giovedì 31 gennaio 2013

INPS: superato problema deroghe vecchiaia

La riforma Amato delle pensioni (art. 2, c. 3, lettera c, del D. Lgs. 503/1992) aumentò il requisito della pensione di vecchiaia da 15 a 20 anni di contribuzione, salvaguardando coloro che avevano maturato il requisito dei 15 anni di contribuzione entro il 1992.
L’INPS con circolare n. 35 del 14 marzo 2012 definisce il requisito contributivo minimo dei 20 anni di contribuzione per accedere alla pensione di vecchiaia, non richiamando il requisito contributivo dei 15 anni conseguito entro il 31 dicembre 2012 da applicare anche a coloro che sono stati autorizzati ai versamenti volontari entro la medesima data.
Un problema enorme per tutti coloro (circa 65mila) che si credevano garantiti dalla riforma Amato e che non sono in condizioni di conseguire il nuovo requisito con l’attività lavorativa o con il versamento dei contributi volontari, cosa impossibile in quanto si tratta di anziani che non lavorano più e che non hanno i soldi per provvedere all’integrazione della contribuzione.
Sull’argomento è intervenuta l’on.Maria Luisa Gnecchi ed altri parlamentari del Partito Democratico che hanno presentano una interrogazione parlamentare al Ministro del Lavoro.
Nella interrogazione si fa presente che “le circolari attuative emanate dagli enti previdenziali sembrano andare oltre il testo del decreto-legge n. 201 del 2011.
Gli interroganti fanno presente “che non si può continuare a mettere mano al sistema previdenziale in modo frettoloso e scoordinato, senza mantenere le deroghe delle previgenti disposizioni, mai abrogate e senza alcuna verifica sull'impatto reale delle nuove norme, sulla vita di migliaia di cittadini”.
Si chiede inoltre al Ministro “se intenda promuovere la modifica delle circolari interpretative in applicazione del decreto-legge n. 201 del 2011, affinché si riconoscano i requisiti già maturati ai sensi dell'articolo 2, comma 3, lettera c), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n, 503, visto che la suddetta norma è stata abrogata”.
Il Ministro rispondendo all’interrogazione si è dimostrata disponibile ad esaminare la problematica che gli è stata sottoposta e di considerare gli effetti di carattere sociale.
Marialuisa Gnecchi dichiara “un certo apprezzamento per il fatto che il rappresentante del Governo, nella sua risposta, abbia implicitamente ammesso – per la prima volta dalla data della riforma del sistema previdenziale – l'esigenza di individuare una soluzione alla problematica in oggetto, preannunciando lo svolgimento di approfondimenti,che, tuttavia, ritiene sarebbe stato opportuno svolgere in tempi precedenti.
Giudicherebbe grave non riconoscere ai lavoratori (sulla base di una interpretazione non corretta della normativa vigente da parte dell'INPS) la cristallizzazione del requisito contributivo dei 15 anni, in vista della maturazione della pensione, prevista 503 del 1992 e mai espressamente abrogata dal Governo dal decreto legislativo n. in carica, anche considerato che la situazione previdenziale dei lavoratori – in particolare delle lavoratrici (le più penalizzate da tale interpretazione, attesa la natura discontinua delle loro prestazioni professionali) – ha già subito un aggravamento a causa delle misure rigide assunte in materia di innalzamento dei limiti di età. Chiede con forza al Governo, quindi, di rispettare quantomeno la normativa vigente e i diritti consolidati (almeno fino a che non intervenga una esplicita norma di abrogazione, che sarebbe, in ogni caso, valutata negativamente), che ritiene siano spesso messi in discussione da interventi normativi suscettibili di incidere sul sistema previdenziale in modo scoordinato e sbagliato, favorendo la diffusione di interpretazioni scorrette dell'ordinamento vigente”.
Nella giornata di ieri il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Elsa Fornero “ha dato il proprio ‘via libera’ a una circolare dell’INPS che chiarisce il quadro circa il mantenimento del diritto di alcune decine di migliaia di lavoratori ad accedere alla pensione di vecchiaia con i requisiti contributivi di 15 anni previsti dalla cosiddetta ‘riforma Amato’ del 1992.
La circolare riguarda persone - in particolare donne - la cui vita lavorativa è stata caratterizzata da discontinuità (es.: lavoratori addetti a servizi domestici e familiari, lavoratori agricoli e lavoratori dello spettacolo), che hanno maturato diversi anni di contribuzione prima del dicembre 1992, per poi uscire dal mercato del lavoro con la prospettiva di poter fruire della pensione di vecchiaia una volta raggiunto il necessario requisito anagrafico.
Il Ministro Elsa Fornero ha commentato: “Dopo aver salvaguardato 140 mila lavoratori, aver sciolto il nodo delle ricongiunzioni onerose sono soddisfatta di poter risolvere un problema che riguarda circa 65mila persone, la maggior parte delle quali sono donne”.
L’on. Marialuisa Gnecchi sottolinea “la spudoratezza della Ministra Fornero che fa un comunicato stampa oggi con il quale si assume il merito di risolvere il diritto a pensione per 65000 persone, quasi tutte donne, mentre sta solo riconoscendo uno dei suoi tanti errori, aveva imposto all'Inps un'interpretazione restrittiva che cancellava il requisito dei 15 anni maturati entro il 31.12.92 previsto dalla legge 503/92 senza aver abrogato la legge, io ero intervenuta immediatamente contro questa interpretazione come potete vedere dall'interrogazione e dalla risposta del viceministro in commissione (che trovate subito sotto il comunicato stampa), e da marzo del 2012 ho continuato ad intervenire su questo,ottenendo più volte l'impegno dell'Inps di provvedere alla correzione della circolare imposta dalla ministra e lei oggi dichiara di aver salvaguardato 140000 lavoratori, di aver sciolto il nodo delle ricongiunzioni onerose e di aver risolto anche il requisito dei 15 anni per le donne, requisito che lei aveva fatto cancellare con atto amministrativo senza aver abrogato la norma.

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mercoledì 30 gennaio 2013

Cucchiani più fiducia nel sistema Italia

Articolo di Sergio Bocconi pubblicato sul Corriere della sera il 29 gennaio 2013
«A Davos ho raccolto la sensazione di un clima molto diverso rispetto all'anno scorso: non c'erano più l'aria cupa, il disfattismo,le preoccupazioni per i mercati e per un disastroso break up dell'euro, non sono più presenti i timori per il "cigno nero", cioè per un evento improbabile ma catastrofico come l'implosione della moneta comune. Anzi: oggi prevalgono un buon livello di serenità e di fiducia. E l'Italia non è più "il malato d'Europa". Lo prova non solo lo spread, sceso da 248 punti, bensì anche il fatto che nei confronti del Montepaschi ho avvertito una "curiosità" e un interesse circoscritti, nessuna preoccupazione di rischio sistemico o generalizzazioni sul resto delle banche italiane: si tratta di un caso isolato e come tale viene percepito anche a livello internazionale». Enrico Tommaso Cucchiani, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, è stato l'unico grande banchiere italiano a partecipare al Forum globale che si tiene ogni anno nella cittadina svizzera. E nel raccontare il risultato dei numerosi incontri, dei dibattiti, dei quesiti che gli sono stati posti dai protagonisti della finanza mondiale, sottolinea un cambio di clima che rappresenta un risultato sul quale è importante riflettere. Nei suoi aspetti più favorevoli e anche in quelli che lo sono di meno: alcune preoccupazioni si sono «trasferite» sull'economia reale.
Cosa ha ridato fiducia ai mercati?
«Le banche oggi presentano situazioni decisamente migliori sotto il profilo di patrimonio e liquidità, hanno superato gli stress test, sono stati messi a punto da parte della Bce meccanismi di controllo e salvaguardia che hanno consentito un rafforzamento strutturale del sistema e costruito una rete di protezione. Penso vada riconosciuto a Mario Draghi il ruolo di "eroe" della stabilizzazione del sistema finanziario. Il punto di discontinuità è stato il suo discorso a Londra il giorno prima delle Olimpiadi, quando ha detto: faremo tutto quanto necessario per salvaguardare l'euro».
E le preoccupazioni per l'economia reale?
«In Europa il Pil stagnante e la recessione prolungata nella quale versano alcuni Paesi, fra i quali il nostro, sono fattori di preoccupazione costante, anche per gli aspetti sociali come l'occupazione,anzi, la disoccupazione soprattutto giovanile: negli Stati Uniti è in calo, in Europa è invece in aumento. Desta allarme che nei Paesi Ue più forti un giovane su cinque sia senza lavoro, e in quelli più deboli, come Spagna e Grecia, lo sia uno su due».
Con riflessi per le banche.
«Certo, la recessione trascina con sé l'aumento del credito problematico, cioè delle sofferenze. La recessione deprime investimenti e acquisti di beni durevoli e la domanda di credito è in calo. Il rimedio invocato è procedere senza indugio nelle riforme strutturali al fine di recuperare in competitività, rendere più attrattivi gli investimenti nel nostro Paese e allineare il nostro sistema ai livelli di chi ha maggior successo nella competizione internazionale con tassi di occupazione crescenti anziché in calo».
Più in particolare quale percezione ha raccolto verso il nostro Paese e le sue banche?
«La caduta dello spread e i rendimenti dei titoli di Stato a 12 mesi scesi dal 6% allo 0,9% parlano in un certo senso da soli. Ho raccolto grandi apprezzamenti per il lavoro fatto e il riavvio strutturale del Paese. Ho incontrato tutti i ceo delle grandi banche internazionali e il feedback è molto positivo. Non posso né voglio omettere che lo è in particolare anche nei confronti della nostra banca, che presenta un core tier 1 pari all'11,1%, il più elevato fra le grandi banche italiane e che ha già superato del 10% i target "vecchi" e più stringenti di Basilea 3 sulla liquidità».
Il caso Montepaschi non ha incrinato la ritrovata fiducia?
«No perché anche la conoscenza ovviamente limitata dei fatti indica che non c'è alcunché di sistemico. È un fatto isolato, frutto di valutazioni individuali, diciamo poco avvedute. Ci sono state decisioni che lasciano aperti interrogativi sulla valutazione di Antonveneta o su scelte di portafoglio indirizzate verso Btp di lunga durata (si pensi solo che la durata media dei nostri investimenti in titoli di Stato è 18 mesi). Si tratta dunque di scelte individuali. Non si può inferire che siamo in presenza di comportamenti diffusi».
Nessun rischio di contagio per il sistema italiano?
«Assolutamente no. Lo ripeto: è un caso isolato sul quale per varie ragioni si sono costruiti giudizi del tutto infondati».
Si riferisce alle critiche sulla vigilanza?
«Senza dubbio la nostra ha una reputazione di una Vigilanza rigorosa, severa, qualificata, anche più di altri Paesi. Più rigorosa nel determinare parametri e più severa nel condurre le ispezioni. È una reputazione di alta professionalità più che acquisita e consolidata a livello internazionale. Se poi una banca, in questo caso il Montepaschi, non fornisce documenti essenziali la Vigilanza non dispone dei poteri, che invece ha la magistratura con la quale Via Nazionale con la quale Via Nazionale collabora attivamente, per entrare nelle casseforti "segrete". Non si capisce dunque su quali basi possano poggiare ipotesi di responsabilità della vigilanza».
Più comprensibili sono ipotesi di responsabilità politica?
«Ammesso e non concesso ci siano pressioni, richieste inopportune, la responsabilità è personale del manager. Può dire di no e andarsene. A questo proposito ritengo improprie le critiche generalizzate alle fondazioni. Sono azionisti come tutti gli altri, che hanno accompagnato la crescita del sistema. Si fa poi un vero salto logico se le si accomuna tutte. Per quanto riguarda le fondazioni nostre azioniste, il peso dell'investimento in Intesa Sanpaolo sul loro patrimonio è ben diverso da quello che ritroviamo nella Fondazione senese, che rappresenta un caso atipico».
Fatto sta che lo Stato deve intervenire ancora, e i Monti bond sono stati oggetto di critiche aspre.
«Quando si dice che l'Imu serve a salvare il Montepaschi si fa un collegamento assolutamente improprio a metà fra assenza di logica e disonestà intellettuale. Come cittadino mi indigno e irrito se si abusa della buona fede degli elettori. La verità è che con i Monti bond vengono tutelati i risparmiatori e l'economia reale: se si bloccasse il Montepaschi allora sì ci sarebbe un rischio sistemico. E diciamo anche che chi grida all'ingerenza dello Stato "trascura" almeno due fatti importanti: l'intervento è temporaneo e nel nostro Paese gli importi impiegati a sostegno delle banche sono trascurabili, sicuramente i meno rilevanti a livello di Europa continentale e non solo».
Il caso Siena dimostra una volta di più il rischio derivati?
«Anche qui circolano delle valutazioni improprie. Gli abusi fanno dimenticare qualche volta che speculazione e derivati sono essenziali per il funzionamento dell'economia reale e per l'operatività di qualsiasi azienda: per esempio un'impresa che esporta si deve ricoprire rispetto a rischi come quello di cambio ed è indispensabile che a fronte di queste coperture ci sia qualcuno che "speculi" per eliminare il rischio dell'azienda. Ma le medicine, come la penicillina, possono curare o, in caso di abuso, ottenere l'effetto contrario. Se si utilizzano i derivati per nascondere la verità e "truccare" i bilanci siamo di fronte all'abuso, che va combattuto con le regole, la vigilanza e anche l'etica professionale. Di nuovo abbiamo dunque bisogno di una visione corretta, che non sia fuorviante e da caccia alle streghe».

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lunedì 28 gennaio 2013

I piani di Confindustria e CGIL

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 26 gennaio 2013 A distanza di pochi giorni l’una dall’altra, Confindustria e Cgil sono entrate ufficialmente nel dibattito elettorale presentando le loro «agende» su crescita e occupazione. Si tratta di una buona notizia, per almeno due ragioni. Innanzitutto perché con questo gesto le parti sociali danno un segnale di serietà e concretezza proprio nel momento di massima fibrillazione della campagna elettorale. In secondo luogo perché i due documenti contengono proposte dettagliate, con tanto di cifre su impieghi e risorse. È forse la prima volta che le due principali organizzazioni del mondo del lavoro si confrontano condividendo una cornice di pragmatismo metodologico e di rispetto dei vincoli di bilancio.
Entrambi i progetti concordano sul fatto che il rilancio di crescita e occupazione richiede sforzi massicci sul piano finanziario: circa 150 miliardi in tre anni per la Cgil, 180 in cinque anni per Confindustria. Per fare cosa? Qui i sentieri si divaricano, quasi specularmente. Confindustria punta tutto sulla competitività delle imprese e propone tagli al costo del lavoro, detassazione permanente dei premi di produttività, incentivi per l’assunzione di giovani e donne, sostegno agli investimenti, promozione di ricerca e innovazione. Il potenziale d’urto della ricetta di Confindustria non sta tanto nei contenuti (piuttosto scontati), ma nell’entità finanziaria degli interventi, che in breve tempo dovrebbero riportare il tasso di crescita almeno al 2%. I 180 miliardi necessari proverrebbero per metà da tagli di spesa, per l’altra da maggiori entrate. Questa è forse la parte meno convincente del progetto: da Confindustria ci saremmo aspettati maggiore coraggio sulle riduzioni di spesa, con proposte più specifiche e incisive (anche sul fronte dei contributi alle imprese).
Le proposte della Cgil sono tutte imperniate sul rilancio e l’espansione dell’intervento pubblico. Il piatto forte è un piano straordinario per la creazione d’impiego da parte dello Stato: circa 180 mila assunzioni nel primo anno, soprattutto giovani e donne.Le risorse? Riduzione dei costi della politica e degli «sprechi», ma soprattutto più tasse, a cominciare da una nuova Imposta sulle Grandi Ricchezze in sostituzione dell’Imu, che vale circa 24 miliardi. Nel documento della Cgil (così come nel discorso tenuto ieri da Susanna Camusso nella Conferenza programmatica di Roma) si percepisce una forte e condivisibile preoccupazione per la nuova «questione sociale» che affligge il nostro Paese e per le condizioni di crescente insicurezza in cui si trovano lavoratori e famiglie. L’impostazione programmatica suscita tuttavia forti perplessità.
A tratti sembra di rileggere diagnosi e proposte degli anni Settanta: ad esempio quando si prospetta un concorsone straordinario, con tanto di graduatorie privilegiate per i precari. Ma davvero il più grande sindacato italiano pensa che la soluzione al declino possa essere un incremento «strutturale» di spesa e di tasse pari al 3 o 4% di Pil? Con il debito pubblico che abbiamo? Con l’apparato statale che ci ritroviamo? Dopo i tanti fallimenti già sperimentati nell’uso dell’impiego pubblico come ammortizzatore sociale, soprattutto al Sud? Il futuro delle economie europee è incerto e nessuno può vantarsi di conoscere la soluzione vincente. C’è però almeno una cosa su cui possiamo trovare un accordo: non ripetere gli errori già commessi. Nel nostro Paese la spesa pubblica è il problema, non la soluzione. Su questo è auspicabile che la Cgil (e più in generale il centrosinistra) s’impegnino in un supplemento di riflessione.

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martedì 22 gennaio 2013

Il raglio magico



Mi chiamo Silvia Allegri, sono insegnante di lettere, consigliere provinciale a Verona, e vicepresidente dal Parco Regionale della Lessinia. Da alcuni anni, dopo aver frequentato una serie di corsi di formazione, svolgo attività assistita con gli asini presso il maneggio Basalovo Trekking a Grezzana (Verona), e attività di didattica rivolta a bambini, ragazzi e adulti. Da poche settimane ho fondato la sede veronese di Asini si nasce.. e io lo nakkui, associazione che si occupa di promuovere sul territorio italiano le attività di didattica e terapia con gli asini, organizzando corsi di formazione per operatori e trekking, in collaborazione con altre associazioni del territorio.
Dalla passione per gli asini e dall’esperienza di didattica e attività assistite è nata l’idea di scrivere un libro, Il raglio magico, Edizioni Osiride, 2012. Inizialmente sentivo l’esigenza di condividere esperienze ed episodi legati alla mia attività con gli asini in maneggio, un’attività che mi ha dimostrato e continua a dimostrare quanto sia efficace per la crescita, l’educazione e il benessere delle persone il rapporto di amicizia e di collaborazione con gli animali in genere, e con gli asini in particolare. Da una ricerca più approfondita sull’asino ho scoperto poi come questo animale accompagni costantemente l’uomo, e sia presente con insistenza nella letteratura, nelle tradizioni popolari, nella religione e nell’arte.
Il libro vuole dunque offrire ai lettori una panoramica sul rapporto uomo-asino nella storia, fatta di aneddoti, curiosità, leggende antiche e tradizioni bizzarre, nell’ottica di una rivalutazione di questo animale, noto a tutti per essere testardo e simbolo di ignoranza, ma in realtà intelligente, paziente e pieno di risorse da scoprire.
Il raglio magico ha avuto il patrocinio di Fieracavalli, ed è stato presentato nel Salone del Bambino nella scorsa edizione di Fieracavalli (novembre 2012).

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domenica 20 gennaio 2013

Distorsioni del Welfare all’italiana

Articolo di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della Sera il 19 gennaio 2013

Sul «Corriere» del 2 gennaio scorso un lungo articolo di Elsa Fornero spiega la logica e gli scopi della riforma degli ammortizzatori sociali che è appena entrata in vigore. E un articolo altrettanto lungo e documentato di Enrico Marro spiega quali sono gli ostacoli che la ministra ha incontrato e sta incontrando nel mandare avanti la sua riforma. A chi vuol saperne di più ? non solo degli ammortizzatori sociali, ma dell'intero sistema di Welfare oggi in vigore nel nostro Paese ? non saprei che cosa consigliare di meglio di un libro della collana storica della Banca d'Italia: Alle radici del Welfare all'italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, di Maurizio Ferrera, Valeria Fargion e Matteo Jessoula (Marsilio). Un libro di storia, che percorre le principali tappe degli istituti che compongono il nostro Welfare dalla loro origine, negli ultimi due decenni dell'Ottocento, al primo impianto delle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione subito dopo la Prima guerra mondiale, sino ai nostri giorni. Il libro percorre queste tappe in modo efficace, ma sintetico, fino alla Seconda guerra mondiale, un periodo già ampiamente studiato; in modo dettagliato dalla guerra ad oggi.
La sconfitta bellica, la caduta del fascismo, l'avvento della democrazia e della «Repubblica dei partiti», lo sviluppo dei sindacati furono una cesura epocale che avrebbe consentito una nuova partenza, l'eliminazione o la correzione di insufficienze e distorsioni già evidenti nel sistema prebellico. Perché questa nuova partenza non avvenne? Perché l'enorme sviluppo quantitativo del Welfare (e soprattutto della previdenza) non si accompagnò a un ridisegno qualitativo, alla luce di criteri di equità e sostenibilità economica che le forze politiche democratiche e i sindacati pur affermavano di sostenere?Storia, dunque, ma storia ragionata, storia scritta da scienziati sociali ? politologi nel nostro caso ? che non si limitano a descrivere in modo accurato come le cose sono andate, ma cercano di spiegare perché sono andate nel modo in cui andarono, perché alcuni percorsi di rettifica non vennero presi e molte occasioni furono mancate, perché la «dipendenza dal passato» e dagli interessi che il precedente impianto legislativo aveva alimentato fu così forte, e l'autonomia politica dei riformatori così debole, da inibire efficaci sforzi di riforma.
Nell'Introduzione di Maurizio Ferrera i paragrafi 3 («In cerca di radici: percorsi esplicativi») e 4 («Un approccio storico-istituzionalista») non sono annotazioni di puro interesse accademico: in una importante collana di studi storici di impianto tradizionale, sono un richiamo necessario all'innovazione di metodo che questo libro produce. Una innovazione che consente di identificare i principali fattori causali, i «colpevoli», che ostacolarono un processo riformatore della cui necessità gli studiosi e i politici più lungimiranti erano consapevoli: nel contesto di una eredità storica nella quale gravi fenomeni distorsivi si erano già radicati, furono, insieme, fattori culturali di origine antica e soprattutto le caratteristiche della competizione politica della Prima Repubblica ? la democrazia bloccata e il pluralismo polarizzato (gli autori fanno propria l'analisi di Giovanni Sartori) ? a indurre i decision maker a persistere su un impianto di Welfare che accentuava, invece di combattere, le distorsioni d'origine.
Distorsioni che Ferrera - responsabile della ricerca - riassume in due grandi categorie, distorsioni funzionali e distributive: ovvero differenze palesi e persistenti rispetto a un modello normativo improntato a criteri di equità e sostenibilità economica e che si possono documentare nel confronto con i Paesi più avanzati, le cui istituzioni di Welfare meglio si conformano al modello normativo. Il termine «funzionale» si riferisce ai rischi-bisogni più/meno coperti dal Welfare pubblico e la distorsione italiana è ben nota: a parità (o quasi) di spesa complessiva rispetto alla media dei Paesi europei, copriamo «troppo» il rischio vecchiaia (pensioni) e troppo poco gli altri, povertà, presenza di figli, esigenze di cura e servizi all'interno della famiglia, disagio abitativo, sostegno all'inserimento e alla formazione professionale e altri bisogni sociali.
Altrettanto nota è la distorsione «distributiva», che si riflette in tutti o quasi gli ambiti del Welfare: un forte divario di protezione (accesso alle prestazioni e loro generosità) tra le diverse categorie professionali, tra inclusi ed esclusi, insider e outsider. I cinque capitoli del libro a cura di Valeria Fargion e Matteo Jessoula, racchiusi tra l'Introduzione e le Conclusioni di Maurizio Ferrera, raccontano in modo accurato e convincente l'evoluzione postbellica del nostro sistema di Welfare, i momenti in cui sarebbe stato possibile attenuare le distorsioni di cui si è detto e le ragioni per cui ciò non è avvenuto. «Risalire alle "radici del Welfare all'italiana" significa... identificare tre elementi nella loro concatenazione temporale: le giunture critiche in cui si sono aperte o chiuse le possibili alternative di percorso; gli snodi decisionali che hanno spinto il nostro Paese verso l'una o l'altra strada; e la costellazione di attori (inclusa la loro logica di azione) che hanno orientato le loro decisioni».
Si arriva così alle soglie del governo Monti e alle riforme della ministra Fornero, che ben meriterebbero un supplemento d'indagine, perché si è trattato ? e ancora si sta trattando ? di una giuntura critica di grande rilievo, che coincide con una situazione di emergenza e può rappresentare uno snodo decisionale di grande importanza, se le forze della conservazione non prevarranno nel governo che farà seguito al governo Monti.
Le riforme Fornero sono infatti il primo tentativo d'insieme, deliberato, coraggioso e consapevole di contrastare le due grandi distorsioni di cui parla Ferrera e ha già suscitato forti reazioni di rigetto nelle forze politiche e sindacali che avranno voce nel governo politico che succederà al governo Monti, come l'articolo di Enrico Marro citato all'inizio illustra assai bene. Reazioni che non discendono solo dal trascinamento del passato, dagli interessi alimentati dalla legislazione in vigore, ma dalla situazione di grande penuria economica e di crisi sociale in cui il tentativo di riforma ha luogo. Fare grandi riforme è sempre difficile. È difficilissimo in una situazione di crisi, che peraltro è proprio quella che ne impone la necessità.

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martedì 15 gennaio 2013

Massimo D’Alema: Ultimo capitolo di Controcorrente

Articolo di Peppino Caldarola pubblicato su l’Unità il 15 gennaio 2013
Oggi a Roma, ai Musei capitolini in Campidoglio, presenteremo un libro, "Controcorrente", edito da Laterza, in cui affronti la politica italiana degli ultimi trent'anni, discuti sul rischio dell'antipolitica e sul futuro della sinistra. Il libro si chiude a ridosso dello scioglimento delle Camere. Monti allora era indeciso se restare super partes o salire-scendere in politica. Poi ha scelto. Questo passaggio è il capitolo mancante del libro e sarà l'ultimo capitolo della prossima edizione. "L'Unità" gentilmente ci ospita facendoci riprendere la nostra chiacchierata. Allora partiamo proprio dall'ultimo Monti.
«Abbiamo scritto un libro di politica e sulla politica a ferro ancora caldo. Non abbiamo preteso di scrivere la Divina commedia, quindi siamo nelle condizioni di proseguire il ragionamento per cercare di interpretare il cambiamento di scenario e ín particolare per valutare la più grande novità: il venire in campo di un Terzo polo che ha un'ambizione che non ha mai avuto, quella di ridisegnare lo scenario politico italiano. Non so se l'obiettivo dell'operazione Monti, e delle forze che intorno a Monti si raccolgono, sia quella di creare le condizioni di un dominio centrista. Probabilmente la vera ambizione è quella di ridisegnare l'area moderata italiana in chiave europeista, con un più forte collegamento con le forze conservatrici democratiche europee, in particolare con i democristiani tedeschi, e di archiviare l'anomalia Berlusconi...»
Detto così il giudizio sull'intera operazione è positivo...
«È un'aspirazione positiva, ma c'è in Italia lo spazio per una grande forza maggioritaria democratica europeista che prescinda dalla sinistra? Nel passato è accaduto, ma nelle condizioni della guerra fredda. La Dc poté contenere forze, culture, passioni che, con la scomparsa di quel partito, si sono liberate da questo vincolo e si sono divise. Non a caso, le componenti riformiste e europeiste più coerenti hanno dato vita, insieme a noi, al Pd. Dall'altra parte, è venuta in campo una destra populista che ha trovato in Berlusconi e nella Lega il suo punto di riferimento. E non credo si tratti di un fenomeno transitorio. Oggi siamo di fronte a un mutamento che in qualche modo ci sfida, ma non vedo, nell'operazione Monti, l'inizio di una nuova egemonia moderata neI Paese. Penso che in qualche modo il centro, questo centro democratico europeista, sarà costretto a misurarsi con il Pd e la sinistra. Ecco perché Monti avrebbe potuto svolgere un ruolo diverso, essere punto di riferimento dí un ampio arco di forze. Nel momento in cui, invece, ha scelto di diventare parte, capo di un partito, con tutto il peso dei compromessi, dei prezzi che una scelta di questo genere impone, è chiaro che il suo ruolo si ridimensiona. Dopo le elezioni ci sarà bisogno di un'opera non semplice di ricucitura».
Perché il Professore preferisce fare il capo-partito piuttosto che essere, come suggerisci nel libro, il punto di riferimento di un asse fra il centro e il centrosinistra?
«Probabilmente dietro la sua scelta c'è la convinzione che senza di lui questo Terzo polo non avrebbe assunto consistenza politica, non avrebbe avuto un peso tale da portarlo a un confronto con la sinistra. È evidente che questa operazione è concepita per condizionare il governo del Paese in un rapporto con il Partito democratico. Torniamo a un tema che ho affrontato nel libro: ci sono forze, fra quelle che hanno spinto Monti, che mantengono una riserva, una diffidenza nei confronti della sinistra. E quindi, pur dovendosi arrendere all'idea che essendo in democrazia con molta probabilità l'Italia sarà governata da noi, ritengono di dover condizionare il più possibile il processo politico in atto. Si tratta di forze espressione del mondo economico, di componenti del mondo cattolico, in particolare quelle più istituzionali, e del mondo conservatore europeo. Non credo che gli americani abbiano avuto un ruolo ed è infondato dire che questa scelta di Monti l'abbia voluta l'Europa tout court. Questa è una mistificazione».
La spinta viene dal Partito popolare europeo...
«Non c'è dubbio che i progressisti europei vedono con molto favore lo spostamento dell'asse in Italia, perché ciò inciderebbe sugli equilibri politici continentali. Non è "l'Europa per Monti": sono i conservatori europei, in testa la signora Merkel, a dare la spinta. Preferiscono non avere un'Italia che entri nel campo progressista e scelgono di esercitare un condizionamento in senso conservatore. Oramai la battaglia politica e i rapporti di forze vanno visti in un'ottica europea. Questo i tedeschi l'hanno capito e infatti la loro politica non è provinciale. Da noi, invece, permane un elemento di provincialismo che porta a non vedere lo scenario nel suo insieme. La Merkel ha una visione europea in funzione della difesa di un'egemonia conservatrice che oggi è fortissima ed è chiaro che, in quest'ottica, Monti diventa riferimento per le forze moderate e conservatrici. D'altra parte, avevano bisogno di cambiare, di far dimenticare che fino ad appena pochi mesi fa il loro riferimento era Berlusconi. La politica dei conservatori europei è stata estremamente spregiudicata. Hanno imbarcato le forze peggiori, basti pensare che al tavolo dei moderati europei c'era l'ungherese Viktor Orban che noi definiremmo un fascista... È chiaro che oggi hanno bisogno di Monti».
Ci sono alcuni ambienti, anche interni al Pd, che sostengono che Monti c'è, e ci deve essere, perché il Pd è troppo spostato a sinistra, anche per la presenza ingombrante - dicono - di Vendola.
«Il Pd è una grande forza riformista europea. Il problema, come non mi stanco di ripetere, è che il nostro è un Paese in cui lo spirito conservatore e la prevenzione verso la sinistra sono particolarmente forti. È un dato italiano, in altri Paesi non è così. Non c'entra niente con l'accusa che saremmo troppo a sinistra. Trovo abbastanza intollerabile la demonizzazione di Vendola, il cui ruolo, fra l'altro, quando ha fatto comodo è stato enfatizzato contro di noi...».
Quando sembrava il vero competitor di Bersani...
«Allora Nichi andava benissimo, adesso invece è diventato il demonio. Ma così si cancella un dato politico innegabile: Vendola nasce in polemica con Rifondazione comunista, rifonda la sinistra radicale in polemica con l'estremismo. Tanto è vero che gran parte di questi partiti e partitini che erano con noi nel governo dell'Unione, oggi si riconosce nella coalizione arancione guidata da Ingroia. Si vuole imporre l'equazione Vendola uguale Bertínotti, secondo cui il centrosinistra, con Vendola, sarebbe uguale all'Unione. È una semplificazione propagandístíca e falsa. Il centrosinistra è guidato dal Pd di Bersani, che oggi in Italia è l'unico grande partito saldamente al dí sopra del 30% dei voti. Questa è la forza a cui spetta il compito di guidare il Paese, come è normale in una democrazia europea. Questa è la garanzia di una decisa e limpida impostazione riformista. Vendola va rispettato, ma non è lui alla testa dell'alleanza».
Vogliamo dare uno sguardo alla coalizione che ha messo assieme Monti?
«Dal mio libro si capisce che ho stima di Monti e non ho cambiato opinione malgrado i motivi di dissenso che sono, ora, significativamente emersi. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti dell'"operazione Monti" che rischiano di rendere difficile il cammino dopo le elezioni e la necessaria ricerca di una forma di collaborazione, che continuo a ritenere indispensabile, tra progressisti e moderati. Non mi piace la retorica sul fatto che destra e sinistra non esistono più. Non è vero, né in Italia né in Europa. E la pubblicità ingannevole non aiuta la chiarezza dei rapporti. Il vero problema è ricercare una convergenza nel nome dell'interesse nazionale e delle prospettive europee. La seconda questione riguarda la forte impronta antipolitica che caratterizza tutta l'"operazione Monti". Immagino che questo crei, in realtà, non pochi problemi anche a quei gruppi politici che a Monti si sono uniti in una comprensibile - ma credo sofferta - valutazione di convenienza. Ho letto, qualche giorno fa, che Monti avrebbe dichiarato di essere intento a "depurare" la presenza dei politici nelle sue liste, sulla base di una pretesa superiorità della cosiddetta società civile. Ma di quale società civile si tratta? In realtà, dietro Monti appare un robusto blocco di interessi che richiederebbe un'opera di "depurazione" non meno impegnativa. Noi abbiamo lamentato a lungo l'invadenza di Berlusconi nelle tv, ma l'invadenza di Monti nei giornali le cui proprietà figurano largamente tra gli sponsor e i sostenitori della sua lista, non è meno esorbitante. Nessuno nega a Montezemolo il diritto di fare politica, ma egli è anche il principale competitore delle Ferrovie dello Stato, e il giorno in cui un esponente del suo movimento dovesse diventare ministro dei Trasporti, si porrebbe più di qualche problema. Insomma, ci sarà pure una ragione per la quale normalmente nei Paesi democratici ci sono i partiti, proprio per rappresentare un filtro tra gli interessi particolari e l'interesse generale dello Stato. Quando la classe dirigente economica si fa partito, fenomeno che nel caso di Berlusconi è stato clamoroso, per quanto lo possa fare nel modo più anglosassone possibile, e sotto il controllo vigile del dottor Bondi, a pagare il prezzo è la trasparenza del potere. Meglio i partiti, quelli veri».
Stiamo parlando di Monti, mentre irrompe ancora una volta sulla scena mediatica, con un certo successo, Berlusconi...
«La battaglia per il governo è tra noi e Berlusconi. Credo che vinceremo noi, ma il patto di potere con la Lega consente a Berlusconi di tornare-in primo piano. Purtroppo, l'obiettivo del Terzo polo sembra essere quello di impedire al centrosinistra di avere la maggioranza al Senato. Guardiamo a quanto accade in Lombardia, dove, grazie al Terzo polo, si rischia di regalare a Berlusconi 27 senatori e di lasciare quella Regione, insieme a Piemonte e Veneto, nelle mani della Lega. Parliamo di un partito che rappresenta poco più del 5% e che sí troverebbe a governare, su una linea dí tipo secessionistico, la parte più moderna e più ricca del Paese. Domando: può una simile prospettiva essere irrilevante per chi ha una visione europea democratica?».
Il rapporto con Monti dipende anche dal tipo di campagna elettorale che il premier e i centristi faranno.
«Non c'è dubbio. Noi vogliamo una coalizione forte nel Paese, che sia rappresentativa di un largo blocco di forze sociali, quindi dobbiamo costruire un accordo di governo. Sarebbe bene che questo se lo ricordassero tutti, anche nel nostro campo. Non è bene spingere oltre un certo limite la contesa politica, culturale, programmatica. Vorrei dare un consiglio di saggezza a tutti. La cosa più conveniente per l'Italia è che si governi insieme, progressisti e moderati. Questo è il tono che Bersani ha dato alla sua campagna elettorale. Naturalmente, è necessaria una forte nostra caratterizzazione: è evidente che l'Italia ha bisogno di una fase nuova rispetto al governo Monti, che proietti il Paese oltre l'emergenza, che metta al centro i temi del lavoro, della crescita, della riduzione delle diseguaglianze sociali, della lotta alla povertà. C'è un'agenda del centrosinistra per l'Italia e per l'Europa e con questa ci si dovrà misurare».

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lunedì 14 gennaio 2013

Riforme: equità e austerità

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 13 gennaio 2013
Due temi, connessi fra loro, sono centrali in questa fase della campagna elettorale: tasse e austerità. La discussione è caotica perché confonde un tema congiunturale (cioè se si debba aumentare il deficit pubblico per stimolare la domanda e aiutare così il Paese a uscire dalla recessione) con un problema strutturale: l'esigenza, cioè, di una riforma fiscale che, a deficit invariato, possa garantire un sistema al tempo stesso più equo e più favorevole al mondo produttivo.
Partiamo dal rilancio della domanda. Un aumento del deficit nel 2013 porterebbe il Paese a sforare il limite del 3% necessario a riportare il nostro debito su basi sostenibili, limite che i dati di aprile verosimilmente diranno essere stato raggiunto. È una strada percorribile, ma vanificherebbe i sacrifici dell'anno passato ed è assai rischiosa. Molti, incluse voci autorevoli del Fondo monetario internazionale, l'hanno indicata. Ma se l'Italia procedesse da sola, senza una rinegoziazione complessiva delle politiche europee, si ritroverebbe molto probabilmente con lo spread ai livelli di un anno fa e di fatto esclusa dall'accesso al mercato. D'altro canto, l'ipotesi di costruire alleanze con altri Paesi europei su una piattaforma antiausterità, in particolare con la Francia, che appariva già poco credibile prima delle elezioni francesi, è oggi del tutto irrealistica. Nell'Europa del 2013, come in quella del 1918, le regole le dettano i creditori. La ragione è ben sintetizzata dalla frase usata da Keynes a Bretton Woods nel 1946 per mettere in luce una fondamentale asimmetria tra Paesi debitori e creditori. «Il processo di aggiustamento ? disse Keynes ? è obbligatorio per il debitore, ma è volontario per il creditore. Se il creditore non sceglie di fare la sua parte, esso non paga alcun prezzo poiché, mentre le riserve di un Paese non possono scendere al di sotto dello zero, non c'è un tetto che ne determina il limite superiore».
Se un coordinamento a livello europeo che preveda l'espansione della domanda dei Paesi creditori e un allentamento del rigore per i Paesi debitori non è realistico e gli spazi di diminuzione della spesa pubblica, nel guado della più grave recessione del dopoguerra, sono limitati, l'austerità rimane l'unica via percorribile. Si potrà lavorare solo a una riforma fiscale a saldo invariato che comporti maggiore equità ed eserciti, al tempo stesso, maggiore stimolo per la crescita. Riforme radicali capaci di ridurre il carico fiscale complessivo, in questa fase, non sono semplicemente possibili.
La Francia è un caso istruttivo. Nella fase preelettorale crescita ed equità, similmente a quanto accade da noi, avevano avuto un ruolo centrale nel dibattito pubblico, ma ora, in fase postelettorale, Parigi deve misurarsi con la realizzazione delle riforme. Guardiamo oltre la tassa sui patrimoni dei super ricchi e non facciamoci distrarre troppo dalle cronache di monsieur Depardieu in fuga verso Mosca: il governo francese ha fatto altro. Nel novembre 2012 è stato varato il «Patto di Competitività» che comporta numeri molto più significativi di quelli che potrà generare la super Irpef per i miliardari. Il Patto prevede un taglio delle imposte sulle imprese per circa l'1% del Pil all'anno nel periodo 2014-2016, finanziato con 10 miliardi di risparmi sul lato della spesa, e con altri 10 miliardi generati dall'aumento dell'Iva. Non sto dicendo che l'Italia debba seguire la stessa via, anche perché un ulteriore aumento dell'Iva, con un'aliquota già al 21% (e che è previsto aumentare al 22% nel luglio 2013), è per noi impensabile.
Tuttavia il caso francese lascia spazio a due considerazioni interessanti nel quadro del dibattito italiano. Primo: il governo di Parigi, che a differenza nostra non ha raggiunto l'obiettivo del 3% di deficit, stringerà la cinghia nel 2013 proponendosi, con il Patto, di ridurre le tasse a partire solo dal 2014. E lo farà nel rispetto del saldo invariato poiché le misure, almeno sulla carta, sono neutrali dal punto di vista del bilancio. In altre parole, François Hollande non si lancia in politiche espansive della domanda, ma si piega alle esigenze dell'austerità. Secondo: le misure sgravano le imprese, ma pesano sui consumatori con effetti regressivi sulla distribuzione del reddito.
Questo è il punto politico. Se un governo socialista che ha posto tanta enfasi sull'equità prende questa strada significa che, al di là della retorica preelettorale, quando non si può far leva sulla domanda, si deve agire sul Pil dal lato dell'offerta alleggerendo la fiscalità sulle imprese per garantire loro nuova competitività. Anche per noi è una priorità, ma se vogliamo affrontarla dobbiamo anche dire come politiche del genere potranno essere finanziate mantenendo l'equità. Scenari, questi illustrati, che si misurano con orizzonti di breve o medio periodo. Il prossimo governo dovrebbe trovare la forza, il coraggio e l'ambizione di affrontare anche quelli del medio-lungo e andare oltre. Mi riferisco a una riforma radicale sia sul lato delle entrate sia su quello della spesa, riforma che dovrà essere illuminata da un'idea nuova del ruolo che spetta allo Stato nell'economia, del suo peso e della qualità dei servizi che può offrire.
Questa riflessione è particolarmente urgente in Italia, dove abbiamo uno Stato altamente indebitato e altamente inefficiente, ma lo è anche in Paesi apparentemente più robusti, come dimostra il dibattito in corso negli Stati Uniti. C'è solo da augurarsi che chi ci governerà nella prossima legislatura sia all'altezza di un compito che è passaggio ineludibile per un nuovo Patto con gli italiani.

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domenica 13 gennaio 2013

Monti interlocutore del PD e non nemico


Intervista a Walter Veltroni a cura di Goffredo De Marchis pubblicata su La Repubblica il 13 gennaio 2013
Monti deve rimanere un interlocutore del Pd e non trasformarsi in un nemico. Walter Veltroni parteciperà alla campagna elettorale ma ha uno sguardo fuori dalla mischia: non è più candidato al Parlamento e non ha incarichi nel Partito democratico se non quello, nient'affatto irrilevante, di fondatore. «Dio ci scampi - dice - da un' altra campagna che veda contrapporsi stancamente Berlusconi e l'antiberlusconismo».
Eppure non sarà facile sottrarsi a questo duello se è vero che il Cavaliere rimonta nei sondaggi dopo la puntata di "Servizio pubblico".
«Il confronto deve essere tra riformismo e populismo. Lo dico tanto più alla luce di ciò che è accaduto in televisione. Bisogna tenere i nervi saldi, non cadere nella trappola di un meccanismo politico, mediatico e psicologico che è il terreno più agevole per Berlusconi. Lo stesso terreno che gli consentì, nel 2006, di recuperare più di 8 punti nell'ultimo mese prima del voto. Non è solo una considerazione di opportunità politica. È la constatazione del fatto che questo Paese rischia di rimanere una statua di sale. Immobile. La trasmissione dell'al tra sera mi ha colpito: poteva essere più o meno identica vent'anni fa e non c'è un altro Paese in cui accada qualcosa di simile. Siamo fermi da decenni, con una vita politica e pubblica che si è costruita attorno al binomio Berlusconi-antiBerlusconi. Per come sta l'Italia, per la sua situazione drammatica, occorre invece qualcuno che offra una soluzione positiva, che investa sulla ragione e dia una speranza. È il compito storico del centrosinistra il cui vero nemico è il populismo. In tempi di recessione corriamo il rischio al quale siamo storicamente esposti. Il nostro è il Paese dei guelfi e dei ghibellini, ama dividersi, coltivare l'odio. E poi, nella storia del Novecento, ha mostrato molte volte la propria fragilità di fronte alle sollecitazioni populiste. Dalla crisi che stiamo vivendo non usciremo semplicemente scrollandoci di dosso le macerie. Serve, come nei grandi passaggi della storia, la capacità di delineare, non ho paura di usare questa espressione, una nuova società».
Se la partita è contro il populismo, Monti e Bersani non devono competere tra di loro?
«Devono competere ma senza spirito distruttivo. L'alleanza di riformismi diversi è necessaria proprio per isolare suggestioni populiste. Naturalmente, spero che questo avvenga con un grande risultato elettorale del Pd. E sono tra quelli che pensano che se il bipolarismo italiano in futuro verrà interpretato, nell'altra parte del campo, da un soggetto più di tipo europeo sarà un bene per tutti».
Come si conduce una campagna non bellicosa? Monti è arrivato a dire basta allo schema destra - sinistra.
«Serve un grado elevato di senso di responsabilità. Da una parte è sbagliato parlare di Monti come espressione del Rotary o di una " democristianeria da Grande oriente d'Italia". Dall'altra il premier commette un errore alimentando una specie di equidistanza tra destra e sinistra che non è giusta storicamente e neanche nell'attualità visto che è stato il Pdl a sottrarre il sostegno al suo governo. L'equilibrio è affidato alle parole di tutti. La campagna deve essere affrontata con la necessaria intelligenza politica, cosa che Bersani mi pare stia facendo, altrimenti il pericolo è che il Paese resti fermo e lo stallo equivale oggi a una caduta».
Sono condivisibili le paure del Financial Times di un Pd spostato troppo a sinistra?
«Se il partito avrà il profilo riformista del quale abbiamo parlato, queste paure si riveleranno immotivate. Però bisogna stare attenti. Noi recuperammo quasi 10 punti nel 2008, e Dio solo sa con quanta fatica, attraverso la capacità di parlare all'intero Paese. Occorre assolutamente evitare un messaggio che arrivi solo alla propria gente. Anche perché, per un partito come il Pd, il "proprio popolo" è il popolo italiano. Significa parlare anche agli elettori di Berlusconi. Da Santoro il Cavaliere ha chiesto al pubblico "pensate siano dei coglioni i milioni di italiani che hanno votato per me?". Il pubblico ha risposto di sì. E' la risposta che lui sperava. Non possiamo consentire che l'astensionismo prodotto dalla crisi drammatica della destra sia rimotivato da un sussulto di orgoglio e identità».
Ma gli italiani potranno considerare Berlusconi ancora un innovatore?
«Sarebbe paradossale. È un conservatore populista che da tempo ha gettato la maschera. Però non gli si può lasciare il tema del rinnovamento delle istituzioni. Lui è stato l'ostacolo a ogni tipo di riforma. Che tutto resti com'è, rappresenta la condizione essenziale della sua sopravvivenza. Il tema istituzionale lo dobbiamo porre noi del centrosinistra: un governo che decida di più, un parlamento che svolga più controllo e meno cogestione, un rapporto più lieve tra politica e società. Una democrazia che non decide è destinata ad andare in crisi. L'Italia ha bisogno di vero riformismo, che non è moderatismo. Semmai il contrario. L'obiettivo non può essere resistere ma rischiare e innovare. E poi, non mi pare che la politica capisca qual è la precondizione di ogni possibile ripresa italiana: dichiarare la guerra totale alle mafie e alla corruzione. E vincerla».
A chi tocca questo compito?
«In primo luogo al centrosinistra. Ma penso che Monti non possa diventare oggetto di un attacco concentrico di destra e sinistra in campagna elettorale. Sta scritto nella carta d'intenti, del resto. Non per arrivare a grandi coalizioni che per me sono un patologia, sia chiaro. Penso a un'alleanza di riformismi diversi».
È il momento di chiederle che farà in futuro.
«Sono stato segretario del Pd. L'ho fondato, l'ho portato a un risultato significativo in condizioni difficili. Mi sono dimesso dopo elezioni regionali che diedero un esito non diverso da al- tre tornate elettorali e da allora non ho alcun incarico. Ho dato lo stesso il mio contributo e continuo a farlo. Non ho smesso di fare politica. Con grande amore per il Pd, per il riformismo e per questo Paese».
Sa che si parla di lei come possibile ministro?
«Basta. Smettiamo di parlare di chi sarà ministro. Dobbiamo prima cercare di vincere. Poi, con tutta l'intelligenza politica necessaria, immaginiamo il dopo per non far cadere il Paese nel demone che lo ha imprigionato per vent'anni: il combinato disposto di conservatorismo e populismo».

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martedì 8 gennaio 2013

La strada delle riforme pur nella diversità

Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 7 gennaio 2013
I dati forniti in dicembre dalla Banca d'Italia sulla concentrazione della ricchezza nel nostro Paese non hanno suscitato, che io sappia, commenti adeguati. Eppure si tratta di dati impressionanti. Molte famiglie, secondo tali dati, hanno livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza assai elevata: alla fine del 2010 la metà più povera deteneva il 9,4 della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9 % della ricchezza complessiva.
Tali abissi di disuguaglianza sociale non possono non suscitare disagio morale e sgomento. E non possono non rafforzare le ragioni di coloro che nella battaglia politica militano a sinistra. «Sinistra e destra ci sono ancora» titolava l' Unità del 5 gennaio, che pubblicava su questo tema una intervista al ministro Fabrizio Barca, il quale a un certo punto affermava: «Chi dice che non c'è differenza fra le due parti (destra e sinistra), oppure racconta un mondo monistico in cui esiste una sola soluzione ai problemi, in verità non vuole cambiare le cose e vuole favorire solo una parte, con il convincimento di possedere una soluzione tanto superiore alle altre da voler abolire il pluralismo».
Le parole del ministro Barca sono stimolanti. Perché, in realtà, il pluralismo di opinioni e di proposte di cui egli parla non riflette solo la divisione fra sinistra e destra (a questa dicotomia ha dedicato ieri considerazioni assai interessanti Giovanni Belardelli su questo giornale), ma è presente nella stessa sinistra (e probabilmente anche nella stessa destra). A sinistra, infatti, c'è chi ritiene che i provvedimenti più importanti del governo Monti (dalla riforma delle pensioni alle liberalizzazioni: queste ultime, invero, più promesse che realizzate) debbano essere senz'altro aboliti; e c'è invece chi ritiene che tali provvedimenti non solo vadano conservati, ma siano soltanto il timido inizio di un percorso sul quale bisogna procedere speditamente e senza incertezze. Lo stesso si può dire della destra, dove ci sono coloro che vorrebbero ritornare al passato (non a caso, del resto, i governi Berlusconi non hanno mai realizzato le riforme che avevano promesso), e coloro che, invece, ritengono improrogabili le «riforme liberali». La contrapposizione sinistra-destra è, insomma, oggi complicata dal fatto che ci sono due sinistre e due destre.
In realtà il Paese appare oggi profondamente diviso (ripeto: sia a sinistra, sia a destra) sulla strada da percorrere. Questa divisione appare più chiaramente (e drammaticamente) a sinistra, poiché quest'ultima, da un lato, possiede una ricchezza di tradizioni e di posizioni politico-culturali che la destra non ha, e dall'altro lato perché la sinistra deve compiere uno sforzo doloroso di revisione del proprio passato. Ma per diversi settori della sinistra (i settori innovatori) è ormai chiaro che il problema fondamentale del Paese è quello della crescita economica, la quale è ferma da 15/20 anni: una stagnazione che non ha un corrispettivo (lo ha ricordato su questo giornale Lucrezia Reichlin) non solo nell'esperienza di Francia e Germania, ma nemmeno in quella dei Paesi più poveri della periferia europea. Senza crescita economica, i ceti più deboli sono destinati a subire danni sempre più gravi, e le disuguaglianze sociali, da noi già così stridenti, sono destinate non a ridursi, bensì ad aggravarsi. «Se le dimensioni della torta non crescono - hanno scritto due esponenti della sinistra innovatrice, Enrico Morando e Giorgio Tonini nel loro libro su L'Italia dei democratici - non basteranno la buona volontà e l'amore di giustizia di chi taglia le fette a fare la felicità dei commensali: le potenzialità delle politiche redistributive - che il governo dei democratici certamente adotterebbe - incontrano un limite insormontabile nella dimensione del prodotto». Di qui i formidabili problemi che stanno di fronte a una sinistra moderna. Occorre rimuovere gli ostacoli che frenano la produttività del lavoro (l'aumento dei salari, ricordano Morando e Tonini, non può venire da un ulteriore, impossibile aumento della spesa pubblica, ma solo da un aumento della produttività: a tal fine sono necessarie però riforme nella normativa che regola il lavoro). Occorre infrangere i veti di gruppi privilegiati e di corporazioni avvinghiati alle loro posizione di rendita. E occorre ridurre l'eccessivo premio che, in Italia, va oggi all'anzianità: nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministrazione, si progredisce nella carriera non per meriti, ma per anzianità. Questo criterio antimeritocratico, che blocca gravemente la mobilità sociale, ha dato vita a una società chiusa e corporativa come la nostra, sulla quale grava una maledizione tremenda: essa non garantisce più un futuro ai propri giovani, molti dei quali, fra i migliori, devono andare raminghi in altri Paesi, dove la preparazione culturale e scientifica e la serietà professionale valgono ancora qualcosa.

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Rinnovare i partiti per salvare la democrazia

Caro direttore, è ricorrente, nei momenti di crisi della politica, guardare alla società civile come a una sorta di indispensabile risorsa per rafforzare la democrazia, per evitarne l'irreparabile declino. Ma la contrapposizione fra società civile e partiti politici si carica di significati culturalmente oscuri e i pericoli che ne derivano sono tutt'altro che irrilevanti. È vero che la debolezza della politica, i suoi ritardi, gli scandali che la ingiuriano provocano una reazione che prende il volto dell'antipolitica, del discredito per i partiti, senza alcuna distinzione fra quelli che della rovinosa deriva sono i più responsabili e quelli che vi hanno resistito. La rabbia che esplode nella società civile fa di questa il contraltare virtuoso di una politica sciatta, volgare e inconcludente. Ma sembra fin troppo elementare ricordare la brutalità di questa logica semplificatoria. I partiti invero sono figli della società che li esprime. Una società segnata da un costume morale e civile di basso livello non potrà che esprimere una politica e dei partiti altrettanto di basso livello. E quando si avverte che la misura è colma, la società civile non può prescindere dalla politica, che è come l'ombra che sempre ti insegue. Deve semplicemente cambiarla. Proprio per tutte queste ragioni è bene non tacere una preoccupazione che viene nel vedere ogni giorno insistente e insidiosa l'esaltazione della società civile e soprattutto un'ostentata e ricercata «lontananza» dai partiti, dall'idea stessa di partito. Si preferisce parlare di «movimento» non di partito e così proliferano le liste cosiddette «civiche»; liste non riferite a un partito, a una determinata area culturale e politica, ma, al contrario, un partito o partiti «stanchi» che si riferiscono a una lista civica espressione diretta del leader del movimento, indiscusso e prestigioso. Sappiamo bene la trama di questo percorso. I partiti politici come sono oggi non sono credibili, non hanno consenso. Il Paese però ha bisogno della politica, di una nuova e buona politica; ecco allora il «movimento» intelligente e saggio che la determina, chiamando a raccolta forze aggiuntive disposte all'impresa.
Questo il percorso e l'impresa può anche riuscire, ma c'è il pericolo di un'infausta eterogenesi dei fini: un movimento elitario, infatti, per di più a vocazione maggioritaria, indebolisce la democrazia non diversamente da populismi resi liberi e scatenati dall'insufficienza di partiti arretrati.
Il rifiuto dell'idea di partito è alla base, a mio giudizio, di questo percorso sbagliato. Non a caso i nostri padri costituenti, che bene conoscevano la politica e i suoi strumenti, che la libertà avevano custodito nella clandestinità e conquistata nella lotta di liberazione, hanno parlato, in modo solenne, dei partiti. Li hanno evocati come strumento di cui i cittadini hanno diritto «per determinare, con metodo democratico, la politica nazionale» (Cost. art. 49). Avrebbero potuto ? i nostri costituenti ? limitarsi a dire che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per determinare la politica nazionale. No, hanno parlato di «partiti», e non a caso, perché il «partito» è molto di più di un movimento, o di una associazione, è «storia». È storia del proprio Paese, certamente soggettiva, di una «parte», ma sempre storia forte, di ieri e di domani. Rispetto a questa idea di partito, il movimento elitario (ma anche quello populista) ha una insostenibile «leggerezza» quanto all'esercizio del potere per cui si vuole candidare. Di fatto, diventa un partito personale, centrato sul leader, e così la democrazia anziché ampliarsi si restringe e si mortifica. Non si corregge, insomma, una democrazia e insieme una politica con l'invenzione del movimento; la si corregge innovando profondamente i partiti che ci sono (vediamo la meritoria fatica di Bersani e del suo partito che, con le primarie, si è rinnovato, anche programmaticamente, più di quanto non sappiano essere innovatori quanti si affaticano in riunioni e patteggiamenti privati) o proponendone dei nuovi.
Certo il movimento può diventare un partito, trovare nella forma partito il suo sbocco naturale. Ma quando? ma come?
Mi viene in mente don Sturzo, nel '19, il suo Manifesto e l'offerta di un nuovo partito agli italiani, «liberi e forti». Tenendo conto del variegato mondo cattolico, il grande prete di Caltagirone poteva limitarsi a proporre e a organizzare un movimento. No, ha voluto nettamente essere «parte»; ha voluto un partito che riassumesse una storia in cui ci si potesse riconoscere, vivendola nella sua imprevedibile e dinamica progressione. È una lezione lontana nel tempo, certo, ma è bene non dimenticarla.

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venerdì 4 gennaio 2013

Primarie del PD di Verona

Le primarie del PD di Verona si sono concluse con la partecipazione di circa 10mila elettori e con risultati imprevedibili. A questo evento democratico non è facile dare una interpretazione univoca. Le valutazioni contrapposte ed i casi particolari si integrano e rendono più difficoltosa una spiegazione univoca alla luce dei risultati conseguiti.
Ho posto alcune domande alle quali ho cercato di dare delle risposte. Certamente il mio contributo non è esaustivo perché molti sono gli esempi che possono integrare e contraddire le mie valutazioni.
Ha prevalso il rinnovamento nella scelta dei candidati?
Ritengo di si. La senatrice uscente Mariapia Garavaglia ha ricevuto soltanto il consenso di 843 persone ed il candidato Vanio Balzo, funzionario del PD centrale ed ex segretario dei DS, assente da Verona da molto tempo solo 984 preferenze. Gli elettori hanno valutato l’appartenenza e l’impegno territoriale e il rinnovamento. Infatti sono stati premiati Diego Zardini e Alessia Rotta.
Non hanno prevalso le logiche correntizie del PD?
In parte questo è vero in quanto gli elettori hanno valutato e scelto le candidature più credibili e qualificate.
Hanno primeggiato gli accordi di potere per le due preferenze (un uomo ed una donna) tra i quadri del PD?
Tali accordi non hanno retto ed in molti casi hanno portato danni ai candidati che sulla carta erano più forti.
Le componenti del PD hanno rispettato le scelte dei leader?
Tali proposte sono state in buona parte accettate come indicazione in quanto gli elettori sono entrati nel merito delle candidature.
Che cosa ha prevalso?
Le candidature di persone credibili e competenti che negli anni hanno espresso testimonianza politica e impegno concreto nel territorio condivisi dagli elettori.
Come si spiega il successo di Diego Zardini e Alessia Rotta?
Vi è nella società veronese e particolarmente nell’elettorato del centro sinistra una domanda di cambiamento urgente che si è concretizzata nei risultati delle primarie. Infatti Diego Zardini è stato il primo degli eletti con 3.646 preferenze con una distanza dal secondo (Vincenzo D’Arienzo) di circa 1200 voti e Alessia Rotta pur nel poco tempo disponibile è stata la prima eletta delle donne.
La candidatura di Diego Zardini è stata sostenuta da uno schieramento ampio e favorevole al rinnovamento. Alessia Rotta durante la campagna elettorale si è mossa su una linea di cambiamento.
Altri nuovi candidati hanno conseguito un successo relativo in quanto verranno collocati nella lista in una posizione non utile per la elezione al Parlamento (Vallani Stefano, Scapin Clara, Foglia Federica, Salardi Alessandra, Benedetti Emma).
Le primarie sono uno strumento di democrazia, adesso occorrono i comportamenti ed i fatti concreti. Nella speranza che tutti abbiano tratto lezione da queste primarie.

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