venerdì 31 maggio 2013

Prospettive per la crescita

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera il 30 maggio 2013
Il rientro dell'Italia fra i Paesi «virtuosi» è stato accolto con unanime sollievo. Molti interpretano questa decisione come l'inizio di una nuova era, in cui i vincoli europei non saranno più un ostacolo all'aumento della spesa e al taglio delle tasse. Non è così.
Innanzitutto la chiusura della procedura di infrazione avviene a condizioni precise: che il deficit non superi più il 3% del Prodotto interno lordo (Pil) e che l'Italia faccia alcune riforme importanti: contratti di lavoro, partecipazione al lavoro delle donne, liberalizzazioni dei servizi, istruzione, giustizia civile, semplificazione delle tasse, banche, burocrazia. Tutte cose che avremmo dovuto fare anche senza farcelo chiedere.
L'ultimo Documento di economia e finanza (Def) del governo Monti (aprile) stima che il prossimo anno il deficit pubblico dovrebbe essere intorno all'1,8% del Pil. Se così fosse ci sarebbe la possibilità di diminuire le imposte sul lavoro di circa 20 miliardi, riducendo il cuneo fiscale, cioè la differenza fra salari netti per i lavoratori e costo del lavoro per l'impresa. Ciò alzerebbe il deficit, ma lo manterrebbe entro la soglia del 3%.
Purtroppo però, quelle stime sono basate su ipotesi ottimiste. E infatti solo poche settimane dopo la pubblicazione del Def, la Commissione europea abbassava il nostro tasso di crescita nel 2014 allo 0,7%, (ieri l'Ocse ha previsto 0,4) con un deficit che salirebbe al 2,5% del Pil. Insomma saremo fortunati se il deficit nel 2014 rimarrà sotto il 3% anche senza spendere un euro in più. Per il 2013 poi la Commissione prevede un deficit esattamente pari al 3% con un Pil che cade dell'1,3%. Ma l'Ocse stima -1,8, il che già ci porrebbe quasi sicuramente a rischio di riapertura della procedura.
Insomma lo spazio per un taglio delle tasse purtroppo non c'è, né il margine per utilizzare i fondi strutturali europei il cui cofinanziamento aumenterebbe il nostro deficit. L'uscita dalla condizione di «sorvegliati speciali» deve essere l'occasione per ripensare una strategia per la crescita e la riduzione del debito. Le cose da fare sono note da tempo. Attuare le riforme strutturali suggerite per l'ennesima volta dall'Europa. Rimettere le banche in condizione di prestare denaro, un altro punto sottolineato nelle raccomandazioni della Commissione. Per far questo, si può utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Ems), come ha fatto la Spagna. Diminuire la pressione fiscale, in primis sul lavoro, e di una quantità che faccia differenza, diciamo 50 miliardi.
Per far questo occorre negoziare con l'Unione Europea un temporaneo superamento della soglia del 3% in modo da poter ridurre subito le imposte sul lavoro.
Contemporaneamente adottare un piano di riduzione delle spese spalmato sull'arco di un triennio. Il deficit rimarrebbe superiore al 3% ancora per due anni e rientrerebbe solo fra tre. Come la Francia.Ovviamente affinché un simile piano sia credibile e si realizzi in tutte le sue parti, non solo in quelle più facili, dovremmo sottoporci alla sorveglianza di Bruxelles.
«Sorvegliati» rimarremo comunque,inutile illuderci, perché le stime di crescita ci spingeranno comunque oltre il 3 per cento anche senza far nulla su tasse e spese. Ma, allora, almeno barattiamo l'inevitabile controllo di Bruxelles per fare qualcosa di utile, non per sopravvivere navigando a vista intorno a un fatidico e inafferrabile 3 per cento.

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Stefano Rodotà non sorpreso del risultato del M5S

Intervista a Stefano Rodotà a cura di Alessandro Trocino pubblicata sul Corriere della Sera il 30 maggio 2013
Non voglio dire che lo prevedevo. Ma non sono affatto sorpreso». Stefano Rodotà è uno dei personaggi politici più amati dal Movimento 5 Stelle, che lo avrebbe voluto al Quirinale. Ora analizza, senza fare sconti, un risultato che è andato ben al di sotto delle aspettative.
Perché non è sorpreso?
Per due ragioni. La prima è politica: hanno inciso sul voto i conflitti, le difficoltà e le polemiche di queste settimane. La seconda è che avevo detto che la parlamentarizzazione dei 5 Stelle non sarebbe stata indolore. E così è stato. Il passaggio dalla rete al Palazzo, per intenderci. Faccio una battuta: quando si lavora in Parlamento, non è che di fronte a un emendamento in commissione vado a consultare la rete. Serve un cambiamento di passo.
Che non c'è stato.
La rete da sola non basta. Non è mai bastata. Guardiamo l'ultima campagna elettorale: Grillo è partito dalla rete, poi ha riempito le piazze reali con lo tsunami tour. Ma ha ricevuto anche un'attenzione continua dalla televisione. Se si vuole sostenere che c'è una discontinuità radicale con il passato non è così: anche per Obama è stato lo stesso. Si parte dalla rete, ma poi si va oltre.
Il problema è che forse non sono andati abbastanza oltre.
Non hanno capito che la rete non funziona nello stesso modo in una realtà locale o su scala nazionale. Puoi lanciare un attacco frontale, ma funziona solo se parli al Paese. In queste elezioni hanno perso i due grandi comunicatori: Grillo e Berlusconi». Alle Amministrative, poi, contano molto i candidati. «Sono stato molto colpito dalle dichiarazioni avventate del candidato 5 Stelle di Roma: si è lamentato perché i media non gli avevano dedicato abbastanza attenzione. Ma come? Non era stata teorizzata l'insignificanza dei vecchi media?.
Forse a qualcosa servono ancora.
Come serve l'insediamento a livello locale. Il candidato sconosciuto della rete si trova in difficoltà rispetto a chi ha una forte presenza territoriale. Non è un caso che il partito che ha tenuto di più in queste elezioni sia stato il Pd, nonostante la forte perdita di voti.
Per Grillo è colpa degli elettori.
L'ho sentita troppe volte questa frase. Elettori immaturi, che non capiscono. Si dice quando si vuole sfuggire a un'analisi. Ma erano gli stessi elettori che li hanno votati alle Politiche. È una reazione emotiva, una spiegazione che non spiega nulla.
Per i 5 Stelle non sono «padri» un po' ingombranti Grillo e Casaleggio?
Non voglio fare quello con la matita rossa. Però, certo, non bastano più le loro indicazioni. Un movimento nato dalla rete, che ha svegliato una cultura politica pigra, una volta entrato in Parlamento deve cambiare tutto. E non può dire ai parlamentari: non dovete elaborare strategie.
È proprio quello che ha detto il capogruppo Vito Crimi.
Le istituzioni fanno brutti scherzi. Penso alle parole di Grillo che contestava l'articolo della Costituzione secondo il quale il parlamentare deve operare senza vincolo di mandato. Ecco, io credo che tutti i parlamentari dovrebbero avere la libertà di esercitare il proprio mandato, anche se non in una logica individualista. Non si può delegare tutto. I parlamentari a 5 Stelle devono avere la libertà di lavorare. In alcuni casi lo stanno già facendo e ho sentito anche interventi di qualità.
Il risultato deludente non è stato causato anche da un eccesso di chiusura e dalla mancanza di interlocuzione con il Pd?
Posso anche stabilire la linea del "tutti a casa" e "no a tutti", ma poi devo valutare le conseguenze. Si deve avere la capacità di confrontarsi con gli altri in Parlamento. Altrimenti si rischia di alimentare una nuova conventio ad escludendum . E probabilmente c'è anche un problema di inesperienza.
La «verginità» politica è neldna dei 5 Stelle.
Non ho mai creduto al valore dell'inesperienza, che rivendicano come verginità dalle compromissioni. Io ci misi molti mesi a imparare. Il Parlamento richiede competenza. So che stanno cercando di rimediare con bravi consulenti.
E ora?
Ora Grillo e Casaleggio devono rendersi conto che siamo entrati in una fase nuova e che quello che ha determinato il successo non è un ingrediente che può essere replicato all'infinito. Per esempio: alle Europee cosa faranno? Una campagna fortemente antieuropeista, come Berlusconi? Sarebbe un rischio enorme. Cresce enormemente la responsabilità della sinistra.
Che non sta messa bene.
Capisco il sollievo del Pd per il voto, ma ci sono problemi che non si cancellano con un'interpretazione consolatoria. Il Pd è un pezzo fondamentale della sinistra, ma non è tutta la sinistra. E deve guardare anche alla società. Il referendum di Bologna, per esempio: c'era una maggioranza schiacciante, sulla carta, per il finanziamento alle scuole private. E invece questa maggioranza è stata spazzata via.

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mercoledì 29 maggio 2013

Elezioni amministrative: vince l’astensionismo

I risultati delle elezioni amministrative sono stati molto chiari anche se qualche partito o movimento non riconosce la sconfitta e non prende coscienza  degli effetti della competizione elettorale. Grillo attribuisce agli elettori la colpa del crollo del M5S. Giustificazione questa assurda e paradossale mai utilizzata dalle forze politiche per nascondere la propria sconfitta. Se ad ogni elezione i perdenti confermano la propria visione ed attribuiscono la responsabilità della sconfitta agli elettori non vi è alcuna analisi e valutazione oggettiva e seria sul comportamento degli elettori.
In questa consultazione elettorale i punti di forza del M5S si sono trasformati in punti di debolezza. Infatti, la mancanza di democrazia interna, il movimento personalizzato e centralizzato focalizzato su un leader carismatico, la posizione di non assumere responsabilità di governo e di rimanere al di fuori per far saltare il sistema politico non ha premiato il M5S.
Il M5S ed il PDL sono delle forze politiche personalizzate con un leader carismatico che è capace, purtroppo, di raccogliere consensi. L’assenza in questa campagna elettorale di Grillo e Berlusconi ha facilitato lo scarso risultato di tali forze politiche in particolar modo il M5S.
In queste consultazioni si è rafforzato il partito delle astensioni che ha penalizzato tutte le forze politiche ed in maggior misura il M5S che aveva tratto benefici nelle ultime elezioni politiche. Parte degli elettori sono passati dalla contestazione attiva, votando il M5S alle elezioni politiche del 24-25 febbraio, alla contestazione passiva, astenendosi dal voto nelle recenti elezioni amministrative.
La Lega ha subito un tracollo elettorale sia rispetto alle elezioni politiche sia rispetto alla competizione regionale.
Le previsioni elettorali per il PDL lasciavano presupporre un buon successo nelle elezioni amministrative. Al contrario il risultato non ha rispettato le previsioni ed i sondaggi.
Il PD si attesta tra il 25% ed il 26%, si impone come primo partito ed i suoi candidati sono andati bene in tutti i comuni.
Il risultato positivo del PD in un momento di crisi politica ed economica è stato assecondato dalla buona amministrazione (il caso di Achille Variati a Vicenza), dalla conoscenza dei candidati (Ignazio Marino a Roma) nel territorio, dalle primarie che hanno coinvolto gli elettori e dalla presenza territoriale del partito (voto di appartenenza), la quale pur non essendo ottimale rappresenta pur sempre il primo anello della catena di partecipazione alla vita politica.
Nessun partito ha conseguito un risultato elettorale superiore al 30% ed i consensi elettorali ai partiti si presentano in modo frammentario con nessuna prospettiva di semplificazione e di rafforzamento.
Rimane irrisolta la crisi del rapporto tra il sistema politico ed i cittadini ed il partito delle astensioni si è rafforzato ulteriormente con le recenti elezioni amministrative.
I partiti dovrebbero pensare oltre ai consensi ricevuti soprattutto alle astensioni. Nel caso in cui gli astenuti dovrebbero entrare in campo è possibile realizzare un quadro politico imprevedibile ed ingestibile così come è avvenuto il 24-25 febbraio con le elezioni politiche.
Occorre guadagnarsi la fiducia e la credibilità degli elettori attraverso comportamenti e provvedimenti chiari, responsabili e coerenti all’obiettivo di recuperare almeno parte significativa delle astensioni. Per fare questo si possono seguire due vie:
- La via istituzionale della buon governo finalizzata alla crescita economica ed al superamento della crisi, superando la visione ragionieristica dell’austerità, al fine di restituire nelle mani dei giovani il loro futuro e di sostenere e superare le emergenze sociali del paese;
- La via della partecipazione democratica con l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione perché non sono tanti i partiti che spontaneamente si richiamano all’associazionismo politico per contribuire democraticamente a determinare la politica nazionale. Quindi, occorre una legge ordinaria che stabilisca i requisiti minimi di democrazia interna e trasparenza che i partiti devono possedere per concorrere alla vita politica.
In questo ultimo periodo ho letto tante dichiarazioni da parte di esponenti politici del PD, i quali ricoprono cariche importanti nel partito, che si ergono a rinnovatori, criticando l’apparato e la nomenclatura ed attribuendo la vittoria nelle ultime elezioni amministrative ai territori.
Ritengo che nei momenti di crisi ognuno deve svolgere al meglio il proprio ruolo: dai parlamentari ai segretari di circolo, dai segretari provinciali ai membri della direzione politica ai diversi livelli. Criticare senza aver svolto al meglio il proprio ruolo è sterile e non serve a nulla. Tale esercizio è utile solo a coloro che assumono tale posizione fino a quando non vengono scoperti dall’elettorato.
In periferia gli elettori del PD possono essere classificati in militanti ed in elettori in senso stretto. Questi ultimi hanno confermato la fiducia al PD ma sono sempre in una posizione di attesa ed attenti a quello che farà il partito per risolvere i problemi sociali ed economici causati dalla crisi. Quindi, si tratta di un elettorato mobile che in qualunque momento può cambiare posizione politica. I militanti rappresentano la base elettorale stabile dell’elettorato del PD. E’ necessaria ed urgente un strategia politica del PD finalizzata ad ampliare la militanza attraverso il coinvolgimento dei cittadini sui problemi del territorio ed a rafforzare il proprio elettorato con un’azione di Governo che privilegi i problemi emergenziali del paese.
Il PD vive enormi problemi in periferia pur essendo in una posizione di vantaggio rispetto agli altri partiti: la non sufficiente mobilitazione, il PD dei quadri interessati a salire la scala del potere e la mancanza di strategia politica per realizzare un sistema aperto e trasparente che sviluppi la partecipazione politica.
Ritengo, al di là delle responsabilità del PD centrale che deve ristabilire nuove regole e strutture che corrispondano alle esigenze di un partito moderno del terzo millennio, che sia urgente ripensare il partito in periferia per allargare i consensi e coinvolgere i cittadini nelle scelte decisionali. I fattori da utilizzare nelle strutture periferiche del partito sono: - Unità; - Trasparenza; - Comunità; - Sistema aperto.

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martedì 28 maggio 2013

Ulss n. 22 di Bussolengo lenta con gli invalidi civili

Il Comitato Regionale INPS del Veneto ha organizzato una riunione che si è svolta il 16 maggio con all’ordine del giorno “Informativa Direzione regionale attuazione art. 20 Lg. 102/2009 e stato di cooperazione applicativa – Invalidità civile”.  In tale riunione sono stati trattati le problematiche relative al processo invalidità civile gestito dell’Ulss di Bussolengo ed è stato deciso di inviare una lettera al Governatore della Regione Veneto, all’Assessore Regionale alla Sanità, all’Assessore Regionale al Sociale, alla Segreteria Sanità Regione Veneto, al Dipartimento Prevenzione Regione Veneto ed ai Servizi Sociali Regione Veneto.
Tale posizione è stata presa dopo le interrogazioni presentate al fine di superare le problematiche relative ai lunghi tempi di attesa nella effettuazione delle visite sanitarie e nella definizione delle prestazioni di invalidità civile:
-al Ministro per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione ed al Ministro per gli Affari Regionali presentata dai Parlamentari del Partito Democratico Diego Zardini e Alessia Rotta;
- alla Giunta Regionale ed all’Assessore regionale alla sanità presentata dai consiglieri regionali del Partito Democratico Franco Bonfante e Roberto Fasoli.
Si riporta integralmente la lettera sottoscritta dal Presidente Comitato regionale INPS, Franco Piacentini, e dal Vicepresidente Comitato regionale INPS, Franco Beltrame.
“Informiamo le SS. VV. che il 16 u.s. si è svolta una qualificata riunione tematica del Comitato regionale dell’INPS finalizzata alla verifica dell’andamento della gestione dell’invalidità civile.
La partecipazione a questa riunione era stata allargata ai Dirigenti delle Direzioni Prevenzione e Servizi Sociali della Regione Veneto, e ai Rappresentanti degli Istituti di Patronato, tutti componenti del “Tavolo Tecnico sull’Invalidità Civile”, costituitosi, anche grazie alla Disponibilità della Regione Veneto, il 4 giugno 2012 presso l’INPS regionale.
Com’è noto, Regione, Aziende ULSS e INPS sono, per effetto della legge 102/09, strettamente interconnessi nell’ambito del procedimento che conduce alle concessioni e alle provvidenze economiche.
Per l’Assessorato regionale al Sociale, la dott.ssa Annalisa Basso è intervenuta nel dibattito che si è sviluppato dopo l’esauriente relazione della Direzione regionale INPS, nelle persone del dott. Antonio Pone e della dott.ssa Sonya Boncompagni.
E’risultata assente la Direzione Prevenzione.
La riunione ha fatto emergere importanti positività che si stanno sviluppando a livello locale.
Positivamente si riscontrano la generalizzata riduzione del fenomeno del silenzio-assenso e il progressivo allargarsi dello sviluppo della “cooperazione applicativa” tra gli applicativi delle Aziende ULSS e quelli INPS.
Invece, negativamente, si registrano criticità e ritardi, messi in luce in svariati interventi presenti in alcune realtà territoriali: si veda, ad esempio, la incomprensibile difficile situazione all’Azienda ULSS n. 22 di Bussolengo, che rifiuta ogni dialogo operativo con l’Istituto, con conseguenze negative per l’utenza.
Al tempo stesso, pare emergere una dilatazione dei tempi di attesa per la prima visita, in misura diversa presso le varie Aziende ULSS della regione.
Per evitare il riproporsi dei tempi lunghi d’attesa (insopportabili per le persone disabili e non autosufficienti nell’iter per l’accertamento della effettiva invalidità civile soggettiva, diventa fondamentale uno stretto raccordo operativo tra Regione, INPS e Aziende ULSS, per consentire di massimizzare la presenza dei medici INPS nell’ambito delle commissioni integrate, garantendo in tal modo il numero legale.
Nel confidare nell’attenzione delle SS. VV. a quanto sopra riportato e in attesa di riscontro, ringraziamo e cordialmente salutiamo”.
Dalla replica effettuata alle interrogazioni sopra riportate sembra che l’Ulss di Bussolengo non si sia resa conto dell’importanza della velocità nella definizione delle pratiche di invalidità civile che può essere conseguita attraverso il rispetto del disegno organizzativo, comprensivo delle procedure informatiche realizzate a tale scopo, e la continua ricerca di forme di collaborazione con l’Inps. Il tempo è importante per gli utenti in particolar modo per i soggetti interessati all’invalidità civile.
Fino a questo momento non si hanno notizie positive da parte della struttura sanitaria di Bussolengo. Il problema è aperto e non verrà dimenticato.

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giovedì 23 maggio 2013

Staffetta generazionale anche nella PA

Articolo di Oriano Giovanelli, Presidente forum PD per la pubblica amministrazione e l’innovazione, pubblicato su L’Unità il 23 maggio 2023
Finalmente un governo che mette al centro del suo lavoro l’occupazione giovanile. Questa è una vera svolta a sinistra. Il vero modo concreto per riportare al centro i giovani nel nostro paese non come puro fatto anagrafico da sbandierare ma come grande questione sociale e grande opportunità per il paese. I dettagli della proposta che vanno emergendo sembrano però confinare questa scelta al solo ambito del lavoro privato e qui si evidenzia un limite che rischia di essere frutto di una sudditanza ideologica. Una buona e duratura crescita economica e dell’occupazione la si otterrà se si modernizza il sistema paese e a questo obiettivo concorre non meno che l’impresa il sistema dei servizi, la pubblica amministrazione. Per questo a nostro avviso sarebbe un errore restringere l’ottica della “staffetta generazionale” al solo segmento privato del mercato del lavoro. A forza di tagli lineari e di blocco delle assunzioni e dei contratti del pubblico impiego l’Italia è l’unico de grandi paesi europei che sta conoscendo una riduzione reale e significativa del numero dei dipendenti pubblici passati da circa 3.500.000 a 3.250.000.
Parallelamente è il paese che sta conoscendo il più forte invecchiamento medio degli stessi. Nel 2001 l’età media era di 44 anni, nel 2010 di 48,2 e oggi ha superato mediamente i 50 anni con punte di 51,7 in un settore strategico come la scuola.
L’effetto combinato di questi due fenomeni si sta traducendo in un peggioramento quantitativo e qualitativo dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione italiana senza produrre né più efficienza, né più efficacia, né più qualità. Quindi nessun “risparmio di sistema” per il paese, anzi un contributo secco alla sua depressione e a nulla è servito rispondere a questa lenta agonia della pubblica amministrazione ricorrendo ad un disordinato accrescimento del precariato condannato a vivere di proroghe.
L’alternativa non può essere una indifferenziata ripresa delle assunzioni anche se ci si sono tanti vincitori di concorso e tante graduatorie di idonei che vantano legittime aspettative. Servono alcune mosse coerenti per affrontare il tema in modo corretto. Assumere la diminuzione del numero dei dipendenti puntando alla soglia di tre milioni di dipendenti.
Raggiungere questo obiettivo gradualmente con processi di riorganizzazione delle strutture e dei servizi, una vera revisione della spesa che superi i tagli lineari, per correggere l’attuale cattiva distribuzione del personale privilegiando l’allocazione delle risorse nei luoghi di fornitura dei servizi ai cittadini e alle imprese. Questo si ottiene anche favorendo il pensionamento mirato di dipendenti pubblici nelle aree della pubblica amministrazione oggetto di veri piani industriali. Questi pensionamenti debbono poter avvenire secondo le regole ante Fornero tenuto conto che Il costo medio di un dipendente pubblico in pensione e’ di oltre 8000 euro più basso di un dipendente pubblico in servizio. Quindi ogni tre nuovi pensionati si può procedere almeno alla assunzione senza oneri aggiuntivi di un o una giovane dipendente magari con qualifiche professionali più alte.
Prendendo per buona la riduzione a tre milioni dei dipendenti pubblici questo potrebbe portare, ripeto senza costi aggiuntivi per le casse pubbliche, alla assunzione di 80/90 mila giovani e produrrebbe una importante inversione di tendenza rispetto all’invecchiamento medio oggi in corso. L’ultima mossa ma non per importanza riguarda gli investimenti, quindi spesa in conto capitale, in tecnologia, reti, strutture che la ricontrattazione del patto di stabilità e crescita in sede europea può consentire. L’obiettivo una pubblica amministrazione più giovane, più avanzata tecnologicamente, più adatta ad un paese che vuole tornare a crescere.

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La staffetta generazionale non aiuta la crescita

Articolo di Alberto Alesina pubblicato sul Corriere della sera il 22 maggio 2013 Un anno e mezzo fa l’ex ministro Elsa Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo: anche fino a 67 anni. Oggi il ministro Enrico Giovannini spiega loro che debbono lasciare l’impiego prima, per fare spazio ai giovani attraverso quella che viene chiamata «staffetta generazionale». Vale a dire, un dipendente accetta di lavorare meno ore, con meno stipendio o di andare in pensione con una qualche penalizzazione, purché la sua azienda assuma un giovane.
Giustamente credo che gli italiani siano un po’ confusi. In un Paese che cresce, i posti di lavoro non sono fissi ma aumentano, quindi ci sarebbe posto per tutti, giovani e anziani. In un Paese come il nostro, poi, nel quale la vita media si sta allungando, sarebbe assolutamente necessario che gli anziani lavorassero più a lungo, altrimenti il carico fiscale per chi ha un impiego si alza molto proprio per sostenere chi un lavoro non ce l’ha più.
Ma se il Paese non cresce? Ovvero non crea posti di lavoro? I giovani troveranno ancora meno occupazione. Per di più, alte tasse e rigidità contrattuali all’ingresso sul mercato del lavoro scoraggiano assunzioni da parte delle imprese. Il carico fiscale inoltre riduce la crescita creando un circolo vizioso: sempre meno lavoro e sempre più persone che non essendo impiegate necessitano del sostegno di chi invece un’occupazione ce l’ha.
Il mancato sviluppo fa sì che le ore lavorate non aumentino, restino fisse. Redistribuirle fra giovani e anziani, come prevederebbe la «staffetta generazionale», non aiuta certo nell’aumentare il reddito degli italiani. Semplicemente lo redistribuisce tra padri e madri, figli e figlie. Posto poi che la «staffetta» funzioni, la disoccupazione giovanile si ridurrebbe sì, ma in modo fittizio: non creando più lavoro quanto redistribuendo quello già esistente tra una generazione e l’altra. Una stessa torta, il Prodotto interno lordo, diviso in parti diverse senza però che questo dia alcun contributo alla crescita.
Ma allora a che serve questa redistribuzione tra generazioni? Qualche effetto indiretto potrebbe averlo. Primo: più a lungo un giovane rimane escluso dalla forza lavoro meno diventa «impiegabile» dalle imprese e quindi scoraggiato. La «staffetta» potrebbe per questo aiutare a ridurre il tempo di attesa per l’impiego. Secondo: si potrebbe rendere figli e figlie meno legati al reddito di padri, madri e alla famiglia, quindi più mobili, facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro anche quando questo richiede un cambio di città o luogo di vita.
Non sono chiarissime le conseguenze sulle imprese e i loro costi. Da un lato un giovane all’inizio della carriera ha un salario più basso, ma ci sarebbero costi legati all’inserimento del giovane al lavoro. Il saldo, positivo o negativo, dipenderebbe comunque da quanto meno si pagano gli anziani che passano al part time.
Insomma: la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l’unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un’ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali. Quindi la si venda per quello che è: una misura un po’ disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni.

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mercoledì 22 maggio 2013

Rotta e Zardini contro gli sprechi nella formazione

I deputati veronesi del Partito Democratico Alessia Rotta e Diego Zardini hanno presentato una interrogazione  al Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione sulle attività di formazione dell’Inps e delle altre PA.
In un momento di grave crisi economica occorre eliminare gli sprechi ed i privilegi al fine di indirizzare le risorse verso le emergenze economiche e sociali del paese.
La formazione continua, affermano Rotta e Zardini, è un fattore strategico per le imprese private e pubbliche al fine di migliorare il sapere dei dipendenti e la performance delle imprese stesse. È talmente importante che ha un rapporto di complementarietà e di compenetrazione con il processo produttivo e viene espletata in modo permanente da coloro che detengono le maggiori conoscenze professionali. Il percorso lavorativo dei dipendenti conduce ad un arricchimento delle mansioni che comprendono la formazione nel ruolo di docente e discente.
L'Inps per migliorare l’offerta dei servizi e perseguire il miglioramento continuo investe cifre importanti nella formazione dei propri dipendenti. Infatti, nel 2010 l'Istituto ha speso circa 11 milioni di euro per attività formativa e nel 2011 sono state organizzate 5.700 iniziative di formazione di cui 3.562 giornate di formazione in aula e 2.138 giornate di formazione. La formazione organizzata dall'Inps può essere così classificata: – formazione effettuata durante lo svolgimento del processo produttivo (rapporto un docente ed un discente); – formazione in aula (rapporto un docente e più discenti).
“La docenza per gli interventi di formazione del personale dell'Inps, affermano nell’interrogazione Rotta e Zardini, viene assegnata in parte ai dipendenti dell'Istituto, ai quali viene corrisposto un compenso di circa 31 euro (con esclusione dei dirigenti, professionisti e medici). Al contrario non viene riconosciuto alcun corrispettivo a coloro che svolgono attività di docenza nella formazione on the job”.
“La scelta dell'Inps, continuano Rotta e Zardini, di retribuire l'attività di docenza in aula ai dipendenti di area B e C espletata durante l'orario di lavoro normale non tiene conto che quelle ore di lavoro sono già retribuite con lo stipendio. Pertanto, si ritiene che il caso in questione possa essere definito un doppione e, quindi, una forma di spreco. Per non danneggiare i dipendenti gli eventuali interventi formativi effettuati durante il lavoro straordinario potrebbero essere retribuiti con le prestazioni straordinarie e non con il pagamento delle docenze”.
Sorprende il comportamento dell’Inps, il quale ha intrapreso da diverso tempo la via dell’adattamento continuo ai cambiamenti che avvengono nel mondo delle organizzazioni e della gestione per processi. Infatti, l’attività dei dipendenti si svolge nei processi di produzione e  non è facile quantificare e distinguere la formazione dall'attività lavorativa in senso stretto e la formazione in aula rientra nelle mansioni dei dipendenti.
Il fenomeno descritto potrebbe assumere dimensioni più ampie se le pubbliche amministrazioni adottassero il metodo Inps di retribuire l'attività di docenza in aula ai propri dipendenti.
Alessia Rotta e Diego Zardini chiedono al Ministro della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione quanto segue:
- “di quali elementi disponga in merito al caso descritto (retribuzione della docenza interna nella formazione in aula) nell'Inps e nelle altre pubbliche amministrazioni, al fine di poter intervenire e normalizzare le attività di formazione;
- se non reputi urgente intervenire per eliminare i casi di doppia retribuzione (stipendio e compensi per la docenza) a favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni che espletano, oltre al lavoro assegnato, attività di docenza nelle attività di formazione in aula;
- se non ritenga necessario assumere iniziative per includere l'attività di docenza tra le mansioni dei lavoratori dipendenti dalle pubbliche amministrazioni al fine di arricchire le competenze del personale ed eliminare sprechi e doppioni rappresentati dai compensi relativi alle attività di docenza”.
Da questo caso si deduce che sono molti gli sprechi ed i privilegi che insistono nelle Pubbliche Amministrazioni e che è più facile bloccare gli stipendi dei pubblici dipendenti anziché adottare una politica di emersione delle spese superflue ed improduttive.

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Riformare il sistema per dare lavoro ai giovani

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 21 maggio 2013
Flessibilità, incentivi, sgravi fiscali, decontribuzioni, contratti di formazione. Per contrastare la disoccupazione giovanile negli ultimi 15 anni abbiamo sperimentato un ventaglio amplissimo di misure, con ben scarsi risultati.
Questo fallimento è in parte collegato al modo in cui sono stati disegnati e attuati i vari strumenti, con improvvisazioni e approssimazioni, senza seri esercizi di previsione e soprattutto di valutazione ex post. Ma il nodo di fondo è un altro: a dispetto delle mille leggi e leggine che lo imbrigliano nel suo quotidiano funzionamento, il nostro mercato occupazionale non è «governato», in particolare su quei fronti che sono cruciali per l'occupazione giovanile. Manca infatti una strategia capace di anticipare e stimolare la domanda di nuovi lavori da parte del sistema produttivo, di incentivare la formazione delle corrispondenti competenze da parte del sistema educativo e di gestire in modo efficace la transizione scuola-lavoro.
Nel prossimo decennio in Europa la nuova occupazione riguarderà essenzialmente i lavori «bianchi» (servizi sanitari e sociali, istruzione e formazione), quelli «verdi» (energie rinnovabili, ambiente) e quelli digitali (produzione e utilizzo di tecnologie della comunicazione e dell'informazione). In Italia dovrebbero continuare a crescere anche alcune tipologie di lavoro manifatturiero e neo-artigianale, mentre potrebbero espandersi in misura significativa le filiere in cui abbiamo un naturale vantaggio competitivo: cultura e turismo. Stimolare lo sviluppo e la modernizzazione di questi settori è il miglior modo per assicurare una job-rich growth e durevoli prospettive occupazionali ai giovani. Come già avviene da tempo in altri Paesi, tutte le politiche pubbliche dovrebbero concentrarsi su questo obiettivo, a livello sia nazionale sia locale. Sotto il governo Monti si è cercato di istituire qualche collegamento fra interventi per lo sviluppo economico e la coesione territoriale, da un lato, e politiche per l'occupazione giovanile dall'altro (pensiamo agli incentivi per le cosiddette start-up ). È fondamentale proseguire su questa strada, evitando di regredire verso le tradizionali misure «a pioggia», non selettive e non monitorate.
La creazione di nuovi posti e tipi di lavoro richiede uno sforzo massiccio sui fronti della formazione e più in generale dell'istruzione. Nei Paesi germanici, scandinavi e anglosassoni i raccordi scuola-impresa sono strettissimi e spesso formalizzati dalla costituzione di partnership locali o settoriali. Nell'ultimo decennio sono state effettuate interessanti sperimentazioni anche in Italia, ma senza la capacità di fare sistema. La riforma Fornero ha puntato molto sull'apprendistato. Ma non illudiamoci che per farlo decollare bastino incentivi fiscali o normativi. Occorre un faticoso lavoro politico-organizzativo ad ogni livello e servono investimenti da parte di moltissimi attori (enti pubblici, imprese, fondazioni, camere di commercio e così via). Negli anni duemila, per rilanciare l'apprendistato, il governo tedesco ha siglato tre grandi «Patti nazionali per la formazione» con vari attori del mondo produttivo; l'economia tedesca impiega ogni anno 23 miliardi di euro in questo settore. Se il governo riesce a trovare nuove risorse, sarebbe meglio investirle su questo fronte piuttosto che sulla staffetta generazionale (misura di efficacia incerta, anche sulla base delle esperienze di altri Paesi). Infine, occorre considerare i servizi per l'impiego, ossia l'insieme di strutture pubbliche e private che devono aiutare i giovani (anche se non solo loro) a inserirsi nel mercato del lavoro. Questa è la nota più dolente della situazione italiana. Su cento giovani in cerca di occupazione, solo venti in Italia si rivolgono ai servizi per l'impiego, di contro a cinquanta circa in Gran Bretagna e 77 in Germania. Fra i laureati, la percentuale italiana scende sotto il 10. La ragione è presto detta: la maggioranza di queste strutture funzionano malissimo. I funzionari sono pochi, spesso poco motivati, incapaci di fornire consulenza efficace. In giro per l'Europa vi sono diversi modelli di organizzazione dei servizi per l'impiego (l'Olanda ha recentemente deciso la loro completa privatizzazione). Ma nessun Paese può fare a meno di questi servizi, che peraltro assorbono quote di Pil (Prodotto interno lordo) tre o quattro volte superiori a quelle italiane.
Il ministro Giovannini ha annunciato ieri un pacchetto di misure contro la disoccupazione giovanile: modifiche della riforma Fornero, staffetta generazionale e passi verso quella Youth Guarantee esplicitamente raccomandata dalla Ue, ossia l'impegno a garantire a ogni giovane un'offerta di lavoro, apprendistato, tirocinio o proseguimento degli studi entro quattro mesi dall'inizio della disoccupazione o dall'uscita dalla scuola.
L'unica misura di respiro strategico mi sembra la «garanzia giovani».
È chiaro che si tratta di un impegno troppo ambizioso per il breve periodo. Ma se esso diventasse uno degli obiettivi centrali della politica del governo (con un progetto da realizzare gradualmente) disporremmo finalmente di un perno attorno al quale riorganizzare la triade «impresa-scuola-lavoro» in modo da avere più crescita, più occupazione e nuovi profili professionali da offrire ai nostri giovani.

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venerdì 10 maggio 2013

Giulio Sapelli: Politica, Crescita e Impresa

Intervista a Giulio Sapelli a cura di Antonino Leone pubblicata su SistemieImpresa N. 4 - aprile 2013 - 12
Giulio Sapelli è un economista, docente di Storia economica ed Economia politica nell’Università Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera. Sostiene le politiche Keynesiane per avviare la crescita dell’economia e superare la crisi finanziaria internazionale del 2007. Non condivide la politica di austerità che ha portato ad una deflazione e a una disoccupazione devastante ed è favorevole al sostegno della domanda per riavviare la crescita. Ritiene che per sostenere le imprese occorre detassare e sburocratizzare, lottare contro gli sprechi e migliorare la produttività.
Vuole spiegare la sua posizione a favore di un governo di riappacificazione e le motivazioni che stanno alla base di questa scelta?
Occorre ricostruire la Nazione e questo è possibile solo ritornando alla politica con un governo di unità nazionale che riaffermi una comune volontà ricostruttiva dinanzi a una crisi da deflazione tra le più dure degli ultimi cento anni.
Vi è un acceso confronto tra coloro che sostengono la politica di austerità e quelli che propongono una politica di crescita attraverso la spesa pubblica. Vuole chiarire i difetti e i pregi di tali scelte?
L’onore della prova che Lord Keynes avesse torto spetta ai Suoi detrattori. L’austerità ha portato a una deflazione e a una disoccupazione devastante. Gli Stati Uniti e il Giappone si stanno risollevando dalla crisi da altissimo rischio finanziario e da sottoconsumo. Solo la ripresa della domanda può riavviare la crescita.
Per l’Italia non è rischioso, a causa dell’elevato debito pubblico, affidarsi unicamente a una politica della spesa pubblica al fine di avviare la crescita del paese?
Non ci si affida solo alla spesa pubblica ma alla lotta contestuale allo spreco pubblico e all’aumento della produttività del lavoro.
Quali sono i motivi per cui le imprese italiane,particolarmente le Pmi, non sono capaci di reagire alla crisi economica e finanziaria internazionale?
Lo sono state invece, con una capacità di resilienza enorme e che non è compresa dagli economisti neoclassici.
Le Pmi in Italia rappresentano in gran parte il tessuto produttivo della ricchezza nazionale. Quali interventi da parte del Governo e delle imprese stesse occorre fare per sostenere le Pmi in questo momento di difficoltà?
Nessun intervento. Solo detassare, sburocratizzare e sostenere le banche cooperative e popolari che sono le uniche ad aiutare le piccole imprese.
Le micro e piccolissime imprese possono farsi carico dell’avvio dello sviluppo del paese?
Nessun settore da solo può farsi portatore di tale carico. Occorre l’integrazione polifonica tra diverse dimensioni di scala e diverse merceologie e destinazioni dei prodotti.

Chi è Giulio Sapelli
Giulio Sapelli è nato a Torino nel 1947, dove si è laureato in Storia economica e ha conseguito la specializzazione in Ergonomia. Ha studiato presso l’Institut fur Weltwirschaft di Kiel e ha insegnato e svolto attività di ricerca presso la London School of Economics and Political Sciences, nonché presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Università di Buenos Aires. A cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 è stato Directeur d’Etudes presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi.
Ai temi della cultura organizzativa ha dedicato, oltre al lavoro di consulenza e di intervento operativo, molte ricerche, tra cui ricordiamo: Educare e studiare insieme nell’impresa. Una testimonianza di Giulio Sapelli, in G.Maifreda e S.Roncaglia, “Narrare la formazione. Grande impresa e sindacato”, Guerini Editore, 2005. Ai temi delle patologia dei mercati e della necessità della loro trasparenza istituzionale, organizzativa ed etica, ha dedicato i lavori: Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Feltrinelli, 1994. Responsabilità d’impresa. Tra mercato e nuova sovranità politica, Guerini & Associati, 1996. La sua riflessione ora si rivolge alle trasformazioni della sovranità e quindi della teoria dello stato, tra economia, politica, geostrategia: Prefazione. La nuova grande trasformazione, in (a cura di G. Vittadini), “Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà”, Guerini Editore, 2007, pp 13-16.

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giovedì 9 maggio 2013

Diego Zardini e Alessia Rotta a sostegno degli invalidi civili

La qualità del processo di erogazione dei servizi pubblici, la cui produzione coinvolge più enti, dipende dal livello di cooperazione ed integrazione degli enti nello svolgimento delle fasi di lavorazione assegnate a ciascuno. Nel caso in cui il disegno organizzativo complessivo ed unificante non viene rispettato e le attività vengono svolte non considerando le necessità degli enti che dovranno svolgere le fasi successive si verificano disfunzioni, confusione ed inefficienza nell’erogazione dei servizi. In tale caso i tempi di erogazione dei servizi si allungano con gravi disagi per gli utenti. Pertanto, occorre svolgere al meglio le attività nel rispetto del modello organizzativo, focalizzarsi sul cliente, il quale prima della fase finale del processo è rappresentato da un altro ente, e cooperare per migliorare continuamente il processo.
Tutto questo non accade tra l’Inps di Verona e l’ Ulss n. 22 di Bussolengo per responsabilità esclusiva della struttura sanitaria, la quale si pone in antitesi al modello organizzativo, supportato da adeguate e moderne applicazioni informatiche, continua a svolgere le proprie attività in modo tradizionale e corporativo e non considera i cambiamenti avvenuti nel processo di erogazione delle prestazioni di invalidità civile.
I deputati del Partito Democratico Diego Zardini ed Alessia Rotta hanno presentato una interrogazione sugli invalidi civili al Ministro per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione ed al Ministro per gli Affari Regionali sottolineando che:
- "la grave crisi economica e sociale che interessa l’Italia impone allo Stato, considerato complessivamente,tra l’altro di fare bene le proprie attività e di gestire al meglio i servizi pubblici e le prestazioni sociali al fine di creare valore per i cittadini, maggiormente per coloro che vivono direttamente gli effetti devastanti della congiuntura;
- l’aumento progressivo della fascia della terza età e i crescenti bisogni che essa rappresenta impegna gli Enti, titolari delle relative funzioni, ad una gestione più efficace ed efficiente del sistema di tutela sociale della disabilità”.
Le ultime modifiche legislative in materia di invalidità civile hanno innovato il processo di riconoscimento e di erogazione delle prestazioni. La funzione relativa alla concessione dei benefici agli invalidi civili è stata trasferita alle Regioni, le quali hanno attribuito le competenze alle Ulss. All’Inps è stata confermata l’erogazione delle provvidenze e sono stati assegnati nuovi compiti.
L’Inps ha introdotto il fascicolo elettronico sanitario, il monitoraggio delle fasi di lavorazione del processo, la trasparenza dei parametri di qualità e quantità delle prestazioni, la presentazione per via telematica della domanda e della relativa certificazione sanitaria, l’integrazione delle commissioni sanitarie da un medico dell’Inps, gli strumenti di integrazione e di cooperazione tra i sistemi informativi degli Enti al fine di facilitare il rapporto di collaborazione tra gli enti e contrarre i tempi di definizione delle prestazioni di invalidità civile.
“L’innovazione introdotta nel processo di invalidità civile, affermano Diego Zardini e Alessia Rotta non è stata recepita concretamente da tutte le aziende sanitarie, con la conseguenza che non sono migliorati, in alcuni territori, i tempi di effettuazione delle visite sanitarie e di definizione delle prestazioni, con disagi gravi da parte degli utenti segnalati dalla stampa”.
“Il caso emblematico, continuano Zardini e Rotta, è rappresentato dall’ Ulss n. 22 di Bussolengo, la quale utilizza la procedura informatica dell’Inps unicamente per scaricare le domande di invalidità civile, handicap e disabilità trasmesse dal cittadino o dai patronati. Per la fase sanitaria di accertamento dell’invalidità (calendarizzazione visita, convocazione a visita, redazione del verbale di visita, aggiornamento del fascicolo elettronico) l’Asl 22 non utilizza la procedura informatica Inps e, all’esito del procedimento di accertamento, trasmette all’Inps i verbali e la documentazione sanitaria in formato esclusivamente cartaceo. L’ Ulss n. 22 di Bussolengo non utilizza nemmeno lo strumento della cooperazione applicativa, prevista dall’Inps già dal 2010, consistente nel dialogo tra i diversi sistemi informativi degli Enti. Tale strumento, pur con tempi di attuazione diversificati caso per caso sul territorio, è ormai consolidato e largamente utilizzato dalle aziende sanitarie al punto che nella Regione Veneto solo l’Asl 22 è estranea a tale sistema operativo”.
Il mancato adeguamento, sottolineano Zardini e Rotta, dell’Asl n. 22 di Bussolengo e degli enti di altri territori al modello organizzativo realizzato dall’Inps, supportato da apposite ed adeguate procedure informatiche, causa:
- "il rallentamento del processo d’invalidità civile che si basa sulla integrazione tra enti diversi con gravi conseguenze per i cittadini per i tempi troppo lunghi di attesa per le convocazioni alle visite mediche e per la definizione delle prestazioni; - l’impossibilità dell’Inps e dei Patronati di avere la tempestiva disponibilità degli atti, in quanto i verbali sanitari non sono redatti e trasmessi in formato elettronico, rallenta il lavoro degli uffici amministrativi per la parte inerente i loro specifici adempimenti e impedisce di fornire informazioni attendibili in tempo reale sullo stato delle pratiche;
- il pagamento degli interessi sulle prestazioni liquidate dopo 120 giorni dalla data di decorrenza della domanda. Costi questi che potrebbero essere eliminati attraverso una gestione efficace delle prestazioni ed attenta a non superare i limiti temporali oltre i quali scatta il calcolo degli interessi".
L’Inps è in grado, grazie alle proprie procedure informatiche in uso ed all’utilizzo degli strumenti di rilevazione (cruscotto direzionale), di rendere trasparenti i tempi di liquidazione delle prestazioni in questione classificati per provincia e gli indicatori di qualità e quantità delle prestazioni stesse.
Diego Zardini e Alessia Rotta chiedono ai Ministri:
- “se non ritengano necessario rendere trasparenti tramite l’Inps gli indicatori qualitativi (tempi di effettuazione delle visite sanitarie e di definizione delle pratiche) e quantitativi (giacenze) delle prestazioni di invalidità civile, classificati per provincia, al fine di poter intervenire e migliorare la performance del prodotto su tutto il territorio nazionale;
- se non reputino urgente conoscere gli importi relativi agli interessi corrisposti agli interessati per ritardato pagamento delle prestazioni di invalidità civile al fine di eliminare gli sprechi prodotti da una gestione non efficiente del processo invalidità civile;
- se non ritengano necessario intervenire per il tramite dell'ispettorato della funzione pubblica onde verificare se l'Asl n. 22 di Bussolengo (Verona) nella gestione delle pratiche di invalidità civile rispetti i principi di efficienza e di efficacia nell'azione amministrativa”.

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Ulss n. 22 di Bussolengo inefficiente con gli invalidi civili

La qualità dei servizi pubblici spesso dipende dal rapporto di collaborazione e di cooperazione tra enti diversi nel caso in cui le diverse attività del processo non sono assegnate ad un unico ente.
Nel caso specifico delle prestazioni di invalidità civile dell’ambito territoriale dell’Asl 22 di Bussolengo la qualità delle prestazioni di invalidità civile lascia a desiderare in quanto la struttura sanitaria  non è coerente al disegno organizzativo stabilito e non si avvale delle procedure informatiche che permettono all’Inps ed all'Ulss di dialogare in tempo reale.
I consiglieri regionali Franco Bonfante e Roberto Fasoli hanno presentato una interrogazione alla Giunta Regionale ed all’Assessore regionale alla sanità nella quale vengono elencati i punti di debolezza dell’Asl 22 di Bussolengo:
- “l’Ulss n. 22 di Bussolengo sia la sola in tutto il Veneto a non avere adottato le suddette procedure informatiche; a quanto pare tale l’Asl utilizza i software dell’Inps soltanto per scaricare le domande di invalidità civile, handicap, ecc ma non per il vero e proprio iter procedurale (calendarizzazioni e convocazioni delle visite,redazione dei verbali), né per trasmettere gli esiti dei procedimenti all’Istituto previdenziale;
- l’Ulss di Bussolengo continui ad inviare all’Inps tutta la mole di documentazione prodotta in formato cartaceo;
- ciò comporterebbe notevoli penalizzazioni per gli utenti, visti i tempi lunghi per l’effettuazione delle visite sanitarie e quindi per la liquidazione delle prestazioni di invalidità;
- i fascicoli elettronici di ogni pratica vanno comunque aggiornati: pare che l’Inps di Verona si sia sostituito all’Ulss di Bussolengo in tale compito”.
Bonfante e Fasoli indicano gli effetti del non allineamento dell’ Ulss 22 di Bussolengo al modello organizzativo ed al non utilizzo delle procedure informatiche: “- tempi lunghi di erogazione dei servizi; - Inps e Patronati non sono in grado di dare informazioni attendibili in tempo reale agli utenti in quanto i fascicoli non sono aggiornati; - aumento delle code degli utenti in attesa delle visite ed in cerca di informazioni”.
Nel terzo millennio l’ Ulss 22 di Bussolengo non utilizza la piattaforma informatica realizzata dall’Inps e condivisa da tutte le regioni per operare in tempo reale ma produce carta ed esporta carta verso l’Inps di Verona causando tempi lunghi per la definizione delle prestazioni a danno degli utenti.
“A quanto pare - scrivono Bonfante e Fasoli nella loro interrogazione - l’Ulss 22 utilizza i software dell’Inps soltanto per scaricare le domande di invalidità ma non per il vero e proprio iter procedurale (calendarizzazioni e convocazioni delle visite, redazione dei verbali), né per trasmettere gli esiti dei procedimenti all’Istituto previdenziale. Di fatto tutta la documentazione inviata dall’Ulss all’Inps pare sia ancora in formato cartaceo, con notevoli penalizzazioni per gli utenti, vista l’impossibilità di avere dati aggiornati in tempo reale ed i tempi lunghi per l’effettuazione delle visite sanitarie e quindi per la liquidazione delle prestazioni di invalidità civile”.
Bonfante e Fasoli incalzano quindi l’assessore alla Sanità e la Giunta per chiedere un intervento per “fare in modo che l’Ulss n. 22 di Bussolengo si allinei immediatamente con tutte le altre Ulss venete nell’utilizzare gli ambienti virtuali messi a disposizione dall’Inps, per  contrarre al massimo i tempi del processo di erogazione delle prestazioni relative al riconoscimento delle invalidità civili”.
L’articolo 20 del decreto legge n. 78 del 2009, convertito con modificazioni nella legge n. 102 del 3 agosto 2009, ha apportato importanti innovazioni nell’iter di riconoscimento dei benefici in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità al fine di migliorare la qualità del servizio ed i tempi di definizione delle prestazioni di invalidità civile.
La cooperazione e la collaborazione tra enti diversi (Ulss 22 di Bussolengo e Inps di Verona) prevista nel disegno organizzativo e sostenuta da nuove applicazioni informatiche realizzate dall’Inps è saltata in quanto l’Asl n. 22 di Bussolengo si ostina a non rispettare le regole del processo di invalidità civile, il quale in altri territori ha prodotto risultati apprezzabili migliorando i parametri di qualità e quantità del prodotto.
I consiglieri regionali Bonfante e Fasoli interrogano la Giunta regionale e l’Assessore regionale alla Sanità per sapere: “se intendano fare in modo che l’Ulss n. 22 di Bussolengo si allinei immediatamente con tutte le altre Ulss venete nell’utilizzare gli ambienti virtuali messi a disposizione dall’Inps, per contrarre al massimo i tempi del processo di erogazione delle prestazioni relative al riconoscimento delle invalidità civili”.

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giovedì 2 maggio 2013

La politica apprenda dalle aziende

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 27 aprile 2013
Può apparire strano che in un'epoca di fallimenti, salvataggi e disastri bancari e aziendali si ritenga che il management abbia ancora qualcosa da insegnare. Eppure mai come in questo momento di grande indecisione, populismo e miopia, la politica potrebbe imparare qualcosa dalla management science, la scienza (o l'arte) di fare avvenire le cose (giuste) nelle aziende.
Le riforme politiche (lavoro, giustizia, scuola, economia) dovrebbero essere fatte con una logica che in un'azienda viene chiamata «pianificazione strategica»: ovvero valutandone la priorità, i costì, gli effetti, le reazioni degli altri soggetti coinvolti; e soprattutto considerandone la fattibilità. Perché una strategia, anche ottima, che però non si può realizzare, non serve a nulla. Basta pensare al tema dei miliardi di debiti arretrati della pubblica amministrazione: ancora non sappiamo se sarà possibile pagarli, se questo peggiorerà il deficit o il debito, e infine ignoriamo come farli arrivare ai creditori «giusti» e non ai furbi; questo avviene perché manca un minimo di pianificazione finanziaria e di efficace contabilità. Molte delle nostre riforme sono dettate dal populismo di breve termine, cosa che nelle aziende ben gestite non avviene perché ciò che si decide di fare nei prossimi mesi e nel corso dell'anno è il risultato di piani a medio e lungo termine. E le priorità delle riforme politiche sono spesso poco ragionate, non basate su fatti e mai condivise: per la giustizia i «saggi» stanno definendo come urgente il problema delle intercettazioni, quando la nostra economia è bloccata da una giustizia civile con i tempi del Gabon.
Questa incapacità da parte di un Parlamento rissoso e poco competente di pianificare bene le riforme alla fine fa sì che da noi le leggi debbano essere fatte dal governo (con il meccanismo della fiducia) e che siano un modello di legislazione caotica e di pessima qualità: leggi fatte in fretta e furia per reagire a un'emergenza, alla pressione sociale e dei media o perché scadono i termini.
La pessima pianificazione strategica delle riforme si traduce infine nella cronica incapacità dell'esecutivo di «eseguire» le leggi approvate perché sono mal concepite, scritte e comunicate malissimo. Ma, se anche le riforme e le leggi fossero impeccabili esiste un altro insormontabile ostacolo alla loro attuazione: un management della pubblica amministrazione antimeritocratico, con preparazione soprattutto giuridica o accademica e pochissimo responsabilizzato, formato e incentivato. E anche qui ci sarebbe molto da imparare dal (buon) management aziendale: la gestione delle risorse umane che è nelle aziende una variabile assolutamente cruciale, perché un bravo manager è soprattutto un bravo gestore di persone. Quindi, la politica può imparare dal management non solo nel marketing elettorale, convincendo i «clienti» (gli elettori) a comprare il proprio prodotto (dare il proprio voto al politico): è anche fare buone riforme e leggi in Parlamento e realizzarle con efficacia nel governo e nella pubblica amministrazione. E anche per questo potrebbe imparare molto dal management. Ma non necessariamente «importando» in politica imprenditori e manager. In Italia abbiamo avuto l'esperienza di Silvio Berlusconi che è diventato un ottimo politico nel senso che è riuscito a convincere per anni milioni di italiani a comprare il «prodotto» Berlusconi grazie a un marketing di tipo aziendale ma che non sembra essere stato in grado di mettere a posto l'azienda Italia, pur essendo lui un grande imprenditore. Peraltro sono rari i casi di imprenditori come Michael Bloomberg (sindaco di New York) che hanno guidato bene partiti o governi, e la ragione è chiara: gestire un Paese (o una città) è molto più difficile che gestire un'azienda, ed è per questo che esiste la «professione» della politica. E allora, se non si possono importare dalle aziende in politica imprenditori o manager, come può la politica imparare dal management? Intanto, quando gli elettori italiani potranno scegliere i candidati (loro e non i capi dei partiti), dovranno abbandonare le ideologie del passato e del presente (esempio Internet) cercando di valutare chi è più credibile nel realizzare le promesse che fa: bisognerà guardare ai risultati ottenuti nella carriera politica passata, dando preferenza a chi ha dimostrato di avere fatto qualcosa in un ruolo amministrativo e gestionale a livello locale (per esempio un sindaco o un assessore).
L'area dove la politica potrà imparare di più dal management è sicuramente però quella della gestione delle risorse umane. Che non significa solo «licenziare i fannulloni» ma inserire una seria meritocrazia, ispirandosi a modelli vecchi (la pubblica amministrazione francese) e soprattutto nuovi (quella di Singapore). Infine è essenziale che il nostro servizio pubblico impari dalle aziende come avere più trasparenza: i costi e la qualità dei servizi pubblici chiave come la scuola e la giustizia sono oggi incomprensibili ai cittadini.
La politica in Italia sembra entrata in una crisi di portata epocale. Quello che accade in questi casi nelle aziende è un profondo rinnovamento nella leadership: saprà farlo la politica.

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Verona: progetto Università e Provincia

Il Consiglio Provinciale di Verona nell’ultima seduta ha approvato all'unanimità l'Ordine del Giorno presentato da Lorenzo Dalai, capo gruppo del Partito Democratico, collegato alla delibera n. 17/2013 di approvazione del Bilancio consultivo 2012.
Il progetto di collaborazione tra la Provincia e l’Università di Verona, dichiara Lorenzo Dalai, si pone tre obiettivi principali: - conoscere lo stato dell’organizzazione dei comuni della provincia di Verona; sostenere il cambiamento del modello organizzativo nei comuni che si trovano in difficoltà anche per le dimensioni; avviare un proficuo rapporto di collaborazione tra la Provincia, l’Università ed i comuni scaligeri al fine di migliorare l’offerta dei servizi. Ritengo che questo progetto possa contribuire a dare un impulso importante all'economia del nostro Territorio, in un momento di estrema difficoltà di tutto il tessuto produttivo. Ringrazio tutti i colleghi della collaborazione”.
Si riporta l’Ordine del Giorno approvato dal Consiglio Provinciale.
“Considerato che l’economia italiana, a causa della grave crisi economica, registra una bassa e lenta crescita della ricchezza che non è sufficiente a creare prospettive positive ai problemi sociali del paese;
le Pubbliche Amministrazioni rappresentano un fattore che influisce sulla crescita economica dell’Italia. Le PA efficienti ed efficaci aiutano a superare la crisi economica in quanto intervengono sulla qualità della vita dei cittadini e sulla competitività delle imprese, le quali oggi subiscono i tempi lunghi ed i costi della burocrazia;
il D. Lgs. n. 150/2009 rappresenta un’opportunità da cogliere per avviare un cambiamento positivo nelle Amministrazioni Centrali dello Stato ed in particolare negli enti locali;
il processo di cambiamento, avviato dal D. Lgs. n. 150/2009, interessa i comuni della Provincia di Verona e va sostenuto da interventi innovativi realizzati nel territorio;
I comuni veronesi che hanno aderito al progetto “Performance e Merito” dell’Anci sono solo 5 e, pertanto, solo questi potranno ricevere assistenza e supporto.
i comuni di piccole dimensioni non essendo dotati di management e di capacità finanziaria incontrano notevoli difficoltà ad attuare i cambiamenti necessari per migliorare la qualità dei servizi erogati. Per tali problemi il sistema degli enti locali è poco propenso ad innovare e ricorre a scelte difensive che non creano valore per i cittadini;
Si propone
di realizzare un progetto tra la Provincia e l’Università di Verona, Facoltà di Economia, al fine di conoscere la situazione organizzativa dei comuni veronesi in rapporto al D. Lgs. n. 150/2009 e di intervenire a supporto dell’adeguamento dei comuni ai principi del medesimo decreto;
Il progetto che si propone consta delle seguenti fasi:
- Prima fase, studio e ricerca sullo stato di attuazione del D. Lgs. n. 150/2009 nei comuni della Provincia di Verona;
- Seconda Fase, scegliere e sostenere degli ambiti territoriali o aggregati di comuni omogenei che si trovano in difficoltà a realizzare la riforma.
Si ritiene che il coinvolgimento dell’Università su questa problematica sia molto importante al fine di avviare un cambiamento positivo nei comuni veronesi”.
Adesso la fase attuativa del progetto dipende dalla responsabilità e sensibilità dell’Assessore competente della Provincia.
La proposta era stata sottoposta all’attenzione del Presidente Miozzi nell’aprile del 2011 da Diego Zardini a quel tempo capogruppo del PD ed oggi parlamentare. Da allora Miozzi non ha risposto e non ha espresso nessuna valutazione. Soltanto la tenacia e l’impegno di Lorenzo Dalai ha permesso la discussione in Consiglio Provinciale e l’approvazione all’unanimità del progetto.
Con l’attuazione del progetto si realizza una collaborazione ed integrazione proficua tra la Provincia, l’Università ed il territorio nell’interesse delle comunità locali.

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