loro in Parlamento, a seconda delle occasioni, la maggioranza che vota la fiducia al Governo Monti e la maggioranza PdL-Lega che nella prima parte della legislatura ha sorretto il Governo Berlusconi, che vuole cose opposte; e rischia fortemente di uscire dalle prossime elezioni politiche senza una maggioranza parlamentare in grado di governare;

5. la responsabilità di aver lasciato aggravarsi il difetto del sistema di istruzione, formazione e orientamento professionale rispetto alle esigenze dell’inserimento delle nuove generazioni nel tessuto produttivo, al punto da generare una situazione di vera e propria esclusione di un terzo dei ventenni di oggi sia dalla scuola sia dal mercato del lavoro;
6. la responsabilità di aver lasciato che un vecchio sistema di protezione del lavoro, modellato sulle caratteristiche del tessuto produttivo di mezzo secolo fa, generasse lungo l’arco degli ultimi tre decenni un fenomeno macroscopico di esclusione di metà dei new entrants dal lavoro regolare, con il conseguente instaurarsi del peggiore regime di apartheid tra lavoratori protetti e non protetti che sia oggi osservabile in tutto il panorama dei Paesi occidentali industrializzati;
7. infine, una responsabilità forse ancora più grave di tutte queste è di avere disperso gran parte dell’amor di Patria, del senso dello Stato, di quelle civic attitudes che hanno costituito la fonte della nostra Costituzione repubblicana. Quelle stesse civic attitudes che costituiscono oggi il presupposto indispensabile perché un popolo possa avere fiducia nel proprio futuro e – nella nostra situazione specifica – perché gli altri popoli europei possano accettare di costruire con noi un rapporto solido di fiducia e solidarietà reciproca.
Ciò di cui il Paese oggi ha bisogno urgente è un’opera lunga – l’orizzonte non può essere meno che decennale ‑ di ricostruzione culturale, economica, istituzionale, e di riequilibrio tra gli interessi delle generazioni vecchie, di quelle più giovani e di quelle future. Un’opera compatibile, certo, con l’alternarsi al governo di schieramenti politici di diversa natura, ma a condizione che essi condividano almeno gli obiettivi fondamentali a cui orientare l’azione e i vincoli da rispettare.
Ciò che rende incerta l’affidabilità del nostro Paese per i nostri partners europei è che questa condivisione degli obiettivi fondamentali da conseguire e dei vincoli da rispettare, tra le forze politiche principali, non c’è. Non c’è nel PdL, il cui leader Berlusconi proclama la sua fedeltà al Governo Monti un giorno sì e uno no, ma nel giorno no si riserva esplicitamente di fare concorrenza a Beppe Grillo sul suo stesso terreno. Ma va detto che non c’è a sufficienza neppure nel Pd così come esso si presenta oggi, se è vero che in una parte della sua dirigenza predomina ancora l’idea di una nuova “Europa di sinistra” che dovrebbe consentire all’Italia di sostituire almeno in parte alla politica del rigore del Governo Monti una politica “sviluppista”; dove però poi, a ben vedere, stringi stringi lo “sviluppismo” consisterebbe nel disfare alcune cose essenziali fatte dal Governo Monti durante i pochi mesi in cui è stato in carica: per esempio, nel ripristinare le pensioni svincolate dal requisito di età anagrafica (per i cinquantenni e sessantenni di oggi, si intende), ripristinare l’inamovibilità protetta da vecchio testo dell’articolo 18 per chi il lavoro fisso ce l’ha, ripristinare la Cassa integrazione “a perdere” come strumento per la soluzione delle crisi occupazionali aziendali; soprattutto, ripristinare la possibilità di far debiti lasciandoli da pagare alle generazioni che verranno. Quando questi dirigenti politici con la testa rivolta all’indietro parlano di “equità”, se si va a vedere la cosa da vicino ci si accorge che parlano quasi sempre di restituire qualcosa a qualche gruppo di cinquantenni o sessantenni, anche al costo di aumentare il debito pubblico destinato a essere pagato da quelli che di anni oggi ne hanno venti, o non sono ancora nati. La vera, grande opera di equità, invece, oggi è liberare almeno in parte questi ultimi dal fardello ingiusto che abbiamo posto sulle loro spalle; e rimodellare il tessuto sociale e produttivo in funzione delle loro esigenze vitali.
La riduzione del nostro debito sovrano deve avvenire principalmente attraverso la dismissione del patrimonio pubblico poco o male utilizzato e, se necessario, eventualmente anche con un prestito forzoso a carico della parte più ricca dei soggetti privati. Le leve su cui possiamo ragionevolmente agire e i giacimenti di risorse cui possiamo attingere per reinnescare un ciclo di sviluppo economico, sono invece: una drastica riduzione degli interessi sul debito stesso con la costruzione dell’unione fiscale europea e l’eliminazione dei molti enormi sprechi che caratterizzano le nostre amministrazioni. Su quest’ultimo punto c’è ancora tutto da fare. Lo stesso Governo Monti, su questo terreno può essere criticato per non avere fatto abbastanza, per non avere fatto con l’efficacia necessaria, per un difetto di tempestività nella soluzione dei problemi della transizione dal vecchio al nuovo assetto; ma sono, queste, critiche che devono essergli mosse in nome dei principi stessi che sono alla base del suo programma. Sono tutte questioni cui vanno date soluzioni coerenti con gli obiettivi di fondo che lo stesso Governo Monti si è proposto di conseguire. Per rendere più efficace e compiuta l’azione di riforma, non per limitarne la portata. D’altra parte, è evidente come il successo della stessa fondamentale scommessa di Monti sulla nostra partecipazione da protagonisti alla costruzione del sistema di governo europeo dell’economia sia in larga parte legato al successo dell’iniziativa sul terreno interno della razionalizzazione della nostra cosa pubblica.
A ben vedere, questo è oggi ‑ e resterà ancora per qualche anno – il vero spartiacque della politica italiana: quello che corre tra chi è convinto della necessità e possibilità della scommessa europea dell’Italia come massima possibile garanzia per le nuove generazioni, e chi è convinto del contrario. Se, come sembra volere una larga maggioranza degli italiani, scegliamo la strada di una ricostruzione del nostro Paese totalmente iscritta nel grande disegno dell’Unione politica ed economica Europea, per qualche anno le distinzioni tra destra e sinistra resteranno, sì, ma non saranno quelle decisive. Decisiva sarà la capacità di percorrere il sentiero stretto che ci condurrà ad allineare il nostro Paese rispetto ai migliori standard europei in tutti i campi, a riconquistare la stima, la fiducia e la solidarietà degli altri popoli del continente e dei loro Governi. Decisive saranno le idee e il know how indispensabili per recuperare le risorse là dove oggi vengono sprecate, per realizzare una profonda revisione di tutti i meccanismi amministrativi, per far sì che una dirigenza pubblica motivata e correttamente incentivata, si riappropri delle proprie prerogative manageriali e incominci a esercitarle incisivamente per ridare efficienza e produttività alle strutture, trasferendo le risorse disponibili dai rami secchi alle amministrazioni che hanno bisogno di un potenziamento degli organici. Decisive saranno le idee e il know how indispensabili, nel settore privato, per promuovere il trasferimento dei lavoratori, rapido e in condizioni di massima sicurezza economica e professionale, dalle strutture produttive in fase di contrazione o chiusura a quelle in fase di espansione.
Oggi in Italia – noi ne siamo fortemente convinti – il Pd costituisce la forza politica che ha maggiore titolo per candidarsi a dare voce e rappresentanza alla larga maggioranza degli italiani che è favorevole alla grande scommessa europea e pronta a farsi carico dei sacrifici che essa può comportare. Lo stesso Pd, dunque, può e deve candidarsi a guidare la maggioranza parlamentare che nella prossima legislatura continuerà l’opera iniziata dal Governo Monti in quest’ultimo anno. Ma per questo occorre che vengano superate alcune ambiguità, alcune reticenze, alcune riserve mentali, alcuni eccessi di condiscendenza nei confronti dell’egoismo della mia generazione, che sono incompatibili con quella scelta strategica.

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