martedì 8 gennaio 2013

La strada delle riforme pur nella diversità

Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 7 gennaio 2013
I dati forniti in dicembre dalla Banca d'Italia sulla concentrazione della ricchezza nel nostro Paese non hanno suscitato, che io sappia, commenti adeguati. Eppure si tratta di dati impressionanti. Molte famiglie, secondo tali dati, hanno livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza assai elevata: alla fine del 2010 la metà più povera deteneva il 9,4 della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9 % della ricchezza complessiva.
Tali abissi di disuguaglianza sociale non possono non suscitare disagio morale e sgomento. E non possono non rafforzare le ragioni di coloro che nella battaglia politica militano a sinistra. «Sinistra e destra ci sono ancora» titolava l' Unità del 5 gennaio, che pubblicava su questo tema una intervista al ministro Fabrizio Barca, il quale a un certo punto affermava: «Chi dice che non c'è differenza fra le due parti (destra e sinistra), oppure racconta un mondo monistico in cui esiste una sola soluzione ai problemi, in verità non vuole cambiare le cose e vuole favorire solo una parte, con il convincimento di possedere una soluzione tanto superiore alle altre da voler abolire il pluralismo».
Le parole del ministro Barca sono stimolanti. Perché, in realtà, il pluralismo di opinioni e di proposte di cui egli parla non riflette solo la divisione fra sinistra e destra (a questa dicotomia ha dedicato ieri considerazioni assai interessanti Giovanni Belardelli su questo giornale), ma è presente nella stessa sinistra (e probabilmente anche nella stessa destra). A sinistra, infatti, c'è chi ritiene che i provvedimenti più importanti del governo Monti (dalla riforma delle pensioni alle liberalizzazioni: queste ultime, invero, più promesse che realizzate) debbano essere senz'altro aboliti; e c'è invece chi ritiene che tali provvedimenti non solo vadano conservati, ma siano soltanto il timido inizio di un percorso sul quale bisogna procedere speditamente e senza incertezze. Lo stesso si può dire della destra, dove ci sono coloro che vorrebbero ritornare al passato (non a caso, del resto, i governi Berlusconi non hanno mai realizzato le riforme che avevano promesso), e coloro che, invece, ritengono improrogabili le «riforme liberali». La contrapposizione sinistra-destra è, insomma, oggi complicata dal fatto che ci sono due sinistre e due destre.
In realtà il Paese appare oggi profondamente diviso (ripeto: sia a sinistra, sia a destra) sulla strada da percorrere. Questa divisione appare più chiaramente (e drammaticamente) a sinistra, poiché quest'ultima, da un lato, possiede una ricchezza di tradizioni e di posizioni politico-culturali che la destra non ha, e dall'altro lato perché la sinistra deve compiere uno sforzo doloroso di revisione del proprio passato. Ma per diversi settori della sinistra (i settori innovatori) è ormai chiaro che il problema fondamentale del Paese è quello della crescita economica, la quale è ferma da 15/20 anni: una stagnazione che non ha un corrispettivo (lo ha ricordato su questo giornale Lucrezia Reichlin) non solo nell'esperienza di Francia e Germania, ma nemmeno in quella dei Paesi più poveri della periferia europea. Senza crescita economica, i ceti più deboli sono destinati a subire danni sempre più gravi, e le disuguaglianze sociali, da noi già così stridenti, sono destinate non a ridursi, bensì ad aggravarsi. «Se le dimensioni della torta non crescono - hanno scritto due esponenti della sinistra innovatrice, Enrico Morando e Giorgio Tonini nel loro libro su L'Italia dei democratici - non basteranno la buona volontà e l'amore di giustizia di chi taglia le fette a fare la felicità dei commensali: le potenzialità delle politiche redistributive - che il governo dei democratici certamente adotterebbe - incontrano un limite insormontabile nella dimensione del prodotto». Di qui i formidabili problemi che stanno di fronte a una sinistra moderna. Occorre rimuovere gli ostacoli che frenano la produttività del lavoro (l'aumento dei salari, ricordano Morando e Tonini, non può venire da un ulteriore, impossibile aumento della spesa pubblica, ma solo da un aumento della produttività: a tal fine sono necessarie però riforme nella normativa che regola il lavoro). Occorre infrangere i veti di gruppi privilegiati e di corporazioni avvinghiati alle loro posizione di rendita. E occorre ridurre l'eccessivo premio che, in Italia, va oggi all'anzianità: nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministrazione, si progredisce nella carriera non per meriti, ma per anzianità. Questo criterio antimeritocratico, che blocca gravemente la mobilità sociale, ha dato vita a una società chiusa e corporativa come la nostra, sulla quale grava una maledizione tremenda: essa non garantisce più un futuro ai propri giovani, molti dei quali, fra i migliori, devono andare raminghi in altri Paesi, dove la preparazione culturale e scientifica e la serietà professionale valgono ancora qualcosa.

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