sabato 28 dicembre 2013

Anna Maria Bigon: l’impegno nelle comunità locali

Anna Maria Bigon è avvocato e sindaco del comune di Povegliano Veronese per la seconda legislatura. Nel libro “C’è chi dice no”, Chiarelettere, 2013, gli autori, Di Polito Stefano, Robiati Alberto, Rossi Raphael, citano il Sindaco, Anna Maria Bigon, tra gli esempi dei comuni virtuosi e degli amministratori pubblici etici che si sono distinti per la gestione efficiente, efficace e trasparente dei servizi e delle attività amministrative rilevanti (mobilità, rifiuti, acqua, istruzione). Il giornalista Luca Martinelli nel suo libro “Le conseguenze del cemento”, Altreconomia, 2011, dedica una pagina ad Anna Maria Bigon, la quale “è l'unico primo cittadino d'Italia ad essere famoso non per aver inaugurato qualcosa, ma per averla rasa al suolo. In questo corto d'autore è protagonista la scuola elementare del paese, costruita dalla ditta incaricata con calcestruzzo di scarsa qualità."
Anna Maria Bigon è una donna concreta e riflessiva che non si fa coinvolgere dalle teorizzazioni astratte che non portano a nulla, è determinata e disponibile al dialogo e possiede un grande amore per Povegliano e per i suoi cittadini. Nell’intervista che ho realizzato Anna Maria Bigon si è posta in modo sincero, come le persone che non hanno nulla da nascondere, ed ha espresso le sue opinioni senza dietrologie, le quali sono utilizzate dai politici navigati per apparire diversi da quello che realmente sono. Il suo obiettivo è quello di migliorare la qualità della vita dei cittadini di Povegliano.
I comuni rappresentano il primo anello della catena istituzionale dove si realizzano i rapporti con i cittadini. Per un Sindaco, considerata la complessità dei problemi, non è facile essere riconfermato. Lei come ci è riuscita? Quali progetti sono stati apprezzati nel suo precedente mandato di Sindaco?
Credo che il mio paese mi apprezzi per quello che sono e per come sono. La semplicità e la competenza sono stati fondamentali caratteristiche per una riconferma.
Sono spesso a contatto con i miei cittadini, vivendo come loro, e per loro, il paese.
Le opere ed i progetti effettuati sono stati seguiti direttamente anche da me supportando, credo, gli uffici, in un modo corretto.
Ritengo che i progetti maggiormente apprezzati siano stati quelli relativi all’ampliamento della scuola elementare, la messa in sicurezza degli attraversamenti e del centro storico, la riqualificazione di una parte delle risorgive con percorsi pedonali.
E’ trascorsa metà legislatura del suo incarico. Che cosa ha realizzato e a quali problemi ha rivolto la sua attenzione?
In questi mesi è stata realizzata la ristrutturazione e messa a norma della palestra e degli spogliatoi della scuola elementare, il centro diurno per anziani, che sta per essere ultimato ed a breve verrà inaugurato. Sono stati realizzati gli orti comunali e il progetto lavoro a favore dei giovani, dei disoccupati e degli anziani pensionati ed effettuati i pagamenti dei crediti delle imprese per un importo di circa 1 milione di euro senza incidere sul patto di stabilità.
Prosegue inoltre il progetto di riqualificazione ambientale del territorio. Ma molti altri progetti in campo sociale e culturale sono stati realizzati.
La mia attenzione è da sempre rivolta verso una migliore qualità di vita.
Quali progetti intende affrontare prima della conclusione della legislatura?
Continuerà la ristrutturazione e la messa a norma degli edifici pubblici, prima le scuole e verrà ristrutturata anche la facciata del municipio. Altri progetti sono in previsione. Ma il messaggio e la linea politica intrapresa dall’amministrazione è la cosa più importante.
Con la fine della mia amministrazione Povegliano avrà un paese a misura d’uomo con un livello di qualità della vita (relazioni) elevato.
Tutto quello che abbiano fatto è stato rivolto al “centro commerciale naturale” ed alla persona:
- servizi in centro (quali: scuole elementari e medie, municipio, centro diurno, biblioteca, asilo nido e scuola materna, museo e villa);
- riqualificazione dei fabbricati storici che sono rimasti di proprietà pubblica;
- limitazione delle urbanizzazioni esterne preferendo la riqualificazione del centro;
- riqualificazione ambientale.
Ha realizzato rapporti di collaborazione con i comuni limitrofi per fare fronte a problemi comuni con maggiore efficacia ed efficienza? Ci può dare qualche esempio?
Siamo stati parte promotrice con altri comuni per la realizzazione delle piste ciclabili, pesatura dei rifiuti in relazione alla raccolta differenziata e per il diritto all’acqua pubblica.
Dobbiamo guardare oltre al limite territoriale, ma non è semplice confrontarsi e risolvere i problemi insieme.
Nell’attuale momento quali difficoltà incontra un’amministrazione comunale di piccole dimensioni nella gestione del territorio?
In questo momento di grave crisi economica e sociale con le conseguenti difficoltà finanziarie per gli enti locali le cose più importanti risultano essere i contributi regionali e statali. Qui giocano un ruolo fondamentale i nostri consiglieri regionali e i nostri parlamentari.
Perché avete scelto di costituire il Nucleo di valutazione anziché l’Organismo indipendente di valutazione della performance che offre più garanzie in materia di indipendenza ed autonomia e di professionalità per la scelta dei membri dell’organo stesso?
Abbiamo ritenuto che il Nucleo possa rispondere maggiormente alle esigenze di un piccolo comune con una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti.
In prospettiva potrebbe essere valutata la costituzione dell’Organismo indipendente di valutazione in associazione con gli altri comuni limitrofi. Alcuni comuni già lo fanno. Stiamo esaminando la normativa e soprattutto i vincoli burocratici che la stessa pone.
Quali strumenti manageriali, previsti dal D. Lgs. n. 150/2009 (trasparenza, sistema di misurazione e valutazione della performance ecc), ha introdotto nel comune di Povegliano al fine di misurare, valutare e migliorare la performance?
Povegliano, pur essendo un comune al di sotto dei 15.000 abitanti e, quindi, non obbligato ad adottare alcuni strumenti di pianificazione, ha da sempre adottato il P.E.G. (Piano esecutivo di gestione) e P.D.O. (Piano dettagliato degli obiettivi) per misurare efficienza, efficacia ed economicità della struttura amministrativa.

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giovedì 26 dicembre 2013

Il Job Act di Matteo Renzi

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 21 dicembre 2013
Il cosiddetto Job Act sarà un importante banco di prova per Matteo Renzi. Si tratterà del primo esercizio programmatico concreto, dal quale potremo farci un’idea più precisa del «riformismo renziano sia nei metodi sia nei contenuti.
Data la drammatica situazione economica, il tema dell’occupazione era quasi obbligato. Ma fare proposte ambiziose, originali e insieme dotate di un certo grado di praticabilità politica non sarà certo facile. Avendo scelto di usare un’espressione inglese, Renzi farebbe bene a tener ben presente proprio l’esperienza anglosassone.
Gli Stati Uniti di Obama e il governo Cameron offrono infatti due modelli quasi speculari di come affrontare la sfida dell’occupazione dal punto di vista politico-strategico. Nel settembre 2011, Obama annunciò con la grancassa un piano molto ambizioso (chiamato, appunto, American Jobs Act: attenzione al plurale) per creare milioni di nuovi posti di lavoro.
I piatti forti del pacchetto erano la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, crediti d’imposta per le nuove assunzioni, riduzione dei contributi sociali, un programma di investimenti straordinari in infrastrutture, incentivi per le piccole imprese.
Il provvedimento sarebbe costato circa 450 miliardi di dollari: una cifra molto elevata, ma grazie alla quale, secondo il presidente, «milioni di americani sarebbero tornati al lavoro e sarebbero arrivati più soldi nelle tasche di tutti i lavoratori».
Proprio per i suoi costi e per le sue eccessive ambizioni il progetto si impantanò immediatamente all’interno del Congresso e alla fine Obama si è dovuto accontentare di poco: qualche incentivo fiscale per i nuovi assunti e un nuovo schema per finanziare le piccole imprese.
Il Regno Unito ha seguito un metodo diverso per affrontare il tema lavoro: non un «Masterplan» onnicomprensivo e radicale, ma una serie di Employment Reviews revisioni delle politiche per l’impiego), volte a realizzare concretamente tre obiettivi strategici fissati da un conciso documento ad inizio legislatura: flessibilità, efficienza, equità. In questo modo sono state però introdotte varie misure innovative.
Muovendosi in largo anticipo rispetto alle raccomandazioni Ue, lo Youth Contract («contratto giovani») ha ad esempio offerto in due anni 500 mila opportunità di lavoro o formazione a giovani fra i 18 e i 24 anni, mentre il Workprogramme («Programma lavoro»), introdotto nel 2011, ha aiutato oltre 200 mila disoccupati di lungo corso a ritrovare lavoro.
Sul piano della strategia politica, la differenza fra il modello americano e quello inglese è chiarissima. Obama voleva far colpo con un progetto «di rottura», in vista della campagna per la rielezione che avrebbe preso avvio all’inizio del 2012.
Il Congresso ha bocciato gran parte del Jobs Act , ma Obama ha vinto le elezioni, anche grazie ai suoi annunci sul fronte del lavoro. Forte del successo elettorale e del patto di coalizione, il governo Cameron-Clegg ha scelto un approccio meno roboante, ma più efficace in termini di risultati, ponendosi in un orizzonte di legislatura.
Le revisioni annuali sono un importante momento di confronto politico sulle riforme fatte e su quelle annunciate, ma nessun leader si presenta come taumaturgo. Che formula adotterà Renzi per sottoporsi al giudizio degli elettori?
La tentazione di far colpo con proposte di rottura e provocazione sarà forte: il neosegretario è in cerca di visibilità e popolarità, nel prossimo anno ci sarà almeno una conta elettorale rinnovo del Parlamento europeo) e la disoccupazione è una delle prime preoccupazioni delle famiglie italiane.
In questo momento al nostro Paese sarebbe tuttavia più utile una strategia all’inglese. Facciamo bene il punto sulla riforma Fornero, realizziamo al meglio la garanzia-giovani, attuiamo pienamente l’Aspi, interroghiamoci su come promuovere nuove attività economiche ad alta intensità di lavoro.
E definiamo su questa base un’agenda di cambiamenti pragmatici e realistici. Invece di un «Act» alla Obama, Renzi elabori insieme alla sua squadra un più modesto, ma molto concreto policy paper in stile inglese. Con un orizzonte temporale disteso e credibile, confermando così il suo impegno non solo per le riforme, ma anche per la governabilità.

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lunedì 23 dicembre 2013

Il lavoro che cambia

Articolo di Ivan Scalfarotto pubblicato su Europa il 21 dicembre 2013
Le aziende aprono e chiudono con molta più rapidità di un tempo: quali garanzie al lavoratore nel passaggio da un impiego all'altro?
Cerchiamo di capire su cosa giri questa famosa e antichissima polemica sull’articolo 18. La questione, messa giù brutalmente, è se consentire agli imprenditori di assumere senza il vincolo dell’inamovibilità sia garanzia di un aumento dell’occupazione. Comprendere, in altre parole, se i datori di lavoro sarebbero più disposti ad assumere se sapessero di poter liberamente licenziare. Finora si è molto ragionato sul fatto che già oggi la maggior parte dei lavoratori non viene assunta con un contratto di lavoro a tempo indeterminato di quelli coperti dall’articolo 18. I contratti atipici, nonostante la stretta della legge Fornero, sono ancora lo strumento con il quale si entra più facilmente nel mondo del lavoro. E ovviamente bisogna tener conto del fatto che l’articolo 18 non si è mai applicato alle imprese con meno di 15 dipendenti. Questo provoca quell’”apartheid” che Pietro Ichino ha sempre denunciato con impeccabile puntualità.
E tuttavia la crisi devastante che stiamo attraversando ha cambiato profondamente lo scenario: articolo 18 oppure no, è evidente che con un mercato che costringe alla chiusura molte imprese, qualsiasi garanzia scritta sulla carta si ferma davanti al datore di lavoro che tira giù la serranda. La discriminazione tra lavoratori protetti e non protetti scolorisce davanti alla livella della disoccupazione, che rende alla fine tutti ugualmente indifesi. Il problema che si pone davanti a noi diventa dunque soprattutto quello di aumentare i posti di lavoro cosicché chi lavora per un’azienda, possa all’occorrenza trasferire facilmente le proprie conoscenze verso un’impresa concorrente. Sia che ci si trovi davanti a una crisi, o che si voglia semplicemente cambiare lavoro per cogliere una migliore opportunità professionale, l’obiettivo dev’essere quello di assicurare la migliore allocazione possibile della forza lavoro, il che procura un effetto benefico tanto per i singoli lavoratori che – a causa delle forza attrattiva delle aziende sane rispetto a quelle più deboli – all’economia nel suo complesso.
Qualche tempo fa ero ospite in una trasmissione televisiva e, in collegamento da Cassina de’ Pecchi, vicino Milano, c’erano gli impiegati della Nokia (già Italtel e poi Siemens) i cui posti di lavoro sono in questo momento gravemente messi a rischio. Perché questo accade è ovvio: ciascuno di noi fino a qualche anno fa aveva un cellulare Nokia in tasca e oggi non è più così. La Nokia, che era un’azienda floridissima, è ora entrata nell’orbita della Microsft che aspira a rilanciarla posizionandosi attraverso di essa nel ricco mercato degli smartphone accanto ad Apple e a Samsung-Google. La domanda che si pone è dunque: se Nokia chiude a causa della crisi, perché Samsung o Apple o qualsiasi altro concorrente non arriva di corsa a Cassina de’ Pecchi, dove ci sono tanti italiani capaci di fare i telefoni e non costruisce un nuovo business mettendo a frutto quel talento?
Il fatto è che né la Nokia né i suoi concorrenti pensano a fare tutto questo. E ciò accade per gli stessi motivi che hanno portato i 24 miliardi di euro investiti dagli stranieri in Italia nel precipitare alla metà nel 2012. Mancanza di infrastrutture, una burocrazia strangolante, un fisco cervellotico, a livelli altissimi di corruzione, la presenza della criminalità organizzata, e anche – non esclusivamente, ma è certamente parte del problema – una legislazione del lavoro incomprensibile per gli stranieri. Chi volesse fare un investimento aprendo uno stabilimento in Italia, vorrebbe certamente sapere in quanto tempo quello stabilimento potrebbe essere chiuso e quale sarebbe il costo relativo alla cessazione dei rapporti di lavoro (c.d. “severance cost”).
L’esigenza che abbiamo di fronte è dunque quella di pianificare adeguatamente e di non spostare sulle aziende il peso di un welfare assente e di sistemi di formazione e riqualificazione professionale che da noi sono fallimentari. Possiamo dire con una qualche serenità che i centri per l’impiego, in Italia, servono ad impiegare giusto coloro che ci lavorano. In più, il sistema attuale autorizza le aziende a ridurre i livelli occupazionali solo quando la crisi è acclarata, e impedisce di usare la leva della riduzione dei costi al fine di impedire la crisi produttiva, salvando così posti di lavoro. Detto in altre parole, non si può licenziare nessun lavoratore fino a quando non ci si trova nella condizione di dover necessariamente licenziarli tutti.
Il problema è dunque quello di ripensare interamente il ciclo di vita del lavoro e delle garanzie per i lavoratori nel nostro paese. Il fatto è che oggi, come dimostra la vicenda della Nokia, i prodotti e le imprese hanno un ciclo di vita molto più breve di quello di un tempo.
Il mio primo datore di lavoro è stata la gloriosa Banca Commerciale Italiana: quando fui assunto, nel 1991, la banca era lì da 100 anni e io ero sicuro che sarebbe stata lì, in Piazza della Scala a Milano, in saecola seculorum. E invece io sono ancora qui, ancora relativamente giovane e in salute, mentre la Comit non c’è già più. Se è andata così a me, immagino cosa abbiano provato i colleghi che negli stessi anni venivano assunti dal Banco di Napoli, che stava lì dal 1539 e anch’esso, dopo quattro secoli e mezzo, non esiste più. Insomma, se un tempo era legittimo aspettarsi che il proprio datore di lavoro sarebbe sopravvissuto a generazioni di propri dipendenti, o che almeno avrebbe avuto la bontà di stare sul mercato in buona salute finanziaria per i 35 anni utili a maturare la nostra pensione, ora non è più così. L’obsolescenza dei prodotti e delle tecnologie, la progressiva creazione di un mercato meno protetto e più aperto alla concorrenza e le concentrazioni tra attori economici fanno sì che chi entra nel mercato del lavoro abbia un’aspettativa di cambiare lavoro molte volte: c’è chi dice almeno 7, nel corso di una carriera.
Allora il tema non è davvero più l’articolo 18, il tema è pensare come garantire i lavoratori nel passaggio che ineluttabilmente ci sarà tra una posizione di lavoro e un’altra. Come sostenerli dal punto di vista del reddito, come formarli per consentire loro di sfruttare nuove occasioni professionali e come incoraggiare la creazione di nuovi posti e occasioni di lavoro per ricollocare i lavoratori adeguatamente riqualificati. Chi credesse di poter limitarsi ad agire sull’articolo 18 dimostrerebbe di non ever capito che quello che è necessario è un approccio al problema non semplicemente migliorativo, ma totalmente nuovo. La sfida del Pd non è quella di migliorare il mercato del lavoro o di rivedere qualche clausola contrattuale, ma di prendere atto della rivoluzione che è in atto e di provare a ridisegnare i cicli e il mondo del lavoro sin dalle fondamenta.

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sabato 21 dicembre 2013

Le prospettive per il lavoro

Articolo di Tito Boeri pubblicato su La Repubblica il 20 dicembre 2013
Doveva la "legge di stabilità della svolta per il lavoro". Ma il testo che verrà oggi votato alla Camera è riuscito addirittura ad aumentare il costo del lavoro nelle imprese che hanno maggiori potenzialità di creare occupazione. Tra i nuovi contributi per la Cig in deroga e l'accelerazione dell' aumento delle aliquote per gli iscritti alla gestione separata Inps, il cuneo fiscale, soprattutto nelle piccole imprese, è destinato ad aumentare ulteriormente.
C'è solo la premessa di alleggerirlo in futuro con i risparmi della spending review. Ma come si può pensare che un governo che ha impiegato7 mesi per avviarla, che ha già lasciato da solo Carlo Cottarelli (mai menzionato nel discorso del "nuovo inizio") a passare in rassegna la spesa e che non riesce neanche a fare quei tagli su cui avrebbe tutto il sostegno dell' opinione pubblica (l' abolizione del finanziamento pubblico ai partiti rischia di essere a saldo zero per il contribuente, come documentato su lavoce.info) riesca davvero a tagliare la spesa pubblica? Tra l' altro il cosiddetto fondo taglia cuneo dovrà prioritariamente finanziare la Cassa Integrazione e i contratti di solidarietà ancora non coperti per il 2014, come ammesso dallo stesso relatore della maggioranza. E servirà eventualmente per ridurre anche le tasse sulle pensioni, quindi le improbabili coperture per abbassare le tasse sul lavoro verrebbero comunque ulteriormente diluite, perché sparse su di una platea molto più ampia dei soli lavoratori.
Quali altri dati devono uscire per convincere il nostro Parlamento che il lavoro è il problema numero uno? Il tasso di disoccupazione è al 12,5 per cento, raddoppiato nel giro di 7 anni, e per più della metà rappresentato da persone che sono senza lavoro da almeno un anno. La disoccupazione giovanile è ormai saldamente al di sopra del 40 per cento. E tra i pochi giovani occupati, quasi il 50 per cento ha un lavoro temporaneo, duale. Le persone in condizione di grave deprivazione materiale, soprattutto a seguito della perdita di un lavoro, sono in Italia raddoppiate nel giro di soli tre anni. Certo questi dati si spiegano con le due gravi recessioni, il bollettino di guerra ieri tracciato dal Centro studi di Confindustria. Ma è proprio partendo dal lavoro che si può cominciare l' opera di ricostruzione. La riforma del lavoro è stata la grande incompiuta del governo Monti. È cruciale anche perché, a differenza di molte altre cose da fare, ha il pregio di conciliare equità e rilancio della nostra economia. Il lavoro rappresenta la strada maestra per ridurre la povertà quando ci sono pochi soldi da spendere. E riducendo le disparità di trattamento fra diverse categorie di lavoratori, ci si può meglio preparare alla ripresa, se mai questa verrà. C' è qualcosa di profondamente sbagliato quando nello stesso settore, magari nella stessa azienda, si licenziano fino al 20-30 per cento di lavoratori duali, mentre altri lavoratori, che hanno lo stesso livello di istruzione, età ed esperienza, ma un contratto a tempo indeterminato, mantengono non solo il loro salario, ma anche tutti i fringe benefits che avevano prima della crisi. Da noi la disoccupazione dal 2007 è raddoppiata, ma i salari dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, secondo i dati Istat sulle forze lavoro, sono aumentati in entrambe le recessioni (2008-9 e 2011-13) mentre i lavoratori temporanei venivano falcidiati (il loro numero si è ridotto del 12% nella prima recessione e dell' 8% nella seconda). Non ci dovrebbe esser bisogno di strumenti ad hoc perché riduzioni dei salari di molti salvino il posto di lavoro di qualcuno. Bisognerebbe invece facilitare la creazione di nuovo lavoro altrove, dove potrebbe essere maggiormente valorizzato. E oggi il capitale umano (oltre che il credito alle imprese) è sistematicamente concentrato proprio in quelle imprese e settori che hanno più bassa produttività. Secondo le stime di Hassan e Ottaviano, anche solo una distribuzione casuale del lavoro tra imprese, aumenterebbe la produttività del nostro settore manifatturiero del 6 per cento. Infine, facilitare l' ingresso nel mercato del lavoro dalla porta principale fa aumentare la copertura dei nostri ammortizzatori sociali, che oggi danno un reddito solo a un terzo di coloro che perdono l' impiego, perché il rischio di trovarsi in quella condizione è concentrato su chi ha carriere troppo brevi per accedere ai sussidi. Non è vero che oggi non si può fare nulla per il lavoro perché non ci sono soldi. Al contrario, si possono fare tre cose in contemporanea. Primo, cambiare le regole di ingresso per i nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato, come da tempo suggerito con il contratto a tutele progressive a tempo indeterminato a tutele progressive senza entrare in inutili dispute ideologiche sull' eliminazione completa dell' articolo 18.
È un' operazione che unifica gradualmente il mercato del lavoro senza intaccare i "diritti acquisiti" di chi ha già un contratto a tempo indeterminato. Secondo, si può introdurre un salario minimo e prevedere un sussidio condizionato all' impiego per chi ha salari appena al di sopra di questo livello minimo, ad esempio garantendo almeno 5 euro all' ora, un modo per favorire occupazione di chi oggi è disoccupato e di contrastare la povertà con bassi costi per lo Stato. Questa operazione sarebbe in parte finanziata dall' emersione di lavoro oggi sommerso. Terzo, si possono ridurre in modo significativo e permanente le tasse che gravano sui contratti a tempo indeterminato, finanziando queste minori entrate con tagli dei trasferimenti alle Ferrovie dello Stato e al sistema delle imprese e, in parte, con riduzioni dei contributi previdenziali che, come già chiarito su queste colonne, si autofinanziano nel sistema contributivo. Un simile pacchetto integrato di riforme e di tagli delle tasse sul lavoro sarebbe accettabile a livello europeo anche se inizialmente fa aumentare il disavanzo perché vuole davvero riformare quello che oggi è il peggiore mercato del lavoro dell'Unione europea.

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mercoledì 18 dicembre 2013

Il debito condiziona l’unione bancaria

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 16 dicembre 2013
Nei giorni scorsi l’Unione Europea ha trovato un accordo sul secondo pilastro della unione bancaria. Il primo, ovvero la supervisione comune delle grandi banche, era stato stabilito circa un anno fa. Ma ora sono stati finalmente delineati i criteri del secondo: l’istituzione di regole per far fronte al problema di insolvibilità, qualora si dovesse manifestare. La prossima settimana il vertice dei capi di Stato a Bruxelles ne sancirà i principi. Da qui dovrebbe partire un nuovo pezzo della costruzione europea.
Il problema principale è quello di sempre: chi paga se una banca fallisce? Chiarire questo punto è condizione fondamentale per la stabilità finanziaria, ma anche per quella politica poiché, dal 2008, i cittadini europei hanno pagato circa 500 miliardi di euro per salvare le loro banche e questo non ha certo giovato al progetto della moneta unica e alla sua popolarità. Sono fattori che pesano molto, alla vigilia dell’esercizio di ispezione dei bilanci delle grandi banche dell’eurozona condotto dalla Bce e in un clima politico sempre piu antagonista al progetto europeo, come rischiano di dimostrare le prossime elezioni.
L’accordo stabilisce due principi importanti. Il primo è quello del cosiddetto bail-in: se una banca fallisce i creditori più senior, principalmente gli azionisti, dovranno pagare una parte dei costi. Il secondo stabilisce la nascita di un «fondo di risoluzione comune», alimentato dalle banche stesse.
I principi sono giusti. Si è fatto un passo avanti, certo. Ma quella unione bancaria ritenuta da tutti un passo essenziale per la costruzione europea, necessaria a fare ripartire l’economia, rivitalizzare l’integrazione finanziaria, stimolare le banche a far credito, è ancora ben lontana. La ragione è molto semplice: c’è troppo debito in giro e finché non si risolverà il problema di questa zavorra in parte ereditata dalla crisi, non ci sono le condizioni politiche per un accordo coraggioso.
Il fondo di risoluzione verrà consolidato nell’arco di dieci anni, avrà un «tesoro » di soli 55 miliardi e non è previsto un meccanismo di paracadute che intervenga in caso di crisi per ricapitalizzare le banche e prevenire un collasso dell’economia reale. Senza paracadute comune si rafforza così quel processo, gia in atto da tempo, di segmentazione nazionale dell’attività finanziaria. I bilanci delle banche europee sono sempre piu «nazionali» sia per quel che riguarda gli attivi, sia per i passivi. Avendo difficoltà a ricapitalizzarsi, per rafforzare i loro bilanci le banche diminuiscono il credito e acquistano titoli dei loro Paesi. Se lo Stato è debole, lo diventano anche loro.
La nazionalizzazione dei bilanci rivela come le istituzioni finanziarie abbiano già capito che un vero fondo comune per la ricapitalizzazione sia ben lungi da venire. E’ infatti chiaro che se la esposizione al rischio di una banca è legata al mercato nazionale, diventa più probabile che lo Stato intervenga per salvarla. Le banche europee, che prima della crisi si diceva fossero internazionali in vita e nazionali nella morte, stanno diventando nazionali nella vita e lo saranno anche nella morte (anche se speriamo sia lontana).
Questo ultimo negoziato, nonostante i progressi, dimostra ancora una volta che ogni meccanismo che preveda un fondo comune tra nazioni, e quindi una possibile mutualizzazione del debito, non è nelle carte, almeno fino a che non si pulisca l’aria dallo stock del debito esistente. Il potenziale costo di tale meccanismo per gli Stati piu virtuosi come la Germania, è infatti ancora troppo alto. Si può quindi accettare la supervisione unica e anche un fondo di risoluzione, se piccolo, nel futuro. Ma non un paracadute comune in grado di mettere il sistema in sicurezza e ridurre la frammentazione dei mercati finanziari.
Per uscire da questa impasse l’Europa dovrebbe affrontare con coraggio il problema della ristrutturazione di una parte del debito e, una volta presa una decisione su questo problema, ragionare infine sulla costruzione di una architettura comune che deve essere certo basata sulla condivisione del rischio, ma non sul trasferimento sistematico di risorse da alcuni Paesi ad altri.
L’architettura del Trattato di Maastricht si è rivelata inadeguata. Qual è quella del futuro? In mancanza di una riflessione e una azione conseguente su questo tema ci sono due scenari possibili. Il primo, quello ottimista, è che l’architettura europea si costruirà gradualmente, pezzo per pezzo, nella speranza che la ripresa favorisca la stabilità senza altri incidenti. Ma il secondo scenario prefigura che l’eccessiva lentezza nelle riforme porterà ad una ulteriore instabilità ed incertezza,che potranno essere affrontate solo «ritornando a casa», ovvero tornando a focalizzarci sulle istituzioni nazionali. Questo è vero per le banche come per tutto il resto.

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venerdì 13 dicembre 2013

Michele Salvati scrive a Matteo Renzi

Lettera di Michele Salvati a Matteo Renzi pubblicata sul Corriere della Sera l’11 dicembre 2013
Caro Matteo,
concludevo un articolo a te dedicato (Corriere, 22 ottobre) con verso del tuo grande concittadino: “Qui si parrà la tua nobilitate”. In realtà di nobilitate, come politico puro, ne hai già dimostrata molta, e la vittoria nelle primarie lo conferma.
Non hai seguito consigli interessati (“Non presentarti alle primarie per la segreteria del partito, presentati solo a quelle per la candidatura a capo del Governo …. Quando sarà il momento”).
E non hai consigli sbagliati, come quello che ti avevo dato io in occasione delle ultime elezioni («presentati come Lista Renzi alleata al Pd, proprio come fa Sel sul lato sinistro: svuoterai il Pd di Bersani, certo, ma avrai un grande successo e l’insieme risulterà vincente»). Era un consiglio che ti davo a malincuore, ma avevo perso ogni speranza che il Pd, nelle mani di un sindacato di controllo iper conservatore, potesse mai diventare il partito di sinistra moderna per il quale mi ero speso.
Anch’io avevo creduto nel Pd, come intellettuale prestato alla politica. E, da bravo intellettuale, avevo tenuto nota delle mie battaglie. Quelle dentro il Pds, i Ds e l’Ulivo dal 1996 al 2001 - in sintonia con Andreatta, Prodi e Parisi sul versante cattolico - le ho raccontate in un libro: Il partito Democratico: all’origine di una idea politica , Il Mulino, 2003. Finito il prestito alla politica e ripreso il mio mestiere, sono tornato più volte a ribadire la mia idea di Partito democratico. Ad esempio nel libro Il partito democratico per la rivoluzione liberale , Feltrinelli, 2007, nonché in un lungo articolo che fece scalpore, soprattutto perché pubblicato su Il Foglio, «Appello per il partito democratico» (10/4/2003): è qui che sono andato vicino alla tua idea di rottamazione, quando consigliavo a D’Alema e Marini, che dall’interno dei Ds e dei Popolari remavano contro, a fare un passo indietro. Ma gli avversari politici, quando sono tosti, non si consigliano, si sconfiggono, ed è questo che hai fatto, caro Matteo, da vero politico. Io, dopo l’ultima battaglia per Veltroni, mi ero scoraggiato e solo ora sta tornando un pò di speranza.
Adesso però viene la parte difficile del tuo lavoro, quella in cui dovrai mostrare una «nobilitate» ancor maggiore. Nobilitate da politico oggi, già nelle prossime settimane. Nobilitate da statista dopo, se riuscirai ad arrivare alle elezioni e le vincerai. Non mi soffermo sulle difficoltà dell’oggi, aggravate da una sentenza della Corte che sembra tracciare una via facile per un sistema elettorale proporzionale: i giornali te le ricordano un giorno sì e l’altro pure. Come può reagire un politico che si è sempre speso per un sistema maggioritario? Al cui progetto un sistema maggioritario è essenziale? La via di un’alleanza con Berlusconi e Grillo è impercorribile: spaccherebbe il partito che hai appena conquistato e lo metterebbe in balia di soggetti inaffidabili. Ma riuscirai ad ottenere da Napolitano e Letta, e soprattutto da Alfano, un impegno serio e in tempi rapidissimi per un maggioritario decente, e un impegno altrettanto serio per avviare il lungo processo necessario alla riforma costituzionale del Senato? Riuscirai a ottenerlo in questo Parlamento, del quale dubito che i leader appena menzionati, e tu stesso, abbiate il controllo?
Se riuscirai a trovare una via d’uscita, ad arrivare alle elezioni con un sistema maggioritario, i problemi più duri verranno dopo e riguarderanno il programma elettorale e poi, se vincerai, la tua attività di governo. Troppo lontano e incerto quel momento? Non credo. In realtà, oltre all’impegno a voltar pagina nel partito, tu hai parlato quasi solo di questo nel tuo discorso di Firenze: sembrava l’inizio di una campagna elettorale, contro Grillo e le destre. Sembrava di sentire parlare un leader americano o inglese, che al loro partito o all’intero Paese rivolgono lo stesso discorso. Il tuo era di entusiasmo e di speranza, simile a quello di Veltroni nel 2008. Ma allora la crisi finanziaria americana era appena scoppiata e non se ne misuravano le conseguenze. Né si aveva idea di quanto profonde, e difficili da rimediare, siano le debolezze del nostro Paese. Oggi tener insieme realismo e speranza, proposte adeguate alla gravità della crisi ed il continuo consenso necessario a sostenerle, è ancor più difficile di allora. Predicare sudore e lacrime, invocare sacrifici, non è mai stato un buon modo per vincere le elezioni, ed in particolare per entusiasmare cittadini animati da disprezzo e rancore contro i politici. A meno che un gran numero di loro siano disposti a fare eccezione per te e tu riesca a convincerli che le promesse altrui sono ingannevoli, che tu sei diverso dagli altri, le tue possibilità di successo sono scarse.
Ma non voglio fasciarmi la testa pensando alle difficoltà del domani, del domani immediato e del domani futuro e possibile, e voglio restare ancora per un poco nello stato d’animo che ieri ha suscitato in me la notizia della tua vittoria nelle primarie. Una vittoria della politica - di destra, centro o sinistra che sia - e non solo del Partito democratico.

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giovedì 12 dicembre 2013

Pietro Ichino scrive a Matteo Renzi

Caro Matteo,

oggi, con il nettissimo successo che hai ottenuto nelle primarie, prendi solidamente in mano un partito che negli ultimi tempi ha fatto per lo più l’esatto contrario di quello che tu predichi fin dall’inizio della tua battaglia: non credo di esagerare dicendo che in questo momento esso è di gran lunga il più conservatore tra i partiti italiani. Alcuni degli altri partiti, è vero, propugnano l’innovazione in direzioni profondamente sbagliate; ma è un fatto che a questi il PD ha risposto fin qui con la conservazione dell’esistente, anche nei suoi aspetti deteriori.
È il PD che nel giugno 2012 rifiutò la proposta di riforma elettorale e istituzionale alla francese avanzata dal PdL, che oggi viene (opportunamente) riproposta dal gruppo di lavoro bi-partisan guidato dal ministro Gaetano Quagliariello. Un anno e mezzo perso.
È il PD che, per paura di toccare i vecchi tabù, ormai da un anno sta bloccando persino la sperimentazionepiù limitata di qualsiasi modifica del diritto del lavoro vigente che possa favorire il rilancio dell’occupazione nel periodo più nero della crisi economica più grave del secolo.
È stato il PD – esclusi alcuni suoi parlamentari – il principale sostenitore del decreto “stabilizzazioni” ideato dal ministro D’Alia, che costituisce l’esatto contrario di quello che andrebbe fatto secondo i principi della spending review e di quanto andrebbe fatto per offrire una prospettiva di occupazione seria alle decine di migliaia di precari delle amministrazioni pubbliche.
È il PD il principale sostenitore del disegno del ministro della Difesa mirato aprepensionare 27.000 militari a 50 anni, ignorando le esperienze – tra cui quelle, eccellenti, britannica e australiana – che mostrano come mediante i buoni servizi di outplacement e il metodo del “contratto di ricollocazione” si possa, eccome!, reinserire decine di migliaia di militari nel tessuto produttivo generale.
È il PD che sta impedendo al Governo di adempiere l’impegno assunto in Parlamento il 10 ottobre scorso per l’avvio della sperimentazione regionale della collaborazione tra servizio pubblico e servizi privati centrata sul contratto di ricollocazione, perché “se ci sono risorse vanno investite solo sulla struttura pubblica” (anche se sono i privati ad avere il know-how per i servizi cosiddetti “di seconda generazione”).
È il PD che, con il suo ministro dell’Istruzione Carrozza, oggi minaccia di bloccare il programma Invalsi per lavalutazione nella scuola pubblica mediante i test standardizzati. E l’elenco potrebbe continuare.
Se ora tu riuscirai, come riuscì Toni Blair con il Labour Party, a trasformare questo PD da freno a mano della macchina per le riforme in motore, ti conquisterai – oltre che un posto nella storia - la gratitudine e l’appoggio anche di milioni di italiani che oggi non sono andati ai seggi a votarti: un appoggio ampio, che ti aiuterà a vincere le resistenze, dentro e fuori del partito. Ma non farti illusioni: dati gli immediati precedenti, non sarà affatto una passeggiata. E l’esito della battaglia è quanto mai incerto. In ogni caso, un cordialissimo augurio: chiunque abbia a cuore la “riforma europea” dell’Italia – quale che sia la sua collocazione nell’arco delle formazioni oggi esistenti - non può che auspicare il tuo successo, e con esso una profonda trasformazione dell’intero sistema politico italiano.

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lunedì 9 dicembre 2013

Primarie, vince il PD e Renzi

Alle primarie del PD hanno partecipato circa tre milioni di persone tra iscritti ed elettori. Una grande vittoria per il PD che nonostante le difficoltà del paese suscita ancora entusiasmi ed attenzione. Pertanto, si può dire tranquillamente che il PD ha vinto ed è stato capace di coinvolgere tantissimi cittadini nonostante la propaganda e le previsioni contrarie. Il merito va anche ai candidati: Cuperlo, Renzi e Civati.
Ha vinto Matteo Renzi che ha raccolto il consenso di circa il 68% degli elettori, considerando che alle primarie votano tante persone che esprimono liberamente e responsabilmente la loro scelta in un momento così difficile senza farsi intruppare dalla nomenclatura.
Il risultato di Gianni Cuperlo è stato deludente  in quanto la sinistra che rappresenta non è più in sintonia con il paese e con gli elettori. Questa sinistra per ambire alla segreteria del PD deve rifondarsi cosa che non ha fatto fino a questo momento, pagando lo scotto. Gianni Cuperlo è una persona di cultura ed intelligente e, pertanto, avrebbe dovuto capire che la sua missione era impossibile.
Giuseppe Civati, nonostante le sue posizioni politiche su alcuni problemi, ha recuperato consensi per se e per il PD da un’area non facilmente entusiasta ed incline a dare fiducia facile e completa al PD di ieri.
Adesso occorre lavorare insieme senza tradire il mandato degli elettori e rifondare il Partito Democratico che fino a questo momento si è dimostrato incapace di affrontare i problemi concreti delle persone dalla povertà al lavoro con nuovi strumenti efficaci. Pertanto, è necessario abbandonare le anacronistiche visioni che hanno portato alla sconfitta di Cuperlo ed introdurre nuove innovazioni e strumenti non condizionati dalle ideologie e dai vecchi equilibri del passato al fine di non procrastinare i problemi del paese.
I valori fondativi del PD valgono ancora anche se occorre tradurli nella realtà del terzo millennio con metodi e strumenti nuovi. Inoltre, non è da sottovalutare il modello organizzativo del PD da troppo tempo trascurato  che non corrisponde più alla domanda di partecipazione e di democrazia della società. Le primarie sembrano un corpo avulso dal contesto del partito e per tale motivo occorre rinnovarlo nelle persone e nelle strutture.
Il modello organizzativo di una organizzazione esprime i valori, le strutture e gli obiettivi che si vogliono perseguire. Per tali motivi non è da sottovalutare.
Questo risultato straordinario delle primarie, il quale ha premiato Matteo Renzi al di là di qualsiasi previsione positiva, ci lascia ben sperare in un grande cambiamento che coinvolga la società, il Governo ed il Partito Democratico. La speranza, l’ottimismo e l’impegno ci devono accompagnare in questo cammino insidioso rivolto al bene del paese.
Matteo Renzi per attuare il cambiamento che si è proposto considera due fattori molto importanti: la valutazione del tempo ed il senso dell’urgenza. Infatti l’Italia non può più aspettare.
Occorre inoltre recuperare alla democrazia tutti coloro che erroneamente hanno creduto alle favole di Berlusconi ed alla prospettiva che i problemi del paese potessero essere risolti con il leader carismatico ed autoritario, rappresentato da Berlusconi, e con un partito personale senza democrazia interna, rappresentato dal PDL.

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mercoledì 4 dicembre 2013

Matteo Renzi: ripensare il futuro dell’Italia

Il partito Democratico svolge l’8 dicembre le primarie per la scelta del segretario. Un avvenimento molto importante al quale partecipano gli iscritti al PD e gli elettori, i quali potranno affermare di aver contribuito a disegnare il futuro del PD e dell’Italia.
Per tale motivo occorre partecipare in massa e scegliere uno dei tre candidati:  Giuseppe Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi. Il PD è l’unico partito nel panorama politico italiano a poter essere definito democratico perché tutti gli altri partiti sono una organizzazione personale ed è inesistente la democrazia interna e la trasparenza e dipendono da una leadership autoritaria e gerarchica. Questo non vuol dire che il PD ha concluso il proprio cammino con l’attuale forma di partito. Al contrario il Pd ha bisogno di essere rinnovato nelle persone, buona parte della classe dirigente proviene da schematismi ideologici superati che non aiutano ad affrontare i problemi emergenti della società moderna, e migliorato nel modello organizzativo, il quale conserva alcune caratteristiche del partito di massa pur essendo superato tale modello.
Il confronto diretto tra i tre candidati si è realizzato con correttezza nella trasmissione di Sky. Quello indiretto a distanza si è realizzato con colpi bassi da parte di Cuperlo (presidenzialismo, indebolimento del governo) e Civati (appesantito dalle correnti) nei confronti di Renzi. Inoltre, bisogna ricordare l’intervista a D’Alema e le accuse rivolte a Renzi da parte dei tifosi di Cuperlo e Civati: liberista, destra, continuità con Berlusconi. Tutte affermazioni che non si ritrovano nemmeno lontanamente negli scritti e negli interventi di Renzi. A queste accuse ha risposto in modo puntuale e brillante Matteo Renzi e, quindi, non c’è bisogno di replicare in questo articolo.
Cuperlo e Civati non hanno ancora capito che il cambiamento per essere realizzato ha bisogno di nuovi strumenti in quanto quelli usati fino a questo momento non hanno contribuito a risolvere il problema del lavoro e della povertà ed a realizzare un modello organizzativo di partito che corrisponda ai mutamenti della società del terzo millennio.
Il vero problema di Cuperlo e Civati è quello di non gradire che sia Renzi a prospettare la creazione di un nuovo equilibrio nella società italiana che attualmente si poggia sulla iniquità diffusa, sulla redistribuzione che aumenta le iniquità e favorisce le rendite,sui privilegi.
Gianni Cuperlo rappresenta la sinistra classica ed ortodossa legata ad un passato che è stato superato, oltre che dalla storia, dai comportamenti e dai bisogni degli elettori e che non ha prodotto risultati efficaci in materia di lavoro e di giustizia sociale. Nel PD ogni tentativo di realizzare una politica riformista nel mercato del lavoro è stata emarginata con il solo risultato di alzare le aliquote contributive per le partite Iva. Questa sinistra ha confuso l’equità con l’ugualitarismo.
Giuseppe Civati esprime una posizione politica di nicchia negli iscritti e negli elettori, rispetto agli altri due candidati, che va al di là dei valori fondativi del Pd. Le sue posizioni estreme (assenza alle due riunioni dei gruppi parlamentari e della Camera dei Deputati con all’odg la fiducia al Governo Letta per poi scoprire la disciplina di partito in occasione della mozione di sfiducia alla Cancellieri, matrimoni egualitari) non gli permettono di allargare i consensi e vincere le primarie. Con Civati Segretario il Pd si frantuma e rischia di perdere l’identità originaria alla quale siamo tutti legati.
Occorre una sinistra che si prenda carico dei problemi concreti del paese, che abbia una visione innovativa del PD e della società. Non più vecchi tabù ma una capacità di andare oltre gli equilibri esistenti per costruirne dei nuovi che si poggiano sull’equità e sulla giustizia sociale. Ad esempio è inaccettabile accettare il dualismo nel mercato del lavoro tra occupati e precari e non proporre una soluzione innovativa per risolvere il problema e ingiustificabile non consentire una riqualificazione dei Centri dell’impiego, i quali registrano 9.865 dipendenti e 464 milioni di costi, incapaci di realizzare una politica attiva del lavoro.
Attuare tutto questo significa essere di sinistra contro la sinistra parolaia che non ha avuto la capacità di leggere i tempi ed i cambiamenti intervenuti nel pianeta.
Matteo Renzi ha le capacità e la visione di uscire dagli abbracci soffocanti del passato e ricostruire un paese fermo da venti anni che ha bisogno di lavoro, di Europa e di riforme istituzionali, comprensive della nuova legge elettorale.
Per i motivi esposti, i quali possono essere approfonditi prendendo visione del documento congressuale di Matteo Renzi e leggendo il libro di Yoram Gutgeld, Più uguali più ricchi, Rizzoli, 2013, io voto alle primarie dell’8 dicembre Matteo Renzi.
Un cambiamento positivo dell’Italia e del PD può nascere solo con la vittoria di Matteo Renzi alle primarie.
Mozione di Matteo Renzi

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venerdì 29 novembre 2013

Diego Zardini: proposta di legge sulle PA


Diego Zardini, deputato veronese del Partito Democratico, ha presentato la sua seconda proposta di legge al fine di introdurre obbligatoriamente alcuni strumenti manageriali nella gestione delle autonomie locali e migliorare di conseguenza la performance degli enti territoriali e del servizio sanitario nazionale.
La proposta di legge prende atto che l’introduzione facoltativa del performance management da parte degli enti territoriali non ha prodotto i risultati sperati. Infatti gran parte degli enti si e limitato a recepire il cambiamento formale in assenza di una efficace implementazione operativa.
Proposta di legge: ZARDINI ed altri: "Modifiche al testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, e al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, in materia di controllo e valutazione delle prestazioni delle pubbliche amministrazioni" (Atto Camera 1689)
Iniziativa dei deputati:  ZARDINI Diego; BIONDELLI Franca; CAPONE Salvatore; COMINELLI Miriam; COPPOLA Paolo; CRIVELLARI Diego; DAL MORO Gian Pietro; DE MENECH Roger; D'INCECCO Vittoria; MANZI Irene; MARTELLA Andrea; RIBAUDO Francesco; SCALFAROTTO Ivan; VALENTE Valeria; VELO Silvia; ZAPPULLA Giuseppe.
Relazione
Onorevoli colleghi! - La burocrazia, l’alta opacità ed un sistema debole di controllo e valutazione comportano un impatto negativo sull’economia, sull’attrazione degli investimenti esteri e sulla credibilità del Paese. Pertanto, occorre intervenire con urgenza affinché tali parametri ed indicatori migliorino in modo radicale anche attraverso l’inclusione delle autonomie locali nel disegno di cambiamento delle PA: ed è esattamente in quest’ottica che si muove la presente proposta di legge.
Dopo circa quattro anni dalla riforma della PA, D. Lgs. n. 150/1999, si può affermare che ha avuto una scarsa incidenza sulle autonomie locali a causa dei pochi obblighi (art. 16, comma 1, del D. Lgs. n.150/2009 in materia di trasparenza), dei tanti principi ai quali gli enti interessati dovevano adeguare l’ordinamento (art. 16, comma 2, del D. Lgs. n. 150/2009) e della facoltà di adottare alcuni istituti, tra i quali l’Organismo indipendente di valutazione della performance (art. 14 del D. Lgs. n. 150/2009), contenuti dal Decreto. Le autonomie locali hanno scelto di enunciare i principi senza alcuna implementazione operativa, di trattare la trasparenza come un adempimento e di non introdurre, avendone solo la facoltà, alcuni istituti molto importanti per avviare un percorso di cambiamento.
Il decreto legislativo n. 150/2009 si è rivolto quasi completamente ed in modo obbligatorio alle amministrazioni centrali dello Stato ed agli enti pubblici non territoriali trascurando gli enti territoriali ed il Servizio sanitario nazionale in materia di trasparenza, di performance management e di organismo di valutazione della performance. La maggior parte dei comuni capoluogo e delle Regioni avevano anticipato la riforma e, pertanto, non hanno incontrato difficoltà ad adeguarsi alla nuova normativa. Molti enti locali, non essendo obbligati dalla normativa, non hanno introdotto gli istituti previsti dal Decreto e si sono limitati ad applicare la trasparenza in modo parziale e per materie che non riguardano gli aspetti dell’organizzazione (indicatori, risorse, andamenti gestionali) e le fasi del ciclo di gestione della performance.
Il disegno di legge si pone l’obiettivo di rendere obbligatorio per gli enti territoriali e per il Servizio sanitario nazionale l’introduzione della performance management attraverso la previsione obbligatoria dei seguenti strumenti manageriali:
- L’adozione del sistema di misurazione e valutazione della performance (art. 7 del D. Lgs. n. 150/2009). Per valutare l’efficienza e l’efficacia della produzione di un servizio o prodotto ed intervenire con azioni correttive nel caso in cui si presentano degli scostamenti rispetto al piano è necessario misurare le risorse umane e non impiegate, i tempi di erogazione, la qualità e la quantità del servizio o prodotto finito.  In assenza di tale sistema, dalla misurazione alla valutazione della performance, si naviga a vista con interventi operativi indipendenti dalle variabili che intervengono nel processo produttivo (risorse umane, fattori produttivi, organizzazione e gestione del processo, qualità e quantità del servizio o prodotto) con il rischio conseguente di accumulare sprechi, di porre in essere un’organizzazione del processo di produzione non coerente con l’esigenza di erogare servizi di qualità senza dispendio di risorse umane e finanziarie.
Il management ha bisogno di un sistema di dati ed informazioni elaborate che riflettano lo stato dell’azienda e consentano di effettuare le scelte giuste in sede di pianificazione, di gestione e di azioni correttive.
Robert S. Kaplan e David P. Norton sostengono che le aziende devono iniziare a chiedersi non solo se stanno facendo le “cose bene” ma se stanno facendo le “cose giuste” e raccomandano il miglioramento della performance nel bilanciamento dei due fattori.
Per i motivi esposti il disegno di legge introduce negli enti territoriali e nel Servizio sanitario nazionale il sistema di performance management, allo stato obbligatorio per tutte le pubbliche amministrazioni ad eccezione degli enti territoriali e del servizio sanitario nazionale, i quali hanno la facoltà di introdurre tale sistema manageriale e l’obbligo di aggiornare il proprio ordinamento ai contenuti previsti dalla normativa vigente. Tale posizione ha indotto le autonomie locali per diversi motivi, tra cui quelli finanziari ed attinenti alla mancanza di management adeguato, ad adottare posizioni di difesa dello status quo, evitando così qualsiasi innovazione ed implementazione operativa.
Tra le attività della Civit è prevista la definizione di indicatori comuni di andamento gestionale degli enti locali, classificati per classi di popolazione, delle regioni e del servizio sanitario nazionale al fine di realizzare il benchmarking. Tale comparazione, soggetta alla trasparenza, consente agli enti di replicare le best practices e di avviare un processo di miglioramento continuo.
- La istituzione dell’Organismo indipendente di valutazione (art. 14 del D. Lgs. n. 150/2009). La letteratura manageriale sulle Pubbliche Amministrazioni non pone a favore del Nucleo di valutazione o dei Servizi di controllo interno per l’autoreferenzialità espressa e per i risultati insufficienti conseguiti. Si afferma che tali organismi non hanno sviluppato canali di comunicazione con l’esterno, non hanno inciso sullo sviluppo e miglioramento dei servizi e dell’organizzazione del lavoro, non hanno introdotto indicatori di performance nelle amministrazioni pubbliche al fine di realizzare la verifica dei risultati ed un benchmarking tra le Pubbliche Amministrazioni ed i membri di tali organismi vengono nominati a prescindere dalle conoscenze e dalla professionalità posseduta. Tali organismi operano in un’ottica prettamente amministrativa e formalistica, si limitano a poche riunioni l’anno, per la maggior parte dedicate agli aspetti formali della erogazione dei premi legati al risultato. In molti comuni è stato nominato tra i membri del Nucleo di valutazione il segretario comunale/direttore generale ed in alcuni casi esponenti politici con cariche istituzionali elettive eliminando così l’indipendenza e l’autonomia a cui si deve ispirare l’organismo di valutazione. Decisione questa non praticabile con i membri dell’Organismo indipendente di valutazione.
Il disegno di legge, al contrario da quanto prescritto dal D. Lgs. n. 150/2009, prevede l’adozione da parte degli enti territoriali e del Servizio sanitario nazionale dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, il quale sostituisce i servizi di controllo interno ed il nucleo di valutazione, a cui vengono assegnate le attività di controllo strategico e quelle indicate dall’art. 14, comma 4, del D. Lgs. n. 150/2009. Tale scelta consente agli enti di applicare i contenuti delle circolari della Civit in materia di selezione dei membri e di autonomia ed indipendenza dell’organismo stesso.
I Comuni con una popolazione non superiore ai 5.000 abitanti istituiscono l’Organismo indipendente di valutazione esclusivamente in forma associata con il limite complessivo di popolazione non inferiore a 5.000 abitanti”. Il limite dei 5.000 abitanti può essere modificato prevedendo un limite più alto.
- Tipologia dei controlli interni. Gli strumenti manageriali previsti dal D. Lgs. n. 150/2009 sono fondamentali per avviare il processo di miglioramento continuo dei servizi erogati dalle autonomie locali. Infatti, il disegno di legge provvede a collegare il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali al D. Lgs. n. 150/2009. Le ultime modifiche del Testo unico effettuate alla fine del 2012 non hanno considerato tra i controlli interni gli strumenti manageriali previsti dal D. Lgs. 150/2009.
Il disegno di legge prevede l’introduzione nella tipologia dei controlli interni, art. 147 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, gli strumenti che costituiscono il sistema di performance management previsti dal D. Lgs. 150/2009.
L’estensione delle materie oggetto della trasparenza, intesa come accessibilità totale (art. 11 del D. Lgs. n. 150/2009). Le autonomie locali che non hanno realizzato il sistema di misurazione e valutazione della performance si trovano nell’impossibilità oggettiva per mancanza di dati ed informazioni di dare attuazione all’art. 11, commi 1 e 3,  che prevedono “la trasparenza sui siti istituzionali delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse ……., dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo dei principi di buon andamento ed imparzialità” e “la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della performance”.
Rendendo obbligatorio il sistema di performance, previsto dall’art. 7 del D. Lgs. n. 150/2009, è possibile applicare la trasparenza totale nelle materie previste dal suddetto Decreto. Inoltre, il disegno di legge prevede la trasparenza obbligatoria dei punti indicati dall’art. 11, comma 8,degli atti dell’Organismo indipendente di valutazione e dei dati relativi ai debiti dell’ente (ammontare dei debiti, numero delle imprese creditrici ed il tempo medio di pagamento).
La trasparenza se costruita su un sistema di performance management consente ai cittadini di effettuare gli opportuni controlli sulle prestazioni erogate ed al management di conoscere in ogni momento l’andamento gestionale dell’ente ed intervenire per mutare il percorso nell’interesse dell’ente e dei cittadini che sono i destinatari dei servizi. Non bastano piccoli correttivi a vista per migliorare la performance delle pubbliche amministrazioni ma occorre introdurre un sistema di performance management trasparente ed efficace.
Si ritiene utile, per i fini suesposti, realizzare un confronto con l’Anci, l’Upi e con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome per migliorare il disegno di legge, rafforzare i fattori di cambiamento e superare lo status quo degli enti territoriali.

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lunedì 25 novembre 2013

Gli sprechi dei centri per l’impiego

Articolo di Sergio Rizzo pubblicato sul Corriere della Sera il 23 novembre 2013
Ad accorgersi della loro esistenza non sono i 642 mila italiani con meno di 25 anni che stanno disperatamente cercando un lavoro. Né quel milione e 706 mila disoccupati di lungo periodo, cioè a spasso da almeno un anno, censiti dall’Istat. Che i centri per l’impiego pubblici siano vivi e vegeti ne hanno contezza soprattutto i loro 9.865 dipendenti nonché il Tesoro, che secondo un rapporto dell’ufficio studi Confartigianato ogni anno tira fuori in media per mantenere quelle strutture la bellezza di 464 milioni di euro: somma per tre quarti destinata agli stipendi. Ovvero una cifra, per capirci, nettamente superiore al gettito dell’Imu sui terreni agricoli che sta facendo ammattire il governo Letta, alla disperata ricerca delle coperture per eliminare quella tassa. Qualcuno potrà sbandierare i dati Eurostat, per i quali la nostra spesa pubblica per i servizi sul mercato del lavoro tocca appena lo 0,03 per cento del Prodotto interno lordo, meno di un decimo rispetto a Germania e Regno Unito, un ottavo della Francia e un terzo della Spagna. Il problema, però, sono i risultati.
E i numeri, come quasi sempre, rappresentano una sentenza inappellabile. Negli ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i centri per l’impiego mediamente non più di 35.183 persone ogni dodici mesi. Questo significa che ciascun posto di lavoro è costato oltre 13 mila euro. L’equivalente di un’annualità del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle. Con tanto di tredicesima. Tanto basterebbe per decretare un’immediata e radicale riforma. Vedremo ora quella cui sta lavorando il ministro Enrico Giovannini, già sapendo che è destinata a rincorrere il mostro galoppante della disoccupazione. L’Ocse ha appena diffuso dati raccapriccianti sullo stato del nostro mercato del lavoro. A settembre i giovani italiani di età compresa fra 15 e 24 anni in cerca di occupazione hanno raggiunto la spaventosa quota del 40,4 per cento, con un aumento di oltre 5 punti e mezzo rispetto all’anno precedente. E quel che è più grave, il tasso dei giovani senza lavoro risulta superiore di oltre due terzi rispetto alla media dei paesi sviluppati, pari nello stesso mese al 24,1 per cento.
Tutto questo mentre la cancrena della disoccupazione dilaga senza particolari riguardi nemmeno per l’età. Dice la Confartigianato nel suo studio basato su dati dell’Unioncamere e del ministero del Lavoro che il numero di quanti erano rimasti a casa da oltre un anno alla fine di giugno scorso risultava superiore di 911 mila unità a quello del giugno 2008, quando la crisi è esplosa. L’aumento è del 114,6 per cento: complice anche una crescita da 400 mila a 810 mila dei disoccupati di lungo periodo under 35. Il che fa apparire ancora più avvilenti certe performance degli uffici incaricati di mettere una pezza a una situazione così pesante. Tanto avvilenti che il nuovo presidente dell’organizzazione degli artigiani, Giorgio Merletti, scongiura il governo di astenersi anche soltanto dal pensare «di attribuire altri soldi per uno strumento che esce bocciato dall’esame dei dati, perché errare è umano ma perseverare diabolico. Piuttosto, destiniamo le risorse straordinarie disponibili dal primo gennaio 2014 ai giovani che vanno in azienda a fare tirocini o stage, anziché impiegarle per creare altri posti inutili in quegli uffici pubblici».
Basta dire che soltanto il 2,2 per cento delle imprese italiane gestisce le assunzioni passando attraverso i centri per l’impiego. Una quota infinitesima, di poco superiore rispetto a quella degli annunci sulla stampa specializzata (1,5 per cento), e decisamente inferiore a quella appannaggio di società di lavoro interinale e internet (5,2), alle banche dati aziendali (24,4) e soprattutto alle segnalazioni di conoscenti e fornitori che rappresentano il canale in assoluto più utilizzato con il 63,9 per cento del totale. Per giunta, negli ultimi tre anni il peso di questi centri è drammaticamente crollato. Dal 2010 a oggi è passato infatti dal 6,3 a poco più del 2 per cento. Al Sud, poi, è letteralmente inesistente: appena l’1,1 per cento delle imprese si rivolge alle strutture pubbliche. In Calabria siamo all’1 per cento. In Campania, Basilicata e Sicilia addirittura allo 0,8. Calcolando il rapporto fra le 31.030 aziende che nel 2013 hanno utilizzato i centri e gli 8.781 dipendenti di quelle strutture pubbliche materialmente destinati alle attività di inserimento lavorativo, la Confartigianato arriva alla conclusione che ciascun addetto segue un’azienda ogni tre mesi e dodici giorni. Gestendo allo stesso ritmo da lumaca l’accesso al lavoro dei disoccupati: uno a trimestre.
E con una spesa che è andata crescendo in modo abnorme pure rispetto agli altri apparati pubblici. Negli anni compresi fra il 2005 e il 2011 il costo per il personale dei servizi per l’impiego è lievitato da 309 a 384,5 milioni di euro, con una progressione irresistibile: +24,4 per cento. Il triplo dell’incremento messo a segno dalle retribuzioni degli impiegati pubblici, salite invece complessivamente nello stesso periodo dell’8,3 per cento. Per non parlare della differenza enorme di produttività fra gli uffici del Sud e quelli del resto del Paese. Gli addetti nelle regioni meridionali sono ben 5.093, contro 2.099 del Centro, 1.503 del Nord Est e 1.336 del Nord Ovest, dove peraltro si riscontra il miglior livello di efficienza: se soltanto tutte le strutture funzionassero così, argomenta il rapporto degli artigiani, «per gestire gli utenti di tutti i centri italiani sarebbero necessarie 3.692 unità di meno». Con un risparmio quantificabile in 141 milioni di euro, cinque volte lo stanziamento al fondo per l’infanzia previsto dalla legge di stabilità.
Storia dell’emendamento di Pietro Ichino

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venerdì 22 novembre 2013

Riflessioni sugli effetti dell’apparato

Articolo di Lorenzo Dalai, capogruppo PD in consiglio Provinciale di Verona
"Che cento fiori sboccino, che cento scuole rivaleggino", Mao aveva riportato in auge questa allusione storica lanciata dal grande filosofo taoista Zhuangzi (IV - III secolo a.C.) a proposito delle varie scuole filosofiche che fiorivano alla sua epoca, durante il periodo dei Regni Combattenti (480-220 a.C.). Durante quest'autentica età d'oro delle attività intellettuali in Cina, si svilupparono in modo particolare il taoismo, il confucianesimo e la Scuola dei Legisti.
Mao aveva riportato in auge questa allusione storica lanciata in un famoso discorso liberale e liberatore del 1956 che avrebbe avuto una notevole risonanza. Sostenuti da artisti, scrittori e studenti, i piccoli partiti non comunisti che erano stati tenuti a freno, in una sorta di libertà vigilata, per salvare una parvenza di dialogo democratico, "uscirono allo scoperto" e intrapresero una campagna denigratoria nei riguardi dell’apparato del Partito Comunista che guadagnava una forza sempre maggiore e si diffondeva nell'intero paese. Fu come stappare una bottiglia di spumante, l’ebbrezza di un nuovo clima liberal-democratico divenne entusiasmante e portò ad alcuni eccessi.
L’apparato del Partito cominciò una reazione dapprima solo difensiva, poi sempre più pesante, con censure, processi, condanne ai campi di lavoro, persino fucilazioni… nel 1958 dei Cento fiori non restavano nemmeno i petali.
Oggi il Partito Democratico vive un momento di possibile svolta, con Matteo Renzi che, aggiudicandosi la segreteria nazionale, può riportare all’entusiasmo della nascita dell’Ulivo, un entusiasmo contagioso e vittorioso. Da allora il PD ha perso circa 3.500.000 elettori!
Su questa possibile rinascita dello spirito partecipativo e innovativo si allunga l’ombra dell’Apparato: la mozione Renzi, nonché tutte le prese di posizione del Sindaco di Firenze, dice chiaramente che con l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti si dovranno avere apparati ridotti e più leggeri.
Probabile quindi che ci sarà una opposizione molto forte ad un ridimensionamento, quando dall’annuncio si passerà all’attuazione, quando si smantelleranno uffici e strutture che, costosissime, poco hanno prodotto e che, se misurate sulla base dei risultati conseguiti, nulla valgono.
Per me, ritornando a Zhuangzi, i 100 fiori sono le persone che si sono avvicinate, o riavvicinate, alla Politica sperando in una vera partecipazione, in un Nuovo che rompa con i vecchi schemi. Le 100 scuole sono i Circoli nei quali si torna a parlare di Programmi, di Futuro, di Lavoro (perché senza lavoro non c’è futuro).

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giovedì 21 novembre 2013

Infiltrazioni mafiose a Verona?

La mafia ha superato da tempo i confini territoriali del Sud e si infiltra nell’economia del Nord ed approfitta delle difficoltà finanziarie delle imprese, utilizzando i proventi dell’attività criminale ed investendo il proprio patrimonio illecito. Pertanto, nessuna sorpresa se vengono scoperte presenze mafiose nel nord e nel veneto.
Negli ultimi anni sono state numerose le infiltrazioni mafiose scoperte nel Veneto ed in Provincia di Verona e, pertanto, occorre che il fenomeno non sia sottovalutato dai cittadini e dagli organi preposti alla lotta alla criminalità organizzata.
I deputati veneti del Partito Democratico Alessandro Naccarato della Commissione antimafia, Alessia Rotta e Diego Zardini hanno presentato una interrogazione al ministro dell’Interno Angelino Alfano al fine di conoscere ed eventualmente intervenire su alcuni episodi avvenuti a Verona di cui è stata data notizia dalla stampa.
Si riporta l’interrogazione integrale.
Al Ministro dell'Interno,
Per sapere - premesso che:
Soveco spa, con sede a Verona in via Cà di Cozzi 41, è una società di costruzioni con capitale sociale di un milione e mezzo di euro ed è di proprietà di Sabina Colturato e di Francesco Urtoler;
Soveco spa è una delle principali imprese operanti nel territorio di Verona e partecipa alla realizzazione del traforo delle Torricelle, del filobus, di tre impianti di biogas, di parcheggi e centri commerciali e della ristrutturazione dell’ospedale di Peschiera;
Antonino Papalia, ex marito di Sabina Colturato, secondo notizie pubblicate dai quotidiani veronesi, si occuperebbe degli affari immobiliari della Soveco in Romania, anche mediante l’intervento di alcune società partecipate dalla stessa Soveco;
Antonino Papalia è stato coinvolto nel 1989 in un’ indagine per traffico di esplosivi dal sud al nord Italia e risulta avere precedenti penali;
secondo Michele Croce, ex presidente dell’Azienda Gestione Edifici Comunali (Agec) del Comune di Verona, la Soveco avrebbe come socio occulto Antonino Papalia e il fatto sarebbe riportato in un’informativa del nucleo di Polizia Tributaria di Verona: la numero 6164 del 16 luglio 2009;
l’ex vicesindaco di Verona, Vito Giacino, dimessosi nei giorni scorsi a causa di un’indagine per il reato di corruzione per la presunta assunzione irregolare di alcuni dipendenti nelle società partecipate dal Comune, ha acquistato nel 2011, tramite la moglie Alessandra Lodi, un immobile a Verona per un valore di 1,7 milioni di euro dalla Soveco spa;
le notizie riportate dai quotidiani locali e le dimissioni di Giacino stanno sollevando notevoli preoccupazioni nell’opinione pubblica sul rischio che a Verona operi un’impresa in collegamento con esponenti della criminalità organizzata e che questa impresa abbia stabilito contatti e relazioni con l’amministrazione pubblica;
queste notizie hanno sollevato grave allarme e grande clamore, specialmente perché seguono altri scandali riguardanti l'Amministrazione di Verona e perché, se confermate, getterebbero nello sconcerto l'intera comunità, costretta ad assistere addirittura all'oscuro intreccio di interessi tra imprese, criminalità organizzata e la stessa Amministrazione comunale -:
se il Ministro sia a conoscenza dei fatti sopraesposti;
se corrisponda al vero il fatto che l'informativa del nucleo di Polizia Tributaria di Verona numero 6164 del 16 luglio 2009 individua legami tra Antonino Papalia e la Soveco Spa;
quali provvedimenti, di sua competenza, intenda adottare, anche attraverso la collaborazione degli uffici territoriali del Governo, per far luce sulle presunte relazioni tra l'impresa di costruzioni veronese e la criminalità organizzata.

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mercoledì 20 novembre 2013

Ripensare il PD in periferia

Le fasi congressuali che si sono succedute fino a questo momento ci offrono l’occasione per  riflettere sull’attuale assetto normativo e strutturale del PD periferico. Vi sono state alcuni esempi (gonfiamento degli iscritti, regole tortuose ecc.) che ci hanno accompagnato nel nostro impegno congressuale.
Aver stabilito l’apertura dei congressi locali ai soli iscritti e la possibilità per gli elettori di potersi iscrivere fino al momento congressuale  per avere la possibilità di votare nei congressi locali hanno creato confusione ed in alcuni casi specifici l’inflazione degli iscritti.  Inoltre, i seggi assegnati ad ogni circolo sono stati rapportati al numero degli iscritti degli ultimi anni tre anni.
Per evitare tutto questo è guadagnare in credibilità bastava aprire i congressi locali all’elettorato e non solo agli iscritti o richiedere un minimo di anzianità di 6 mesi agli iscritti per avere il diritto al voto e rapportare il peso del circolo al consenso elettorale degli ultimi anni.
Il circolo è il primo anello della catena di partecipazione alla vita politica nel quale si organizza la partecipazione responsabile e consapevole degli iscritti e degli elettori. Per salvaguardare tale missione è necessario cambiare le regole per il congresso provinciale, prevedendo la presentazione di liste a livello circoscrizionale prima della celebrazione del congresso al fine di aggregare il territorio, attenuare le divisioni nei circoli, far conoscere tutti i candidati al congresso ed evitare compromessi e contrattazioni nel momento congressuale.
Occorre anche che la responsabilità del tesseramento venga affidata al segretario di circolo ed a un gruppo di lavoro unitario che si assume la responsabilità di organizzare la campagna annuale del tesseramento nel rispetto delle regole: le persone possono iscriversi al circolo personalmente e senza intermediari. Non solo un uomo al comando per la gestione del tesseramento.
Purtroppo tutto questo non è avvenuto in modocompleto per lo scarso rilievo dato alle strutture periferiche del partito che in occasione del congresso non sono state innovate dal punto di vista dell’organizzazione e delle regole.
Occorre considerare la possibilità di eliminare le convenzioni perché gli iscritti sono stanchi di essere convocati tante volte e nel caso specifico in modo inutile. Eliminando le convenzioni tutti i candidati alla segreteria potranno accedere al Congresso.
Abbiamo assistito a worse practice: confusione, bugie, scorrettezze e sotterfugi che lasciano pensare che nel nostro partito non vi è una cultura della legalità e dell’onesta così diffusa da non lasciare spazio a questi comportamenti. Le responsabilità sono diverse: le regole che si prestano a tale giuoco e l’ambizione di taluni personaggi che lavorano per la propria sopravvivenza ed ascesa politica, utilizzando le bugie per acquisire consensi. In Sicilia si è verificato il caso del nuovo segretario del PD di Enna estromesso alle elezioni politiche di febbraio 2013 e candidato al congresso provinciale.
E’ importante tenere presente in ogni momento del nostro impegno politico che la bugia attenta alla democrazia perché inganna i cittadini che diventano strumenti di potere da parte dei politici mentitori.
A tale proposito consiglio di leggere: Luciano Violante, Politica e menzogna, Einaudi, 2013.
Viviamo in un’epoca di grandi e veloci cambiamenti che per essere interpretati occorrono competenze diverse ed informazioni condivise. Occorre superare la leadership autoritaria e realizzare una cooperazione tra alto e basso sensibile al rinnovamento ed alle istanze che arrivano dalla base. Se in questo processo globale non viene praticata la trasparenza il pianeta rischia di subire gravi danni come la guerra in Iraq, il fallimento di Enron e la chiusura di Arthur Andersen, Lehman Brothers, Worldcom ed in Italia gli scandali di Cirio e Parmalat.
La trasparenza è un grande motore di cambiamento per tutti i settori dall’economia alla politica ed è un fattore grazie a cui un leader, una società, un partito politico possono recuperare la fiducia dei cittadini, dei consumatori e degli iscritti e ristabilire un rapporto di partecipazione attiva e critica per risolvere i problemi della società moderna.
Il posizionamento basso dell’Italia nell’indice che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e privato (72° posto su 174 paesi) implica corruzione e opacità che comportano un impatto negativo sull’economia, sull’attrazione degli investimenti esteri, sulla credibilità dell’Italia e del sistema politico.
Si consiglia di leggere per approfondire il tema: Daniel Goleman, Warren Bennis e James O’Toole, Trasparenza verso una nuova economia dell’onesta, Rizzoli, 2009.
Considerati i danni che le bugie, gli imbrogli e l’opacità provocano nel paese, occorre intervenire con dei cambiamenti appropriati nelle strutture periferiche del partito affinché la trasparenza e la franchezza siano fattori che guidano l’impegno politico, le opinioni e le decisioni.
Ma non sono solo questi i fattori di cambiamento da considerare. Ultimamente Simona Bonafè, intervenuta in una assemblea in Valpolicella, ha sottolineato con forza l’importanza che assume il partito aperto alla società e le competenze per affrontare i problemi sempre più complessi della società.
In una intervista Dario Nardella afferma: "Se nella prima fase della nostra storia democratica non poteva esistere democrazia senza partiti, oggi l’esplosione di strumenti di rappresentanza diretta, l’associazionismo, l'esistenza diffusa dei comitati locali, i nuovi strumenti del web rendono possibile per un cittadino far sentire la propria voce al di là dei partiti, direi purtroppo nonostante i partiti. In altre parole, i partiti non hanno più l’esclusiva della partecipazione, quindi o riescono a competere sul terreno della trasparenza, della capacità di rappresentanza offrendo ai cittadini uno strumento diretto per incidere nelle scelte pubbliche e per partecipare alla vita istituzionale o saranno soppiantati dalle forme di autorganizzazioni della società o da salvifici quanto velleitari movimenti personalistici”.
Condivido le affermazioni di Dario Nardella che pone l’attenzione sulla capacità dei partiti di cambiare per rappresentare i cittadini attraverso la trasparenza e la partecipazione altrimenti il destino dei partiti è quello di scomparire o di essere irrilevanti".
“I partiti devono essere assolutamente comunità di passioni, continua Nardella, capaci di trasformare i sogni e i desideri dei propri sostenitori in un progetto di governo, in un'idea di futuro. Devono essere capaci di mobilitare tutte le risorse umane ed economiche di una Nazione verso un fine comune. Il partito che vorremmo costruire, insieme a Matteo Renzi, è un partito che sappia farsi carico di queste aspettative coinvolgendo prima, durante e dopo, i cittadini nelle scelte principali che dovrà andare a compiere, un partito che - grazie anche alle nuove modalità di partecipazione - sappia mantenere uno stretto rapporto con i cittadini senza però limitare la sua vita associativa ai soli momenti congressuali. Una partito è un organismo comunitario e vive se quotidianamente tutti partecipano alla sua alimentazione e al suo rinnovamento. Come tutti gli organismi viventi, senza nutrimento e senza rinnovamento continuo delle sue cellule c'è solo la morte”.
Dalle dichiarazioni di Simona Bonafè e Dario Nardella si configura un partito nuovo che poggia sui seguenti fattori di cambiamento: - Sistema aperto; Trasparenza; Visione comunitaria; Sapere. Pertanto, occorre ricostruire il PD in periferia che si fondi su tali fattori. Il modello organizzativo e le regole della democrazia interna vanno cambiati in coerenza a tali fattori e tenendo conto della semplificazione delle regole.
Nel caso in cui il Partito rimane quello che è oggi inevitabilmente si trasformerà in una organizzazione a ragno che non considera la partecipazione democratica, impartisce ordini dall’alto con la pretesa che vengano eseguiti dalle strutture periferiche del partito. In tale modello prevale la gerarchia e la leadership autoritaria.
Noi desideriamo realizzare un modello che abbia le caratteristiche naturali della stella marina, la quale può essere rappresentata da una piramide rovesciata con una leadership autorevole, capace ed in grado di esprimere una visione condivisa che valorizza le persone e la partecipazione politica. Non più, quindi, un’organizzazione gerarchica ma rappresentata da unità operative indipendenti, comunicanti e flessibili. Accanto ai circoli possono essere realizzate delle comunità di passione che abbiano le stesse funzioni di rappresentanza al fine di allargare lo spazio di rappresentanza del PD. Questo modello può essere rappresentato dallo slogan: "Lavorare con gli altri e per gli altri”.
La vittoria di Matteo Renzi alle primarie dell’8 dicembre trasformerà sicuramente le speranze che abbiamo riposto in lui e nel cambiamento positivo in fatti concreti per avviare una nuova stagione per il Paese e per il PD all’insegna della eguaglianza, della giustizia e del merito. Non più un partito tradizionale che conserva alcune caratteristiche dell’epoca tayloristica ma un partito aperto di passione e di confronto.

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lunedì 18 novembre 2013

Il pensiero di Friedman e l’Italia

Articolo di Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera il 15 novembre 2013
Da anni, in Italia, una sparuta pattuglia di liberisti si batte per il mercato, per le liberalizzazioni e per uno Stato meno invasivo. Sostengono i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché pensano che mercati aperti e concorrenza siano gli strumenti per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, e non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo, nel mondo, sono successe alcune cose.
La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano nel mondo, 1 su 3; oggi sono poco meno di 1 su 5. Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei paesi ricchi, e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni era nel 1972, ai prezzi di oggi, di 15 dollari; è sceso a 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora).
In occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in almeno un paio di infortuni: nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom; più tardi la crisi innescata dai mutui subprime (se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati sarebbero precipitati, come accadde negli anni Venti).
Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di Gas – l’80% dell’energia utilizzata in Italia – sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dall’esportazione.
A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità.
Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nelle recenti campagne elettorali americane i candidati (anche Barack Obama e Hillary Clinton) hanno parlato con accenti critici della globalizzazione, e si sono ben guardati dall’attaccare sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani. In Francia il librale Sarkozy a parole predicava il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate – Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino.
La maggioranza degli italiani ha votato per 4 volte un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare – con denaro pubblico – un’azienda (Alitalia) che perdeva, continua a perdere 1 milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perchè le nostre tasse sono state usate per tenere in piedi decotta da anni. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il sindaco Alemanno, che anni fa aveva solidarizzato con la violenta protesta dei tassisti contro il tentativo di Bersani di liberalizzare quel servizio). Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come i liberisti, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette “protezione” dal vento della concorrenza.
Che cosa non hanno capito i liberisti, dove hanno sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di “concorrenza” e “mercato”. Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati a uno Stato benevolente. Affinchè il mercato e la globalizzazione diventino popolari è necessario “governarli”. E’ certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze ma non vedo cittadini che manifestano perchè il Doha Round non fa un passo in avanti. La decisione dei Capi di Stato dell’UE di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono – e che alcuni politici promettono – è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non quella che potrebbe offrire AntiTrust.
A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito e alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione: i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità.
Convincerli che il modo per difender il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.Il “miracolo economico” degli italiani degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana – De Gasperi, ma anche Andreotti – che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella comunità economica europea. La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e di raggiungere una dimensione che ne determino’ il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India e la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi considerano l’apertura agli scambi una minaccia, non un’opportunità.
Mi pare che l’Italia si trovi in un “Cul de sac”. Da oltre un decennio abbiamo smesso di crescere: 10 anni fa il nostro reddito pro capite era simile a quello di Francia e Germania, il 27% più elevato che in Spagna, il 3%più che in Gran Bretagna. IN questi anni abbiamo perso 10 punti rispetto a Francia e Germania, la Spagna nonostante la crisi ha accorciato la distanza e siamo stati di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha mentre mercato merito e concorrenza – i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita – spaventano.
I cittadini, preoccupati, chiedono protezione, qualcuno la promette e il paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina – un paese che ai primi del 900 era ricco quanto la Francia inizia con Peron – inizia proprio così).
Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia – tentativo fatto da alcuni liberisti, me compreso – è fallito. Nel frattempo la sinistra ha perso un’occasione storica: anzichè sbloccare la società a essa pure promesso protezione. Ma chi ha protetto? NOn chi temeva la globalizzazione – che infatti si è fatto proteggere dalla Lega – ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare quell’errore.
I nuovi interlocutori dei “liberisti” (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i “protezionisti” – anche il M5S: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla mobilità planetaria non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è giusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E’ un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.
Il libro che vi apprestate a leggere (o a rileggere) vi aiuterà a riflettere su molte di queste questioni. L’analisi del perchè gli interessi “concentrati” tendono ad averla sempre vinta è illuminante, anche se scoraggiante. Così pure l’esempio del perchè sia stato impossibile anche negli Stati Uniti, privatizzare il servizio postale. Il capitolo sulla burocrazia sembra la descrizione di un ministero italiano. C’è quasi di che rallegrarsi finchè non si arriva al capitolo che Milton e Rose Friedman intitolano “The tide is turning” (“il vento sta cambiando”). E’ cambiato negli Stati Uniti, solo un anno dopo la pubblicazione di questo libro, con l’elezione alla presidenza di Ronald Reagan. E negli stessi anni in Gran Bretagna con Margaret Thatcher.
In Italia non è stata sufficiente la “rivolta del Nord”, né con il blog di Beppe Grillo con il suo bottino di 163 tra deputati e senatori. Stiamo ancora aspettando il nostro Godot ma che arrivi presto, altrimenti troverà solo macerie.

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