martedì 25 settembre 2012

Perché ho scelto Bersani

Ho interpellato alcuni esponenti del Partito Democratico che sostengono alle primarie Pierluigi Bersani per conoscere le motivazioni di questa scelta rispetto ad alcune tematiche: giovani, donne, piccole e medie imprese, amministrazione, competenze e rinnovamento. Dalle dichiarazioni sono emersi pensieri e valutazioni molto interessanti ed utili per chi pensa di partecipare alle primarie.
A Matteo Avogaro, segretario di Generazione Democratica di Verona ho chiesto:
Perché i giovani dovrebbero scegliere Bersani alle primarie?
Perché Bersani ha messo al centro della sua proposta il lavoro, e il gioco di squadra. Che sono i due elementi su cui la mia generazione deve puntare per riscattarsi, riconquistare la dignità che le è stata sottratta, ed il diritto a potersi costruire una vita da "adulti". Noi ventenni di oggi siamo cresciuti nell'Italia del berlusconismo, dell'egoismo diffuso, dell'"uomo solo al comando": tutte cose che ci hanno portato nel pieno della crisi in cui siamo ora. E' quindi il momento di dire basta agli uomini della provvidenza, di mettere al centro l'idea di lavorare insieme, e un progetto di crescita economica e sociale che non lasci indietro nessuno, soprattutto i più deboli, tra i quali ci sono le nuove generazioni. Su questi temi Bersani, e la sua squadra di giovani composta da Alessandra Moretti, Tommaso Giuntella e Roberto Speranza, sono una garanzia e un'assicurazione per l'Italia di domani.
Serena Capodicasa, consigliere di circoscrizione di Verona, ha risposto alla seguente domanda:
Alle primarie del centro sinistra, oltre a Bersani e Renzi, si presenta Laura Puppato. Perché hai deciso di sostenere Bersani anziché una donna molto stimata nel Veneto come Laura Puppato?
La stessa domanda potresti farmela su Renzi, visto che ho molto apprezzato alcune sue iniziative come quella fatta a Firenze quest'anno con gli amministratori di tutta Italia, perché è giovane e parla di rinnovamento del Partito, come faccio io. E come lui Laura ha moltissime qualità: vive la politica al femminile, è un nuovo volto che potrebbe dare una scossa al Partito, in maniera più intelligente di come sta facendo Renzi e poi è veneta!
Ma il punto non è questo: non disdegno gli altri candidati ma rifletto su cosa stiamo andando a fare.
Io voglio che il mio Partito vada unito e compatto alle elezioni politiche più importanti degli ultimi 20 anni, delle elezioni in cui il dittatore mediatico di questo Paese non è più politicamente rilevante e in cui la sinistra ce la può o ce la deve fare, diventando protagonista vero dell'amministrazione del Paese. Questo non è possibile in un quadro in cui, prima ancora di decidere la legge elettorale che ci sarà, iniziano a spuntare candidature per le primarie di coalizione, tutte e tre del PD: ricordiamoci che non è un Congresso, ma è il momento in cui bisogna stare tutti a guscio di tartaruga, uniti e spaccare tutto.
Non ho mai avuto la tendenza, in un conflitto specie se intrapartito, di fare la super sponsor del leader scelto, per le cose che ho detto prima: qui non è il leader che conta ma tutto un Partito che deve stare compatto, ora o mai più. E stare compatti riferendosi al Segretario Nazionale del Pd è il migliore dei modi. E poi non guasta il fatto che Bersani sia una persona che a livello istituzionale ha già dimostrato buone capacità, una persona che ha anche capito che dobbiamo smetterla con i compromessi che strizzino sempre l'occhio al liberismo spinto, che ci ha portato fin qua, ma bisogna ricominciare veramente a amministrare il Paese per le persone, non per il soldi.
L'augurio che faccio a tutti è che finite queste primarie "inter nos" si possa veramente essere un'unica "macchina da guerra" che ci faccia vincere queste elezioni, sperando che queste primarie non siano troppo tardi.
Al consigliere della Provincia di Verona Diego Zardini ho posto le seguenti domande:
Lei è un consigliere provinciale molto attento ai problemi del territorio ed ha scelto di sostenere Bersani alle primarie. Il suo ruolo di amministratore ha influito nella scelta di Bersani alle primarie?
Senz'altro essere amministratori locali, in un periodo storico così difficile per le pubbliche amministrazioni, sia sotto il profilo finanziario sia a causa dell'insofferenza dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni, ci obbliga ad una concretezza e ad un pragmatismo che ci induce a scegliere la miglior proposta di merito. Bersani, da amministratore locale prima, da ministro poi ha già dimostrato di conoscere la macchina statale, di essere in grado di adottare riforme innovative di sicuro impatto positivo per il sistema economico e sociale del nostro paese. Bersani è stato il riformatore più innovativo e concreto degli ultimi decenni. Grazie a lui il mercato ha superato alcune ingessature che ci relegavano in fondo alle classifiche dell'OCSE. Insomma, da amministratore credo fermamente che le proposte mirate di Bersani siano le più concrete ed efficaci per il bene dell'Italia.
Le competenze di Bersani potranno aiutare il paese a superare la crisi e realizzare una maggiore giustizia sociale?
Certamente l'esperienza dimostrata del campo sono una confortante garanzia. Bersani ha avviato una stagione di liberalizzazioni, di quelle che riguardano la vita di tutti i giorni di ogni cittadino. L'impatto sulla qualità della vita ed i riflessi di una maggiore giustizia sociale si sono misurati in passato. Purtroppo l'avvento del governo targato PDL e Lega, ha bloccato ogni passo avanti, anzi ci ha fatti regredire e finire sull'orlo del baratro. Insomma per un governo progressista, riformista ed innovatore c'è ancora tanto da fare e l'Italia ne ha ancora tanto bisogno. Questo governo in grado di risollevare le sorti degli italiani e dell'Italia non può che essere un governo targato PD e Bersani è il più qualificato a raggiungere questo obbiettivo.
Ad Alessandra Salardi, responsabile Impresa e Territorio del Pd di Verona, ho rivolto una domanda che riguarda le sue competenze:
Lei conosce le problematiche delle piccole e medie imprese per la sua provenienza e per l’incarico che ricopre nel Pd di Verona. La strategia di Bersani comprende il sostegno alle piccole e medie imprese che rappresentano circa il 95% delle imprese italiane?
Il Partito Democratico ha una vera passione per l'economia reale: valorizzare il lavoro e sostenere la domanda interna. Il PD è il partito del territorio in tutto il Paese, le piccole imprese diffuse sono l'equilibrio del sistema. E oggi c'è un grande squilibrio nell'economia reale." Queste le affermazioni che il segretario Pierluigi Bersani ha pronunciato a conclusione della Conferenza Nazionale sulla piccola e micro impresa che si è tenuta a Monza nell'ottobre dello scorso anno. Forse un grillo parlante quando, in tempi non sospetti, piú di un anno fa, cercava di riportare l'attenzione della politica ai temi concreti che tutti i giorni preoccupano e assillano le piccole imprese: i tempi dei pagamenti, l'accesso al credito, il pesante carico fiscale, le infrastrutture, la necessità di fare rete. E questo é parlare di lavoro per il 95% delle imprese italiane. Da quella Conferenza di Monza, la prima nel PD, il segretario non ha mai mancato di sottolineare e premere su questi temi nei riguardi del governo Monti. Forse anche perché, con la sua capacità di ascolto, ha fatto proprie le istanze di tutti quegli imprenditori che quel giorno si sono rivolti a lui con le loro testimonianze.
Massimo Lanza che ricopre l’incarico di segretario del Circolo di Caldiero (VR) è stato disponibile a rispondere ad una domanda più politica:
Si tratta di primarie di partito o per la premiership? Lei crede che Renzi sia il vero innovatore perché propone la rottamazione o che Bersani abbia una sua idea per realizzare il cambiamento nel Partito Democratico e nel Governo?
Mi auguro che le primarie possano indicare il candidato primo ministro per la coalizione di centro sinistra. Avranno conseguenze importanti anche all’interno del Partito ed un’ulteriore incertezza deriva, ora, dalla legge elettorale che verrà adottata. Una legge maggioritaria con forte premio di maggioranza, come l’attuale, farà diventare la competizione vere primarie di coalizione.
Renzi ha l’indubbio grande pregio di aver fatto diventare un tema importante per la politica la grande anomalia italiana della eccessiva longevità politica di troppi leader del passato. Da questo punto di vista è un vero innovatore che ha dimostrato anche capacità comunicative che spesso mancano al PD ed ai suoi esponenti.
Ovviamente l’innovazione passa anche da altri aspetti e a me piace citare la partecipazione democratica: in questo campo è il Partito Democratico ad essere il vero innovatore, con la sua capacità di confronto e di condivisione di idee e progetti attraverso un processo di coinvolgimento di tantissimi iscritti, sostenitori e dirigenti.
Bersani impersona, dal mio punto di vista, questa grande capacità di innovazione che ha tempi più lenti e minore visibilità ma permetterà di consolidare nel tempo il ruolo del PD in Italia.

Per approfondire la personalità e le competenze di Pierluigi Bersani si consigliano i seguenti libri:
- Pierluigi Bersani, Per una buona ragione, Laterza, 2011;
- Ivan Scalfarotto, Ma questa è la mia gente, Mondadori, 2012. In questo libro è compresa una conversazione tra Ivan Scalfarotto e Pierluigi Bersani.

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Contratto chimici: la Cgil ci ripensa

Articolo di Giulio Sapelli pubblicato sul Corriere della Sera il 25 settembre 2012
L'Italia continua a essere un Paese straordinario, ricco di risorse umane e di solidarietà sociale che fondano la tenuta sia tecnologica sia economica del nostro sistema produttivo e della società tutt'intera. A fronte di un potere politico in trasformazione profonda per la crisi dei partiti e uno scenario economico internazionale sempre più difficile, ogniqualvolta si fa appello alla condivisione e alla partecipazione, l'Italia rivela se stessa. Vien da pensare a quelle tre virtù «penultime» che per Simone Weil dovevano riempire i cuori e informare i comportamenti dei produttori, datori di lavoro e lavoratori: l'umiltà, l'attenzione, il rispetto. Non è fuori luogo richiamare questi valori quando leggiamo le ipotesi di accordo di rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore chimico, firmato il 22 settembre scorso. Accordo importantissimo che si inserisce tempestivamente nel dibattito in atto sulla produttività e a tale dibattito può dare un grande apporto. I tempi in cui quest'intesa è stata raggiunta sono stati rapidissimi: solo due incontri nell'arco di una settimana. E questo grazie a un dialogo tra le parti sociali che fin dal giugno del 2011 è stato continuo, pragmatico e diretto a risolvere i problemi con una mentalità innovativa. Si pensi che al centro del contratto vi è un concetto di produttività fondato sulle capacità personali, sulle buone relazioni industriali e quindi sulla flessibilità organizzativa che da queste discende. La formazione è al centro quindi non solo della produttività, ma anche della capacità del lavoratore di svolgere determinate attività che consentono una flessibilità nella prestazione lavorativa mai punitiva.
Produttività e buona occupazione sono i temi centrali di questo accordo che a mio parere ha un ruolo storico perché fonda il rispetto da parte di tutti delle norme contrattuali sulla qualità delle relazioni industriali e sulla valorizzazione del livello aziendale della contrattazione collettiva, collegando strettamente la competitività dell'impresa con l'informazione e la partecipazione dei lavoratori. Essenziale in questo contratto è il concetto di «occupabilità». Esso si sostanzia delineando un patto di solidarietà generazionale che si fonda sulla disponibilità delle aziende firmatarie a investire su nuove assunzioni di giovani a fronte della disponibilità dei lavoratori anziani occupati a trasformare in vista della pensione il proprio contratto da full time a part time. Ecco un patto sociale intergenerazionale che non solo offre ai giovani l'opportunità di lavorare ma riduce il carico di lavoro delle persone più anziane investendole di una grande responsabilità sociale. Naturalmente questo progetto, secondo un'impegnativa logica della sussidiarietà, chiama a gran voce interventi legislativi necessari per attenuare l'impatto sulle retribuzioni e sul trattamento pensionistico dei lavoratori che potrebbero dare la loro disponibilità a un'uscita anticipata e graduale grazie al part time. Se consideriamo gli aspetti di welfare aziendale e gli aumenti retributivi previsti che sono già tipici delle categorie interessate al contratto vediamo che si delinea davanti a noi un sistema di relazioni industriali fortemente innovativo per il nostro Paese e che si allinea alle esperienze internazionali «comunitarie» delle altre nazioni. Inoltre, per dirla in termini tecnici, quest'accordo ha un'assoluta coerenza con quello confederale del 28 giugno 2012 che ha segnato un punto di contatto importante tra tutte le organizzazioni sindacali nazionali. È sconcertante in questo contesto l'episodio di cui è stato protagonista il valoroso segretario generale di categoria della Cgil Alberto Morselli. Egli, dopo aver firmato il contratto, si è senza clamori dimesso. Io credo per la dichiarazione di Susanna Camusso la quale, interpellata sull'accordo, ha detto che avrebbe dato un giudizio solo dopo averne letto attentamente il testo, sconfessando di fatto il suo sindacato di categoria. Si ripropone qui in tono forse più drammatico per i tempi che viviamo la vicenda che investì Bruno Trentin nel giugno 1992, quando si dimise da segretario generale della Cgil dopo aver firmato l'accordo che disdettava il nefasto patto sul punto unico di scala mobile. La ragione di ciò sta nel fatto che le tre virtù penultime di Simone Weil, che sono la fonte di una buona vita lavorativa, per diventare carne e sangue della vita quotidiana di chi lavora hanno bisogno anche di una delle importanti virtù cardinali che spesso dimentichiamo: la virtù della temperanza, che ci rende capaci di equilibrio, dominando gli istinti e mantenendo i desideri nei limiti della responsabilità. Naturalmente solo i forti sanno essere temperati, e solo i forti sanno essere prudenti e giusti. E in quest'Italia dilacerata la forza e la giustizia vengono dal mondo del lavoro e dell'impresa socialmente orientata e perciò avviata a una maggiore redditività economica. Per questo spero che Morselli torni al suo posto al fianco dei lavoratori.

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domenica 23 settembre 2012

Trasparenza o Privacy?

Occorre fare della trasparenza un fattore condiviso nelle autonomie locali e nelle amministrazioni centrali dello Stato. Nonostante l'art. 11 del D. Lgs. n. 150 del 2009 siamo ancora lontani dalla sua piena applicazione. La cultura dell'opacità e dell'omertà causa disastri inimmaginabili. Si ricorda a tale proposito Enron, Parmalat e Lehman Brother.
Il sistema politico va valutato per quello che è e non per quello che sembra. Per tale motivo occorre trasparenza. Infine occorre ricordare che l'omertà favorisce la criminalità organizzata e la corruzione. La trasparenza incide positivamente sull’incremento della ricchezza nazionale.
Intervento di Pietro Ichino al convegno del 19 settembre 2012 presso la F.N.S.I , Iniziativa per l’adozione di un Freedom of Information Act (FOIA) anche in Italia, in occasione della Giornata della Trasparenza. Dal sito http://www.pietroichino.it/
In questo mio breve intervento accennerò soltanto a tre punti che mi paiono importanti: valorizzare le norme già esistenti; anticipare la riforma legislativa della trasparenza totale con i nostri comportamenti; correggere la distorsione che si è determinata nella cultura giuridica della privacy. A ben vedere questi tre punti possono essere ricondotti a uno solo: incominciamo a praticare i principi e le regole della full disclosure subito, anche a legislazione invariata. Questo preparerà il terreno a una maggiore effettività della nuova legge, quando finalmente arriveremo a dotarcene.
1. Valorizzare le norme già esistenti. – Sia pure in modo assai difettoso, tuttavia il principio della trasparenza totale ha già incominciato a essere enunciato nella legge-delega per la riforma del 2009 delle amministrazioni pubbliche (legge n. 15/2009, articolo 4, comma 2, lettera h), che vincola le amministrazioni ad “assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione”), a essere precisato nel decreto-delegato emanato in adempimento di quella delega legislativa (d.lgs. n. 150/2009, articolo 11, che sancisce il principio di “accessibilità totale … delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati delle attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti…”) e a essere ulteriormente precisato nel Codice della protezione dei dati personali (comma 3-bis inserito nell’articolo 19 del d.lgs. n. 196/2003 dall’articolo 14 del Collegato lavoro, l. n. 183/2010, che sgombera il campo da un ostacolo sistematicamente opposto al tentativo di impedire la piena attuazione della norma del 2009, vincolando le amministrazioni a rendere accessibili a chiunque “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione, con la sola eccezione delle “notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro”). Queste norme, certo, non hanno l’incisività dei Freedom of Information Acts statunitensi e britannici; ma costituiscono pur sempre un punto di riferimento normativo importante, che potrebbe essere valorizzato molto più di quanto non si sia fatto in questi primi tre anni di loro applicazione. La stessa legge del 2009, poi, ha istituito un’autorità indipendente, la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni-CIVIT, che dovrebbe considerarsi preposta anche all’attuazione e promozione di quel principio di trasparenza. E, aggiungo io, che dovrebbe costituire una sorta di contraltare dell’Autorità per la protezione dei dati personali, promuovendo nel settore pubblico il necessario contemperamento tra i principi di full disclosure e privacy. Dunque non mancano disposizioni legislative alle quali ben potrebbe farsi riferimento per incominciare a praticare su larga scala i principi e il metodo della full disclosure nelle amministrazioni. Invece, su questo fronte tutto tace; e anche la Civit, fino a oggi, si è mostrata assai poco attiva su questo fronte. Non solo: si assiste anche a comportamenti amministrativi che vistosamente contraddicono quei principi e quel metodo. Solo alcuni esempi: nessuna amministrazione mette on line i mandati di pagamento e gli atti su cui essi si basano, in particolare i contratti con i fornitori e collaboratori privati; quasi nessuna amministrazione mette on line i dati relativi alle valutazioni della propria performance, i dati sui propri organici, sulle qualifiche, mansioni specifiche e retribuzioni dei dipendenti, sui loro tassi di assenze, sulle valutazioni delle loro prestazioni: qui domina ancora l’idea che il diritto alla privacy escluda questa pubblicazione, nonostante che due anni fa – come si è visto – nel Codice della protezione dei dati personali sia stata inserita una disposizione mirata esplicitamente ad affermare il contrario. E ultimamente l’ANVUR (che pure merita per altri aspetti tutto il nostro plauso), ignorando totalmente quella disposizione, ha addirittura pubblicamente addotto esigenze di protezione della riservatezza individuale a giustificazione della non pubblicazione delle valutazioni dei risultati individuali della ricerca universitaria.
2. Anticipare la riforma con i nostri comportamenti. – A questa inerzia occorre incominciare a contrapporre il maggior numero possibile di iniziative volte ad applicare fin d’ora i principi e le regole della full disclosure, anche a legislazione invariata, in attesa che un Freedom of Information Act nostrano segni definitivamente la svolta, con il pieno allineamento per questo aspetto dell’Italia ai Paesi più avanzati. Vedo un primo luogo dove questa anticipazione sarebbe integralmente possibile, con effetti dirompenti, negli enti locali – Comuni e Province – alla cui testa stia un sindaco o presidente che crede nel valore della trasparenza totale. Così, per esempio, ho salutato con grande soddisfazione il fatto che Matteo Renzi abbia inserito nel proprio programma per le primarie del centrosinistra un capitoletto sull’introduzione del Freedom of Information Act nel nostro Paese; ma ho anche osservato che Renzi è oggi sindaco di una grande città italiana; e che, se crede davvero in questo principio, nulla gli impedisce di farlo applicare in modo totale e rigoroso nell’amministrazione municipale di cui egli è il capo. Sono anche convinto che solo l’applicazione rigorosa del principio di trasparenza totale possa testimoniare la volontà dei partiti di voltar pagina in modo radicale rispetto alle malversazioni di cui abbiamo purtroppo visto negli ultimi mesi e ancora in questi ultimi giorni numerose tragiche manifestazioni, in tutto l’arco delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Per questo mi sono battuto affinché il gruppo parlamentare a cui appartengo adottasse fin d’ora la full disclosure come principio ispiratore di tutta la propria amministrazione; una delibera in questo senso è stata effettivamente adottata dalla Presidenza del gruppo dei senatori democratici nel luglio scorso, ma a tutt’oggi non ha ancora incominciato a essere messa in pratica: spero che l’attuazione non tardi. Ma penso che tutti i partiti dovrebbero sentire la necessità vitale – prima ancora che il dovere morale – di incominciare immediatamente ad applicare questo principio, se vogliono recuperare la fiducia di una parte almeno del loro elettorato. E invece si assiste alla ridicola discussione circa la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari: come se il problema fosse quello di confermare la solidità di quei bilanci (chi mai dubita della solvibilità di questi soggetti?), e non quello della trasparenza, della possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica su ogni voci di spesa di quel denaro, che è pubblico all’origine e resta sostanzialmente tale quando è usato per far funzionare un ente di rilevanza costituzionale, quali sono i partiti e i loro gruppi parlamentari. Occorrerebbe che l’opinione pubblica esigesse fin d’ora, con grande forza, l’applicazione di questo principio da parte dei partiti e gruppi parlamentari, così forzando anche il legislatore a disporre nello stesso senso in sede di riforma del finanziamento pubblico della politica.
3. Correggere gli eccessi e le distorsioni della cultura della privacy. – Infine, occorre che gli studiosi del diritto e gli opinionisti incomincino a sottoporre a una revisione attenta e profonda l’intera costruzione giurisprudenziale che è venuta formandosi, soprattutto per opera dell’Autorità per la protezione dei dati personali, intorno alla nozione di diritto alla riservatezza e alle sue implicazioni in materia di conoscibilità e circolazione dei dati. Ho proposto poc’anzi alcuni esempi dell’uso indebito che del principio di protezione della privacy si è progressivamente fatto nell’ultimo ventennio per evitare la trasparenza totale delle amministrazioni e impedire la circolazione di dati che nulla hanno a che fare con la vita privata delle persone. Dal principio costituzionale di protezione della persona umana si è voluto dedurre una regola di inconoscibilità dei dati inerenti alla vita delle persone, che – secondo i suoi sostenitori – dovrebbe essere considerata come regola generale, suscettibile soltanto di eccezioni ben delimitate disposte da norme legislative specifiche. Questa costruzione viene, così, utilizzata di volta in volta per affermare la non conoscibilità delle valutazioni dell’attività didattica e di ricerca dei singoli professori universitari, la non utilizzabilità dei dati di cui le scuole dispongono sulle carriere scolastiche degli studenti, o dei dati di cui dispongono le amministrazioni giudiziarie sull’attività dei singoli magistrati nell’esercizio della loro funzione, e così via. Siamo arrivati all’assurdo per cui, in nome della privacy (qui utilizzata per coprire la pigrizia degli addetti), la quasi totalità degli Istituti scolastici rifiuta di fornire informazioni sui diplomi, con i relativi voti di profitto, rilasciati ai propri ex-studenti! Credo che il danno prodotto da questa distorsione della nozione di protezione dei dati personali per il progresso civile ed economico del nostro Paese sia molto grave. In attesa di una legge che ristabilisca l’equilibrio necessario tra diritto delle persone al riserbo e libertà di circolazione delle informazioni, e di un’autorità per la trasparenza delle amministrazioni che si occupi di difendere questo equilibrio, è indispensabile che incominciamo fin d’ora a costruire nel settore pubblico la cultura della full disclosure".

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sabato 22 settembre 2012

Manifesto Capitalista

Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta di Luigi Zingales



Una delle prime vittime della crisi economica è stata la fiducia: chi aveva creduto che libertà e uguaglianza fossero raggiungibili grazie al libero gioco del mercato si è ritrovato amaramente deluso. Ma come è successo, e quando, che il sogno di prosperità per tutti del capitalismo si trasformasse in un incubo di ingiustizia e povertà degno del peggior comunismo sovietico? Quando si è diffusa l'idea che "fare impresa" voglia dire orientare le scelte politiche per favorire l'interesse di pochi a scapito della collettività, anziché impegnare il proprio talento nella ricerca di un futuro migliore, aperto a tutti? Se non rispondiamo a queste domande, abbandonandoci al populismo naif con il suo generico rifiuto dei meccanismi economici, rischiamo di perdere quello che rimane il migliore dei sistemi possibili: con tutti i suoi difetti, offre pur sempre le migliori opportunità al maggior numero di persone. Alla degenerazione del capitalismo finanziario, alimentato anche in Italia da nepotismo, corruzione e incompetenza, Luigi Zingales contrappone idealmente il liberalismo delle origini, l'antidogmatismo e la fiducia nell'armonica convergenza di interessi individuali e collettivi; difende il mercato come regno delle opportunità e della produzione di ricchezza al servizio dei cittadini, purché ripulito da lobby e monopoli che fanno pagare alla comunità i disastri che hanno provocato.

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venerdì 21 settembre 2012

Il team di Pierluigi Bersani

Pier Luigi Bersani ha presentato la squadra che lo accompagnerà nella campagna elettorale per le primarie: Portavoce Alessandra Moretti, 39 anni, vicesindaco di Vicenza, tra i componenti Tommaso Giuntella, 25enne segretario del circolo Mazzini di Roma e consigliere municipale, e Roberto Speranza, segretario della Basilicata.
Intervista a Alessandra Moretti a cura di Monica Guerzoni pubblicata sul Corriere della Sera il 21 settembre 2012.
Cosa pensa di Matteo Renzi? Nel Pd c`è chi lo dipinge come uno sfacciato e presuntuoso...
«E una risorsa importante per il partito».
Ma lei, Alessandra Moretti, non è la nuova portavoce del comitato di Bersani?
«Eccomi qua. Ma noi e Renzi lavoriamo insieme, abbiamo gli stessi obiettivi. Le primarie servono a rafforzare la politica e io apprezzo molto chi ci mette la faccia».
Lei ha 39 anni, cosa pensa della rottamazione?
«A Matteo mi sento di dire che il rinnovamento si fa soprattutto negli organismi del partito. Il Pd, da quando c`è Bersani, ha dei segretari regionali giovanissimi».
D`Alema, Veltroni, la Bindi... Devono andare tutti a casa?
«Non sta a noi chiederlo, penso stia alla loro sensibilità e intelligenza sapere se, e quando, è il momento di fare un passo indietro».
Se Bersani va a Palazzo Chigi, lei che ruolo avrà?
«Non lo so, sono a disposizione. Continuerò a fare la vicesindaco a Vicenza, la mia città. Bersani è un grande innovatore, serio e competente. Spero per l`Italia che sia lui il prossimo premier».
Per lo staff di Renzi è un comunista «alla Ceausescu». I sindaci non dovrebbero essere neutrali?
«Ognuno è libero di scegliere con chi stare e anche i sindaci si possono schierare. Il mio, Variati, sta con Renzi... Mi piacerebbe che ci fosse un confronto aperto, per dare voce non alle polemiche interne, ma agli elettori delusi e alle donne, che non sono rappresentate».
Lei ha due figli, come fa a conciliare la famiglia, la politica e lo studio di avvocato?
«Noi donne viviamo in trincea, molto più dei maschi».

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Proposte sulla produttività

Articolo di Tito Boeri pubblicato su La Repubblica il 19 settembre 2012
Sbaglia Marchionne: il mercato italiano non è morto. Neanche quello dell'auto. Al contrario potrà riprendersi in misura proporzionale all'intensità della recessione che stiamo vivendo.
Bisogna in tutti i modi cercare di accorciarla e l'unica strada perseguibile in questo momento è quella di aumentare la competitività delle nostre esportazioni e puntare ad intercettare la domanda che proviene da economie più dinamiche della nostra nella zona euro e al di fuori di questa. Chi oggi chiede di stimolare la domanda interna con spesa pubblica ha perso contatto con la realtà: la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza che verrà presentata dal Governo a fine settimana dovrà per forza di cose riconoscere che la recessione quest'anno sarà quasi due volte più dura del previsto e che questo farà aumentare il deficit pubblico nel 2012 di almeno mezzo punto di pil. Il governo ha escluso di voler ricorrere ad una manovra bis.
Ma è certo che in questo modo l'obiettivo del bilancio in pareggio nel 2013 si allontana ulteriormente e soldi per misure espansive proprio non ce ne sono.
Dobbiamo contare sulle nostre forze. La svolta della Bce è servita a prendere tempo, stabilizzando i mercati e riducendo lo spread, ma anche sperando che questo armistizio duri più a lungo che in occasione di precedenti interventi dell'Eurotower, non servirà comunque a migliorare la congiuntura. A differenza della Fed, la Bce non sta mettendo direttamente soldi nel circuito dell'economia, ha solo promesso un intervento condizionato, definito in modo tale da essere altamente improbabile. È come se avesse messo uno spaventapasseri in un campo di grano arso dalla siccità. Speriamo che basti. Inoltre non si è impegnata a tenere i tassi il più possibile vicino allo zero, cosa che avrebbe spinto ad una svalutazione dell'Euro, stimolando la crescita delle esportazioni soprattutto nei paesi del contagio. L'unica spinta alla nostra economia può oggi provenire dalla domanda estera. Dobbiamo renderci più competitivi sapendo di non poter svalutare la moneta rispetto ai nostri maggiori partner commerciali. Tre sono le strade per raggiungere questo obiettivo. La prima è quella di una svalutazione fiscale, che abbassi il cuneo fiscale finanziando, almeno in parte questo intervento con un aumento dell'Iva. Il Governo si è impegnato a non aumentare le aliquote Iva, ma una parte del gettito potrebbe essere reperita armonizzando le aliquote, il che servirebbe anche nel contrastare l'evasione, assai diffusa nel caso della tassazione indiretta. Anche le risorse della spending review potrebbero essere destinate prioritariamente alla riduzione delle tasse sul lavoro, anziché disperdere le esigue risorse disponibili nei tanti piccoli interventi, non pochi di dubbia efficacia, previsti dal decreto sviluppo bis. La seconda strada è quella degli aumenti di produttività. In effetti è in gran parte dall'andamento deludente del prodotto per ora lavorata nell'industria quanto nei servizi che si è accumulato il divario di competitività nei confronti degli altri paesi dell'area dell'Euro, a partire dalla Germania, dal 2000 in poi. Ma aumentare la produttività è più facile a dirsi che a farsi. Bene sperare che le riforme strutturali diano i loro frutti, ma prudente non contarci, almeno nell'immediato. La terza strada è quella che passa attraverso la moderazione salariale ottenuta attraverso una revisione delle regole della contrattazione. Di questo si sta ora discutendo nei confronti fra le parti sociali, lontani dal polverone del negoziato col governo sulla produttività. È un bene che il pallino sia ora in mano alle parti sociali e che si voglia dare attuazione agli accordi di luglio e settembre 2011 che puntavano su di un'espansione della contrattazione aziendale. Si è già perso troppo tempo e bisogna essere concreti. Si discute di rappresentanze sindacali, cosa fondamentale per avere qualcuno che possa sedersi al tavolo e prendere impegni con la controparte anche quando i sindacati sono divisi, e di abolire la tutela automatica del potere d'acquisto dei salari. Sin qui i contratti nazionali prevedevano un incremento automatico in base alle previsioni (prima dell'Isae e ora dell'Istat) sull'andamento dell'indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo (Ipca), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici. Abolendo questa regola, è possibile che, d'ora in poi, i contratti nazionali possano comportare riduzioni in termini reali delle retribuzioni. Per capire il significato di questa scelta così difficile per il sindacato, dato il basso livello dei salari in Italia, bisogna guardare all'esempio della Germania nell'ultimo decennio. In questi anni la produttività per ora lavorata è aumentata di quasi il 2 per cento all'anno e, nonostante questo i salari sono cresciuti solo dello 0,5% all'anno. In altre parole, solo un quarto dei guadagni di produttività è finito nelle tasche dei lavoratori. Da noi, nello stesso periodo, la produttività del lavoro è aumentata mediamente dello 0,4% e i salari dello 0,9%, quindi le retribuzioni, pur rimanendo al palo, sono cresciute due volte di più della produttività. Questo spiega i 25 punti di competitività (tecnicamente si chiama costo del lavoro per unità di prodotto), persi in questi 12 anni nei confronti della Germania. In Germania i contratti di categoria non prevedono alcun aggiustamento automatico all'inflazione (la Bundesbank aveva vietato qualsiasi tipo di indicizzazione). Però nei contratti collettivi ai vari livelli gli incrementi salariali richiesti dal sindacato hanno sempre una componente legata all'inflazione e i salari storicamente hanno tenuto il passo con la dinamica dei prezzi al consumo. C'è però una differenza importante fra Italia e Germania: da noi ci sono molte più piccole imprese che da loro, e per queste imprese i contratti nazionali sono l'unica fonte di variazione dei salari. Nel momento in cui si abolisse l'aggiustamento in base all'Ipca, bisognerebbe allora introdurre delle clausole che leghino automaticamente i salari all'andamento della produttività. Ad esempio, si può stabilire che il 50 per cento di ogni incremento del reddito lordo operativo per addetto venga trasferito in busta paga. Questa regola dovrà essere applicata in tutte le imprese a meno di accordi aziendali che dispongano diversamente. In altre parole, anche dove non c'è il sindacato, ci potranno essere incrementi salariali a fronte di incrementi di produttività, senza dover necessariamente passare attraverso un tavolo di contrattazione e un negoziato con il sindacato. Bisognerebbe anche garantirsi che questa riforma delle regole della contrattazione non aumenti ulteriormente la povertà fra chi lavora. Questo significa introdurre un salario minimo orario che valga per tutti i lavoratori, per tutti i settori produttivi e periodicamente aggiornare questo compenso minimo in modo tale da tenere il passo con l'inflazione. Anche questa misura sarebbe funzionale a un maggiore decentramento della contrattazione e, al tempo stesso, tutelerebbe il potere d'acquisto dei lavoratori in posizione più debole. Non crediamo che l'Europa e i mercati finanziari avrebbero alcunché da obiettare a una misura di questo tipo che, non a caso, è all'agenda politica anche in Germania. Chissà che, per una volta, possano essere loro a prendere esempio da noi!

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Riduzione dei salari o aumento della produttività?

Articolo di Marco Panara pubblicato su La Repubblica il 17 settembre 2012
Dopo aver campato su debito pubblico e svalutazioni per vent’anni e aver galleggiato sui tassi bassi per altri dieci ora siamo arrivati all’osso. O troviamo il modo di aumentare la produttività o si ridurranno i salari. I singoli salari, tagliandone un pezzo a ciascuno, oppure il monte salari attraverso i licenziamenti. Quelli fatti fino ad ora non bastano. A imprese e sindacati, con il ministro allo Sviluppo Corrado Passera a gestire il tavolo, Monti ha dato un mese di tempo per trovare una soluzione a un problema che sta lì da molti anni prima che arrivasse la crisi. La questione è seria, perché se ci sono molti modi nei quali una collettività si può impoverire, ce n’è uno solo attraverso il quale può arricchirsi: aumentare la produttività. In Italia non aumenta da molto tempo e infatti l’economia da altrettanto tempo è ferma e il reddito dei cittadini non cresce. I numeri non perdonano, negli ultimi dieci anni la produttività per ora lavorata in Italia è cresciuta complessivamente dell’1,4%, nella Ue dell’11,4, in Germania del 13,6, e c’è un collegamento diretto e inequivoco tra produttività e aumento del prodotto lordo pro capite, ovvero la misura del benessere economico di una collettività: quello italiano dieci anni fa era sopra la media Ue ora è più basso nonché più basso di quello che avevamo nel 2000.
Il motivo per il quale siamo arrivati a questa drammatica alternativa tra produttività e salari si chiama Clup, costo del lavoro per unità di prodotto. Rispetto alla Germania dal 2000 ad oggi questo famoso Clup è aumentato del 35%, il che vuol dire che i nostri prodotti hanno perso un terzo della loro competitività in termini di costo. A far aumentare il Clup possono essere due fattori, il costo del lavoro oppure il prodotto che da quel lavoro esce fuori. Poiché in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente, quello che non ha funzionato è la seconda parte dell’equazione: il prodotto. Fatto 100 il costo del lavoro impiegato, nel 2011 abbiamo tirato fuori un prodotto il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania. A questo punto, se non si fa qualcosa per invertire la dinamica della produttività, l’impoverimento progressivo del paese è una strada segnata. Perché l’alternativa, ovvero la inevitabile riduzione della remunerazione del lavoro, vuol dire esattamente questo: impoverirsi. Nel lungo termine peraltro non è quella la ricetta giusta. Per capirlo basta guardare la classifica della competitività del World Economic Forum. Il paese più competitivo è la Svizzera, dove il costo del lavoro è del 50% superiore a quello italiano, tra i primi dieci (l’Italia è quarantaduesima) sei paesi hanno il costo del lavoro più alto e uno, il Regno Unito, comparabile. La chiave quindi non è ridurre il costo del lavoro, se non temporaneamente, ma aumentare il prodotto in quantità o in valore. Come? E’ questo il punto. Per affrontare il quale è meglio capire prima quali sono le ragioni per le quali la produttività in Italia non cresce. Ce ne sono di due ordini, il primo è quello che accade dentro l’impresa e il secondo (non in ordine di importanza) è quello che c’è fuori, ovvero il famigerato contesto. Cominciamo dal primo. Dentro l’impresa ci sono la proprietà, la gestione, gli investimenti, l’organizzazione del lavoro. La proprietà è nell’85% dei casi familiare, poco meno della Germania e poco più della Francia e della Spagna, in linea quindi con il resto dell’Europa, la differenza è nella gestione: in Francia e Germania meno del 30% delle imprese familiari hanno manager di famiglia, in Italia oltre il 66%, il che spesso vuol dire che non si è scelta la opzione migliore ma si è privilegiato quello si aveva in casa con il rischio di una gestione non ottimale delle risorse. Il secondo punto caldo sono gli investimenti, che fino al 2007 non sono stati troppo inferiori alla media degli altri paesi comparabili, ma che non è chiaro dove siano andati: quelli in macchinari sono crollati, come dimostrano il fatto che tra il 2000 e il 2010 la quota degli ammortamenti sul fatturato è scesa dal 6,5 al 3,8% e che nello stesso arco di tempo la vita media dei macchinari è balzata da 10 a oltre 16 anni. E sono stati bassissimi, sotto la media europea e la media Ocse, quelli in asset intangibili, ovvero brevetti, ricerca e sviluppo, formazione. «La crescita della produttività del lavoro modesta - è scritto in L’innovazione come chiave per rendere l’Italia più competitiva, un documento pubblicato dall’Aspen lo scorso marzo - è dipesa essenzialmente da un livello molto basso in investimenti in capitale e capitale umano, accompagnati da investimenti minimi in “ intangible assets. Tutto ciò ha determinato una crescita negativa della produttività totale dei fattori». Sulla stessa linea è l’occasional paper della Banca d’Italia di aprile 2012 dal titolo Il gap innovativo del sistema produttivo italiano. Infine, dentro l’azienda, c’è l’organizzazione del lavoro, che dove non sono arrivati accordi sindacali innovativi (che in molte aziende e settori ci sono stati) è rimasta troppo rigida dentro la fabbrica e dentro l’impresa. E c’è un altro elemento importante: come ormai dimostrato da molte analisi, il largo ricorso al lavoro precario diminuisce la produttività ed ha anche l’effetto collaterale che il lavoro superflessibile in uscita e a basso costo disincentiva gli investimenti. Il che ci fornisce la fotografia di quello che accaduto in Italia fino al 2007, occupazione in salita, pochi investimenti, produttività declinante. In mezzo tra quello succede nell’impresa e quello che c’è fuori c’è la dimensione dell’impresa e il suo rapporto con il mercato. E qui, anche qui, sono dolori, i dolori di sempre. Dei 4,4 milioni di imprese che ci sono in Italia il 94,8% hanno meno di 10 addetti, mentre quelle grandi (con oltre 250 addetti) sono solo 3.502. Niente di male in assoluto, se non fosse che il valore aggiunto per addetto delle microimprese, pari a circa 25 mila euro l’anno, è pari a metà di quello delle medie imprese e due volte e mezzo più basso di quelle grandi (60 mila euro). Il che vuol dire che avere una quota così rilevante di piccolissime imprese abbassa la produttività media e, in un mondo globalizzato e senza più svalutazioni, è come una zavorra sulla crescita della competitività. Si potrebbe dire che la struttura dell’economia italiana era così anche prima, quando la produttività cresceva. Ma prima non c’era l’euro, quindi erano possibili le svalutazioni, non c’era la globalizzazione, e quindi la concorrenza era minore anche sul mercato domestico, e prima gli imprenditori - moltissimi dei quali sono di prima generazione - avevano molti anni di meno e un patrimonio culturale e di esperienze in linea con le tecnologie e il quadro competitivo del momento. Oggi gli anni sono di più e il rapporto con l’evoluzione tecnologica e dei mercati assai più complesso. E qui arriviamo al contesto, perché la colpa non è solo né prevalentemente degli imprenditori se il tessuto produttivo italiano non s’è evoluto con i tempi. La lista dei disincentivi a crescere, a managerializzare, a investire è sterminata ed anche qui è la solita, da una tassazione che punisce l’impresa e il lavoro a una giustizia civile che non garantisce l’osservanza dei contratti, da una formazione inadeguata, soprattutto tecnica, a mercati troppo protetti, da una pubblica amministrazione costosa e inutilmente complessa a una normativa inutilmente farraginosa a infrastrutture insufficienti. Oltre all’imprenditore però ci sono i lavoratori e chi li rappresenta, il sindacato, che come molti imprenditori, la politica e la pubblica amministrazione s’è fermato agli anni ’90, non ha colto il cambiamento, non ha cavalcato le potenzialità della nuova epoca per creare un ambiente più favorevole al lavoro spesso (non sempre) privilegiando la conservazione all’evoluzione. Ora però siamo tutti nudi, di fronte alla prospettiva dell’impoverimento nessuno può più permettersi di stare fermo. Il governo ha fatto molto per muovere il contesto, ma per il momento sono leggi in attesa di implementazione, senza la quale restano solo buoni propositi e, soprattutto, quello che è stato possibile fare in un anno non può trasformare un paese ancora pienamente immerso in un secolo che è ormai finito già da oltre un decennio. Imprese e sindacati si devono invece occupare di quello che avviene dentro l’azienda, che è una componente importante della partita. Con un problema al quale bisogna trovare soluzione: il grosso delle aziende italiane, quelle dove è più acuto il problema della produttività sono le piccolissime, ma lì il sindacato e la contrattazione aziendale non arrivano. Per loro gli accordi che Confindustria e sindacato eventualmente raggiungeranno saranno lettera morta, bisognerà immaginare qualcos'altro e in fretta. Infine le conseguenze. Aumentare la produttività è necessario, pena l’impoverimento, ma non è facile né indolore. Perché, in condizioni date, aumentare la produttività vuol dire fare le stesse cose di prima ma con meno lavoratori, ovvero ulteriore disoccupazione. Questo è quello che gli economisti definiscono un aumento della produttività difensivo. Per la crescita dell’economia e dell’occupazione è necessario qualcosa di più, non basta neanche fare più cose con le stesse persone (e trovare un mercato per il maggior prodotto). Per creare lavoro si deve produrre molto di più o cose di maggior valore impiegando molte più persone, ma questo richiede la capacità di spostarsi verso settori più avanzati, di creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati. Non ci si arriva dall’oggi al domani. E’ la strada che molte aziende esportatrici (quelle che producono il valore aggiunto più alto indipendentemente dalla dimensione) hanno già percorso, ma non sono abbastanza. E’ il sistema Italia che deve fare questo salto. Un mese non basterà per cominciare e neanche per mettere a punto la ricetta. Ci aspettiamo almeno un segnale. Qui sotto, da sinistra, i leader di Cisl, Raffaele Bonanni e Cgil Susanna Camusso; il ministro per lo Sviluppo Economico Corrado Passera e il presidente del Consiglio Mario Monti.

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giovedì 20 settembre 2012

Lettera a Bersani dai parlamentari dell’Agenda Monti

Lettera aperta del gruppo dei 15 parlamentari firmatari del documento L’Agenda Monti al centro dellaprossima legislatura al Segretario Nazionale del Partito democratico Pierluigi Bersani, pubblicata sul Corriere della Sera il 18 settembre 2012
Caro Segretario,
la ormai evidente paralisi del negoziato in corso da molti mesi sulla auspicata riforma della legge elettorale ripropone lo scenario inaccettabile di un Parlamento inconcludente e incapace di produrre una qualsiasi concreta iniziativa riformatrice. Se per un verso in questi mesi ha sorretto il Governo e, pur fra incertezze e difficoltà, ha prodotto riforme e prospettato soluzioni che hanno aiutato l’Italia a non perdere il suo ruolo di grande Paese fondatore dell’Unione Europea, per l’altro il Parlamento, pur svolgendo l’essenziale e decisivo compito di sostegno all’azione dell’esecutivo, non ha colto finora nessuno degli obiettivi di riforma istituzionale ed elettorale che si era autonomamente assegnato all’atto di nascita del governo Monti.
Ora, a pochissimo dalla conclusione della legislatura, siamo giunti a un bivio: è meglio rassegnarsi all’impotenza riformatrice dell’attuale Parlamento e affidare l’elezione del nuovo Parlamento alla vecchia legge elettorale, o promuovere un ulteriore tentativo per produrre il cambiamento che tutti a parole considerano necessario?
Si può propendere per la seconda soluzione a condizione che si tenga realisticamente conto delle posizioni in campo e di quanto si è prodotto finora nel voto di prima lettura, al Senato, sulla riforma istituzionale. È all’esame della Camera la riforma della Costituzione, approvata dal Senato, che introduce l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e prevede, con soluzioni incerte e contraddittorie, un nuovo senato “federale”. Come è noto al Senato si è prodotta una profonda divisione nel voto degli emendamenti e del testo finale, tanto da far ritenere molto difficile una definitiva approvazione della riforma, considerati i diversi rapporti di forza fra i gruppi alla Camera e le differenti posizioni espresse.
È dunque pressoché certo il definitivo blocco del processo riformatore: nessun riduzione del numero dei parlamentari (contenuta nel testo approvato dal Senato); nessuna riforma del bicameralismo perfetto; nessuna nuova legge elettorale, che consenta ai cittadini di scegliere al contempo rappresentanti e governo.
Giunti a questo punto, non sarebbe forse necessario un profondo mutamento delle posizioni assunte fino ad oggi? Nella lettura del testo Senato alla Camera, si potrebbero introdurre le modifiche sufficienti a renderlo coerente e razionale: una seria riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, che preveda il doppio turno per l’elezione del Parlamento, accanto ad un nuovo Senato, che superi l’attuale bicameralismo perfetto e svolga prevalentemente la funzione di Camera delle Autonomie.
La legislatura formalmente ha davanti ancora tempo sufficiente per svolgere questo compito. Servirebbe ciò che finora è mancato: uno sforzo convinto delle forze politiche, a partire da quelle che sostengono il governo Monti. Riprendiamo il dibattito alla Camera sul testo di riforma istituzionale e portiamo da subito al Senato la riforma elettorale a doppio turno.
Noi chiediamo al nostro partito, al PD, di farsi protagonista di un’iniziativa in questo senso.
I promotori della iniziativa L’Agenda Monti al centro della prossima legislatura:
Alessandro Maran, Antonello Cabras, Claudia Mancina, Enrico Morando, Giorgio Tonini, Magda Negri, Marco Follini, Marilena Adamo, Paolo Gentiloni, Paolo Giaretta, Pietro Ichino, Salvatore Vassallo, Stefano Ceccanti, Umberto Ranieri e Vinicio Peluffo


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giovedì 13 settembre 2012

Festa dei giovani democratici di Verona

Molte cose nel Partito Democratico stanno cambiando grazie all’impegno dei giovani. I consigli di circoscrizione annoverano molti giovani del Pd che iniziano così ad impegnarsi nell’attività amministrativa, il coordinamento dei circoli del Pd vede impegnati alcuni giovani e Generazione Democratica propone incontri interessanti sulle tematiche  che interessano i giovani.
L’ultimo appuntamento è rappresentato dalla Festa provinciale di Generazione Democratica che si svolgerà sabato 15 settembre, dalle ore 16 in poi, presso il Centro Culturale Tirtha di Pescantina via Tremolé  18/a.
Si discuterà dei seguenti temi:
- ore 16.00-17.30, "Immaginiamo insieme il PD del futuro!"
- ore 18-19.30, "Gioco d'azzardo: quali rischi per la comunità, quali mezzi per contrastarlo".
Interverranno:
Salvatore Adduce, Sindaco di Matera;
Giacomo Possamai, Vice-Segretario Nazionale dei Giovani Democratici;
Pierpaolo Romani, Coordinatore nazionale dell'associazione antimafia Avviso Pubblico;
Dott. Paolo Vanzini e Dott.ssa Manuela Persi, Associazione Self Help per l'autoaiuto contro la dipendenza da gioco d'azzardo.
Alle ore 19,30 è prevista la cena ed alle ore 21,30 festa con musica LIVE dei gruppi Rocken Factory e Endless Harmony!
Considerati i temi e gli ospiti, si ritiene la festa molto interessante ed utile per un confronto democratico.
 

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Europa: solidarietà ai giovani e ai poveri

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 10 settembre 2012
Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell'Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un'allarmante crescita dell'insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell'Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi che finanziamo i sondaggi. Ma l'Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini che hanno torto».
Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità (ma forse si tratta di una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell'euro si è ormai trasformata in una crisi di legittimità dell'Unione Europea. Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l'ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la «virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro.
I politici nazionali hanno anch'essi giocato un ruolo di primo piano nell'attizzare il fuoco populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l'Europa? Per un po' il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l'opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un'Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di integrazione.

Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell'Ue in quanto tale. L'importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d'azione. Il messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma «per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini.
Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un «sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l'obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all'idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via. Difendere l'euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l'impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. L'iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico.
PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa. L'Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non lasciasse in eredità un Piano per l'inclusione sociale degno del nome e articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi membri su ventisette.


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martedì 11 settembre 2012

Circoli PD: visione comunitaria al servizio del territorio

Ieri sera nell’ambito della Festa Democratica del Circolo Enzo Biagi si è svolto un interessante incontro sul ruolo dei circoli del Partito Democratico. All’incontro hanno preso parte alcuni segretari dei circoli - Alessia Rossignoli,Stefano Dal Pra Caputo,Marco Taietta Federico Benini -, la segretaria regionale del PD Rosanna Filippin e Antonino Leone,responsabile PA del PD di Verona.
L’argomento è stato trattato dagli intervenuti considerando il contesto in cui viviamo caratterizzato dall’antipolitica e dallo scollamento e dal distacco dei cittadini dal sistema politico (partiti ed istituzioni).
Ha aperto i lavori Antonino Leone, il quale ha sottolineato che il PD è un partito a democrazia diffusa e struttura decentralizzata mentre altri partiti sono personali con una struttura centralista ed autoritaria. Esempio di partito come organizzazione personale è il Pdl e gli altri partiti che lo hanno seguito e Berlusconi è un ragno dove i membri obbediscono agli ordini che provengono dall’alto. "Nel quadro descritto, ha continuato Leone, svolgono un ruolo determinante i circoli del PD, i quali rappresentano l’unità territoriale di base che svolge attività politica e il primo anello della catena di partecipazione alla vita politica nella quale si organizza la partecipazione responsabile e consapevole degli iscritti e degli elettori. Occorre ripensare i circoli Pd: - stabilire nuove regole e nuovi strumenti per avviare un grande cambiamento che coinvolga i cittadini; - valutare i problemi sociali dell’area di competenza; - predisporre proposte efficaci per la loro soluzione. Per avviare il processo di cambiamento dal basso e dal territorio occorre ridisegnare i fattori essenziali del modello di organizzazione del Circolo: - adattamento continuo all’incessante cambiamento del pianeta e della società; - leadership cooperativa; - organizzazione snella e veloce; - strategia con obiettivi chiari e tempi certi; - metodo di lavoro che si fonda sulle comunità; - l’uso delle energie e delle risorse in direzione del cambiamento e non della difesa dello status quo. Occorre eliminare i rischi che si frappongono ad una gestione libera, democratica ed efficace del circolo. Di seguito i principali rischi: - La ricerca costante di consensi all’interno del Partito trascura l’importanza di recuperare consensi all’esterno nella società civile; - L’obiettivo individuale di lavorare per la propria sopravvivenza ed ascesa politica pone in secondo piano la visione comunitaria della politica;- Le sole attività del tesseramento e della propaganda centralizzata non sono sufficienti a costruire un modello di circolo aperto alla società e partecipato; - Gli incarichi tradizionali dell’esecutivo che non creano valore e rispondono ad esigenze di equilibrio interno vanno eliminati e sostituiti con responsabilità nuove che rispondono alle necessità della società civile. I fattori di cambiamento dei circoli Pd, raggruppati nello slogan “lavorare con gli altri e per gli altri, sono: - Unità nel realizzare la strategia; - Trasparenza dei comportamenti; - Visione comunitaria; - Sistema aperto alle collaborazioni degli iscritti e degli elettori". Subito dopo sono intervenuti i segretari dei circoli che sulla base dell’esperienza vissuta nel territorio hanno rappresentato le problematiche reali e le prospettive di cambiamento del modello organizzativo dei Circoli e dei Partiti. Di seguito si riportano in breve sintesi gli interventi dei segretari di circolo. Alessia Rossignoli,segretaria del Circolo di Cerea (VR): “ La crisi dei partiti oggi è evidente, accompagnata da un forte clima di sfiducia. In questo contesto, i comportamenti dei movimenti politici non sono tutti uguali: c'è chi resta volutamente sordo dinnanzi alle richieste di cambiamento provenienti dalla società civile e chi invece le strumentalizza, con l'obiettivo prevalente di delegittimare le istituzioni democratiche del nostro paese. Il PD è l'unico partito che si è messo in discussione, con onestà e umiltà, rinunciando alle tentazioni demagogiche. Per farlo siamo partiti dai circoli, unica struttura in grado di portare avanti una vera ed efficace azione politica sul territorio, con la convinzione che solo il coinvolgimento dei giovani e delle molte persone alla prima esperienza politica avrebbe permesso di canalizzare in modo positivo le forze e le energie presenti tra la società che reclama a gran voce una politica realmente costruttiva”. Stefano Dal Pra Caputo, segretario del Circolo della 1^ circoscrizione di Vicenza: Non si può negare l'evidenza: quello che si definisce "rinnovamento", nei circoli PD, sta avvenendo già da qualche anno e consiste, in sintesi,nell'abbassamento dell'età anagrafica dei suoi coordinatori. Perché questo processo di svecchiamento avvenga più“ facilmente”, rispetto al ricambio generazionale nelle amministrazioni Comunali/Regionali e in Parlamento, ha delle motivazioni storiche ma è anche il segnale di una eccessiva rigidità nelle dinamiche di distribuzione delle responsabilità. A mio avviso, il ruolo del coordinatore viene visto come un impegno monotono, poco soddisfacente, privo del prestigio di un incarico amministrativo. I compiti ordinari del circolo, sono solitamente quelli di volantinare nei giorni di mercato e di completare annualmente il tesseramento, cercando di rincorrere le persone che del partito si sono stancate. Sarebbe utile, per rafforzare il partito e per effettuare un ricambio generazionale vero, che tornassero a mettersi a disposizione anche i più esperti politici, pronti ad ascoltare e ad aiutare i giovani segretari. Colmerebbero inoltre quella mancanza di leadership che spesso si avverte a livello di partito, liberando posti nelle amministrazioni e rendendo concreto il desiderio di rinnovamento. Marco Taietta,segretario del circolo di San Giovanni Lupatoto (VR): Partecipo volentieri alla discussione aperta dagli amici del circolo Enzo Biagi,lo faccio riportando l’esperienza che ho vissuto e sto vivendo da giovane segretario del circolo Pd di San Giovanni Lupatoto, comune che amministriamo dalle elezioni dello scorso maggio, dopo aver strappato alla Lega Nord la guida della nostra città. Il percorso politico ha portato all’entusiasmante elezione del giovane Federico Vantini (34 anni), è figlio di un lungo lavoro del circolo, verso un percorso di rinnovamento. La nostra vittoria è frutto di un lungo lavoro: abbiamo ascoltato le esigenze del territorio in cui viviamo, con l’iniziativa “Il Pd nei quartieri” abbiamo raccolto dalla viva voce dei nostri concittadini le richieste per migliorare la qualità della vita di San Giovanni Lupatoto, richieste che sono state alla base del nostro programma politico. Tante le battaglie in cui abbiamo creduto, e continueremo a credere, come la mobilitazione per l’acqua bene comune, per l’ambiente, l’integrazione ed il sociale, oltre alla continua e necessaria lotta all’inceneritore di Ca’ del Bue, voluto dal leghista Tosi. Abbiamo puntato tutto sulle primarie, che a dicembre hanno premiato il civico Federico Vantini, quale nostro candidato. Ho promosso per primo la candidatura di Federico: l’attenzione alla sostenibilità e la voglia di creare un “comune amico” sono le caratteristiche che ci hanno accomunati sin da subito,l’appoggio alla candidatura del civico Vantini è stato spontaneo e naturale. Abbiamo così puntato su una squadra che sa essere il giusto mix di figure giovani, esperte ed oneste. Fedeli al percorso di rinnovamento che abbiamo intrapreso, abbiamo composto una giunta con un’età media di 37 anni. Ne faccio parte anch’io, con la deleghe a Cultura, Politiche Giovanili, Comunicazione e Innovazione tecnologica. Aria di primavera per San Giovanni Lupatoto, aria di rinnovamento!" Federico Benini, segretario del Circolo della terza circoscrizione di Verona: “Considerata la situazione politica italiana (anche alla luce dell’affermazione di movimenti appartenenti all’area della cosiddetta anti-politica) ed il diffuso e crescente disinteresse da parte dei cittadini nei confronti dei partiti,il cambiamento dei Circoli PD propone e fornisce gli spunti finalizzati alla riorganizzazione interna dei circoli e della struttura centrale del Partito stesso affinché possa, rinnovandosi, essere sempre in grado di rispecchiare i bisogni e le necessità dei cittadini. Sottolineata opportunamente la diversità della struttura stessa del Pd da quella di molte altre formazioni politiche, ritengo necessario rendere più snella e funzionale (ma non per questo meno partecipata, anzi) la vita all’interno dei circoli, valorizzando le risorse già ampiamente presenti (voglia di partecipare, collaborazione, operatività) e affermando pienamente la vocazione del Pd, già dichiarata al momento della sua fondazione: guidare il Paese verso la riscossa civica”. Le conclusioni dell’incontro sono state affidate a Rosanna Filippin, segretaria regionale del PD: “Il momento storico in cui viviamo è caratterizzato da una società che corre veloce a tutti i livelli: non solo la tecnologia, ma anche la cultura, il senso comune, la sfera di valori mutano con estrema rapidità. Per restare aggiornati e al passo coi tempi è indispensabile adeguarsi a questi rapidi mutamenti con la stessa scaltrezza e velocità con cui si presentano. Nella società italiana, che pure non è immune da questi veloci cambi di rotta, pare invece che la politica stagni in un teatrino sempre uguale a se stesso: questo almeno è il pensiero dei detrattori che da vari fronti e a più riprese, invocano un cambio di rotta complessivo. Gli indici di fiducia nelle istituzioni calano, e ancor più cala la fiducia e la credibilità dei Partiti: sembra quasi che essi non siano più in grado di rispondere alle nuove e sempre più articolate esigenze che il Paese e la Società avanzano. E il Partito Democratico come vive queste trasformazioni? Il nostro Partito rappresenta l'unica vera innovazione della politica italiana degli ultimi decenni, una sfida forte e appassionante: riunire le due migliori tradizioni politiche del secolo appena passato, non per farne sintesi, ma per evolversi in un nuovo progetto, moderno e coraggioso. Proprio per creare un soggetto nuovo il nostro partito (l'unico vero partito libero, dove nessuno comanda e in cui ciascuno può discutere liberamente e portare avanti le battaglie in cui crede) è presente in tutto il territorio nazionale nella strepitosa rete dei circoli. Da segretario regionale posso dirvi che sono orgogliosa di tutti i circoli presenti in Veneto, dalle grandi città ai più piccoli paesini: ecco perché, qualunque sia il circolo che chiami, che sia per presenziare ad una serata che chiacchierare ad una cena, per partecipare ad un dibattito o relazionare sul mio mandato non riesco e non voglio dire di no. Perché se il PD esiste è grazie ai militanti che ogni giorno vivono e fanno vivere i tantissimi circoli sparsi ovunque. I circoli sono luogo di discussione e di approfondimento, luogo di socializzazione e di battaglia appassionata. Ma questo basta per affrontare le sfide che il nostro tempo ci impone? Io sono convinta di sì, ma solo se avremo il coraggio di aprire le nostre sale alla società. Troppe volte infatti le nostre discussioni e i nostri dibattiti sono ad uso e consumo di chi ha già un credo politico, di chi cerca di approfondire tematiche che già maneggia; troppo spesso le nostre discussioni sono tra simpatizzanti, dirigenti, che parlano un "politichese" interessante, ma poco comprensibile al di fuori. Credo che sia giunto il tempo di rischiare, spalancando i nostri dibattiti anche a chi dichiaratamente non la pensa come noi, per cercare di capire al meglio la società, i cambiamenti, per poi rappresentare al meglio nei luoghi deputati ciò che sta accadendo. Apriamo le finestre e rinfreschiamo l'aria, facciamo entrare nuove idee e nuove persone senza pretendere subito di avere nuovi iscritti! Lo so, è rischioso, ma sono certa che sia anche salutare e formativo. Credo che i circoli del PD debbano diventare luoghi di incontro degli interessi, anche diversi tra loro, senza mai dimenticare i nostri valori. Innestare nuove idee, nuova linfa nel solido albero del nostro partito, ecco come potremo affrontare i cambiamenti che sconquassano questi tempi attuali. Il futuro è imperscrutabile, ma se sapremo unire la forza delle nostre idee con il coraggio a metterle in discussione, sono sicura che sapremo servire al meglio il nostro Paese. Non è in fondo questo lo scopo di un partito?” L’incontro sui circoli, il quale si è realizzato in occasione della Festa Democratica del Circolo E. Biagi, è un primo passo per un dialogo ed un dibattito più ampio che dovrà interessare i territori al fine di realizzare una presenza qualitativamente migliore al servizio dei cittadini e delle loro problematiche.

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venerdì 7 settembre 2012

I circoli PD una soluzione per l’antipolitica

Il teatrino della politica caratterizzato da polemiche e scontri sterili che non producono valore per i cittadini, il tempo perso in attività vuote, l’incapacità dei partiti di addivenire ad una riforma elettorale condivisa  e la crisi economica e sociale del paese alimentano l’antipolitica.
Non è sufficiente aver affrontato i temi spinosi del debito pubblico, dello spread e della fiducia dei mercati per recuperare fiducia e speranza nel futuro perché molti problemi sociali rimangono ancora insoluti.
Lo scollamento ed il distacco tra i cittadini ed il sistema politico pesa enormemente ed occorre porvi rimedio per iniziare una nuova stagione di rinnovamento e di giustizia sociale.
I circoli del PD potrebbero rappresentare un baluardo contro l’antipolitica a precise condizioni: avviare un percorso di cambiamento e di crescita; influenzare le scelte politiche nazionali con la credibilità e la forza di chi ha avviato un  processo continuo di cambiamento. 
La parola cambiamento è ormai entrata nel lessico comune ma non tutti la usano a proposito.
Per attuare tale processo occorre utilizzare degli strumenti appropriati e non la bugia e l’opacità. Ritengo che tali strumenti siano: Unità; Trasparenza; Comunità; Sistema Aperto.
Dei Circoli PD si discuterà alla Festa Democratica del Circolo Enzo Biagi, lunedi 10 alle ore 19,00, piazza Marinai d’Italia Verona.
L’incontro è così articolato:
Introduce: Antonino Leone, responsabile PA del PD di Verona
Intervengono:
Alessia Rossignoli, segretaria circolo Cerea
Marco Taietta, segretario circolo San Giovanni Lupatoto
Stefano Dal Pra Caputo, segretario circolo circoscrizione 1 Vicenza
Federico Benini, segretario circolo Enzo Biagi Verona
Conclude: Rosanna Filippin, Segretaria regionale del PD Veneto
L’occasione è importante per delineare gli interventi più opportuni al fine di avviare il cambiamento nel nostro territorio.


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lunedì 3 settembre 2012

Prospettive per i giovani disoccupati


Editoriale di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera del 2 settembre 2012
La disoccupazione è salita ancora, in particolare fra i giovani. Tutti dicono: c’è la crisi, dobbiamo rassegnarci e aspettare che l’economia riparta. Il governo assicura che sta facendo il possibile e ha appena presentato un’articolata agenda per la crescita. Benissimo, ma possiamo fidarci? Coi tempi che tirano in Europa e considerando la nostra bassa capacità di attuare le riforme, la ripresa non potrà essere né rapida né impetuosa. La creazione di «posti fissi» da parte di industria, trasporti, edilizia, pubblica amministrazione, commercio i settori tradizionalmente più dinamici dal punto di vista occupazionale) non sarà perciò sufficiente per assorbire lo stock di giovani inattivi, disoccupati e precari.
Su che cosa puntare? Ci sono altri settori capaci di creare occupazione, con prospettive di crescita più favorevoli e più influenzabili nel breve dalle politiche economiche e fiscali?
Si, ci sono i servizi: alle imprese, ai consumatori, alle famiglie. E su questo fronte che dobbiamo concentrare gli sforzi per affrontare seriamente l’emergenza lavoro.
L’Italia ha un forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Prendiamo i «giovani» fra i 15 e i 39 anni. Da noi il tasso di occupazione è 57%. In Francia è il 62%, in Inghilterra il 70 per cento. Il divario italiano è quasi interamente spiegato dal «vuoto» dei servizi. Su cento giovani lavoratori inglesi, sei trovano impiego in questo settore: in Francia più di cinque, in Italia solo 4. E che lavori fanno questi giovani stranieri? I comparti trainanti sono sanità, istruzione, finanza, informatica e comunicazione, turismo, cultura. Si stenta a crederlo, ma in quest’ultimo comparto il tasso di occupazione giovanile inglese è tre volte più alto di quello italiano: un vero paradosso, per un Paese con le tradizioni e le ricchezze del nostro.
Certo, non tutti i posti dì lavoro sono «di qualità»: negli ospedali o negli alberghi c’è chi fa le pulizie o chi sta i cucina, :nella cultura c’è chi fa il guardiano di museo o chi stacca i biglietti. E moltissimi impieghi sono flessibili: a termine, part time, interinali e così via. Ma sono comunque lavori. Una fonte di reddito, di integrazione sociale, un punto di inizio verso posizioni più stabili e gratificanti. I servizi necessitano anche (e in misura crescente) di personale altamente qualificato, molto spesso con buona formazione tecnico-scientifica. Il buco particolarmente vistoso nel nostro Paese riguarda i servizi sociali alle persone. Qui trovano occupazione solo 600 mila giovani italiani, di contro al milione e mezzo di Francia e Inghilterra. I mestieri più diffusi sono: assistenti all’infanzia, ai disabili, agli anziani fragili, para-medici, animatori, educatori, operatori sociali, formatori. Le professioni, insomma, di quel «secondo welfare» che accompagna e integra il sistema pubblico e che in Italia stenta a decollare, penalizzando in particolare le donne con figli (si veda il sito  www.secondowelfare.it).
Come sono riusciti gli altri Paesi a espandere i servizi? Un ruolo di primo piano è stato svolto dai governi, attraverso un mix intelligente di sgravi contributivi per i datori di lavoro, agevolazioni fiscali e in qualche caso sussidi per i consumatori, coordinamento e regia da parte dell’amministrazione pubblica.
L’elemento più importante di queste esperienze straniere è che, una volta decollati, i servizi «tirano» da soli. Secondo un recente rapporto del governo francese, l’incremento occupazionale dei prossimi dieci anni si concentrerà quasi tutto nel terziario. Sanità, assistenza, istruzione, cultura, turismo, servizi alle imprese potranno creare in dieci anni un milione e 300 mila posti. Serviranno medici, infermieri, insegnanti, tecnici, informatici, ingegneri «dei servizi», esperti di gestione (e anche qualche «creativo»), Industria, edilizia, trasporti apriranno poco più di 200mila accessi. Certo, la struttura economica francese è diversa dalla nostra, qui l’industria pesa di più. Espandere i servizi non significa però affatto comprimere l’industria in termini assoluti (ci mancherebbe) ma solo relativi, come peraltro sta avvenendo in tutta Europa.
L’agenda per la crescita elaborata dal governo Monti contiene qualche misura indirettamente volta a far crescere il nostro arretrato settore terziario: liberalizzazioni, semplificazioni, piani per il turismo, coesione sociale, non autosufficienza, riordino delle agevolazioni. Ma servirebbe una strategia più mirata e sistematica. Se la nuova economia dei servizi non decolla, dobbiamo davvero rassegnarci a convivere molto a lungo con una disoccupazione giovanile a due cifre.


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domenica 2 settembre 2012

Irene Tinagli e Pietro Ichino sulla decrescita

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa il 22 agosto 2012
Molti governi europei oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no. Le teorie anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte persone ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile vivere felici senza che aumenti il Pil.
Quello che dovremmo fare, come ci ricorda anche Guido Ceronetti nel suo articolo su La Stampa di domenica scorsa, è separare i bisogni essenziali da quelli che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a tutti i costi.
Questa prospettiva è molto affascinante e per certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia.
Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro.
È chiaro: la decrescita non danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per l’aristocrazia terriera o quelle classi che possono contare su rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici.
Certo: possiamo dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti.
Basta pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con l’aumento dei commerci, dei grandi progressi conomici, industriali e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata.
Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della crescita. È stato grazie all’apertura e alla crescita economica che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001, dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno strappato all’emarginazione milioni di amiglie. E persino nel miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita. Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989 e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela
di Chavez e poi con la Cina.
Perché pure i Paesi d’ispirazione socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping: «La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e on tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro.
Editoriale di Pietro Ichino
Chi vuole chiarirsi le idee sui termini della scelta fondamentale di fronte alla quale l’Italia oggi si trova legga l’intervista di Lettera43 all’economista francese Latouche: Italia, serve la bancarotta. Serve, soprattutto, secondo Latouche, tornare a un’economia lenta e chiusa, nella quale nessuno tranne i Marco Polo si muove oltre il raggio di poche decine di chilometri; e solo entro quel raggio si deve trovare tutto ciò che serve per vivere. La società statica e frugale indicata come obiettivo da Latouche è, più o meno, quella in cui ci ritroveremmo di fatto se – come infatti lui consiglia – uscissimo dall’euro. È davvero questo che vogliamo riservare ai nostri figli? Colpisce che su di una scelta destinata a produrre questi effetti convergano tanta parte della destra (Berlusconi in testa, se si va alla sostanza di quel che propone) e tanta parte della sinistra (Grillo, Di Pietro e Ferrero in testa, seguiti appena di un passo da Vendola). L’unica alternativa a questa scelta regressiva è accettare fino in fondo la sfida europea, con tutte le sue durezze, ma anche con tutte le credibili promesse che essa porta con sé per le generazioni future.
Il mio auspicio è che intorno a quest’altra scelta si saldi al più presto nel nostro Paese un largo e coeso rassemblemant, capace di perseguirla senza equivoci e con tutta la determinazione possibile. In questa alleanza il compito specifico dei democratici sarà garantire che a tutti – ma la questione riguarda soprattutto i più deboli – sia dato pari accesso alle grandi opportunità offerte agli italiani dall’integrazione europea. Nella consapevolezza che, invece, nella società vagheggiata da Latouche, per quanto egli si presenti come intellettuale di sinistra, quelle opportunità saranno date soltanto a pochi Marco Polo.


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