martedì 25 giugno 2013

Diego Zardini: dissesto idrogeologico

Non è facile per un neo parlamentare proporsi come classe politica nazionale per risolvere i problemi locali. Diego ha dimostrato di essere sensibile ai problemi ambientali e di non essere pervaso da localismi strumentali offrendo una testimonianza ed un messaggio: i problemi delle comunità locali vanno affrontati con una visione di carattere nazionale per avere una risoluzione positiva.
Il deputato Diego Zardini è intervenuto alla Camera dei Deputati a sostegno della mozione presentata dal Partito Democratico sul dissesto idrogeologico.
Si riporta l’intervento.
"Con la mozione che abbiamo presentato e che oggi ci apprestiamo a discutere, affrontiamo uno dei temi più importanti per quanto riguarda l’incolumità di milioni di italiani che vivono, spesso in modo scarsamente consapevole, in aree esposte al rischio di dissesto idrogeologico.
Infatti sono 6.633 i comuni in pericolo per la fragilità del suolo del proprio territorio. Tradotto in cifre significa che 8 comuni su 10 sono a rischio.
Prevenire, contenere e ridurre tali rischi è un obbligo che definirei etico per chi governa il paese ed amministra i territori.
Come evidenziato nella mozione la tutela e la sicurezza del territorio italiano, unitamente alla tutela delle acque, rappresentano un interesse prioritario della collettività, senza dimenticare che il suolo è una risorsa ambientale non riproducibile, la cui trasformazione produce effetti permanenti su ambiente e paesaggio.
La fragilità del territorio italiano appare evidente col susseguirsi di eventi che ormai presentano tempi di ripetizione sempre più brevi.
Da nord a sud il nostro paese è colpito da frane, valanghe ed eventi alluvionali che peraltro, oltre a divenire via via più frequenti, diventano anche più intensi e più dannosi, coinvolgendo aree agricole di pregio, centri urbani, aree produttive e importanti infrastrutture.
La ragione di tale fragilità è senz’altro legata alla particolare conformazione geologica del territorio italiano, ad una particolare natura dei suoli che lo compongono ed alle variazioni climatiche che favoriscono eventi meteorologici davvero estremi, tuttavia la situazione è acuita da una presenza umana e da una antropizzazione sconosciuta in altri paesi, anche confrontandola con paesi industrializzati ed europei. Considerando il rischio quale stretto legame, e più precisamente il prodotto, tra la probabilità che si verifichi un evento derivante da un pericolo, che è intrinseco nella natura del nostro territorio, ed il danno, che è misurato quantificando i costi di ripristino e risarcimento dei danni che un evento può procurare, appare evidente come l’aumento del rischio per entrambi i fattori abbia cause umane assolutamente incontestabili.
Tuttavia non si è fino ad ora data sufficiente rilevanza, quale causa via via preponderante, che produce un aumento del pericolo, ad un particolare intervento umano.
Infatti è certificato che il consumo di suolo nel nostro Paese è cresciuto a ritmi devastanti, con centinaia di migliaia di ettari all’anno di suolo divorato dalla cementificazione; si è assistito, negli ultimi decenni, ad una crescita continua dell’urbanizzazione, al diffondersi di una cementificazione spesso incontrollata, all’artificializzazione di corsi d’acqua minori, alla sottrazione di aree libere, agricole e boschive.
Tutto questo ha un preciso effetto, ovvero impermeabilizza il suolo e aumenta a dismisura la velocità di deflusso delle acque meteoriche, aumentando la potenza dei corsi d’acqua, dando loro una forza distruttiva che altrimenti avrebbero in misura inferiore. Ciò ha maggiore impatto sui corsi d’acqua minori e a carattere torrentizio, quelli che per tale ragione hanno avuto minori attenzioni, minore manutenzione, diventando fattore moltiplicatore del rischio.
In definitiva una inadeguata e dannosa pianificazione territoriale da parte degli stessi enti preposti alla gestione del territorio ed il ricorso agli oneri di urbanizzazione per sostenere spesa corrente nei bilanci comunali, hanno privatizzato il suolo, espropriandolo del suo valore di bene in grado di avere una pubblica utilità.
Tale pratica così scarsamente lungimirante ha avuto picchi che definirei estremi in molte parti del paese, ma specialmente nella mia Regione, il Veneto e con particolare gravità nella mia Provincia,Verona, che ben conosco grazie al ruolo di consigliere provinciale che ho ricoperto fino a qualche mese fa.
In provincia di Verona il 15 per cento della superficie,ovvero oltre 45mila ettari, è «artificializzata» quindi resa impermeabile dall´edificato e dalle infrastrutture, in maniera disomogenea ma che coinvolge tutto il territorio. Il 23 per cento della superficie provinciale (79.216 ettari), in particolare in area collinare e montana, è sottoposta a vincolo idrogeologico. In queste aree, su ben 2.450 ettari si è costruito, naturalmente con permessi in deroga alla normativa.
Il 12,66 per cento (39.206 ettari) della superficie provinciale è stata perimetrata dal Piano territoriale regionale di coordinamento come aree allagate nelle alluvioni degli ultimi 60 anni, che coinvolgono oltre 30 comuni tra le aree montane e quelle di pianura. Il 12 per cento di queste superfici è edificato e abitato, quindi inevitabilmente e regolarmente sottoposte a nuovi eventi alluvionali con grave rischio per le popolazioni che le abitano. Se escludiamo le poche case rurali o i piccoli nuclei abitativi preesistenti, edificati nelle aree in rilievo e mai in fondo valle o in aree a ristagno idrico, la maggior parte degli insediamenti è avvenuta negli ultimi venti trent´anni, con un legittimo permesso a costruire rilasciato dalle pubbliche amministrazioni locali.
Nonostante tutto questo sia riconosciuto ormai non solo dalle associazioni ambientaliste ma addirittura dall’ANCE e dal Presidente della Regione, altre migliaia di ettari saranno a breve cementificati, in particolare 20 milioni di metri quadrati per l’area sudovest, area agricola di pregio dove viene prodotto il riso vialone nano diventeranno Motor City, un autodromo con centro commerciale e parco divertimenti, centro logistico e centro agroalimentare.
Anche i recenti eventi alluvionali che nelle ultime settimane sono tornati a colpire diverse aree del nostro paese, dall’Emilia Romagna e alla Liguria, ma anche e ripetutamente la Toscana, le Marche, la Campania, la Sicilia dimostrano quanto il problema del dissesto idrogeologico non sia più un’emergenza ma un problema vivo, quotidiano che necessita da parte nostra un cambio di passo se intendiamo davvero risolverlo.
Il Veneto è stato nuovamente colpito, imprevedibilmente al di fuori dalle consuete stagioni, lo scorso 16 maggio. Oltre ad una infinità di casi minori, è la terza grande alluvione dopo quelle del novembre 2010, del marzo 2011. Stavolta oltre ai consueti danni economici all’agricoltura, al tessuto produttivo e alle residenze private, oltre al dramma di vedere ancora una volta le famiglie evacuate e costrette a lasciare le proprie abitazioni, c’è stata anche la perdita di vite umane.
Il Presidente della Regione ha decretato lo stato di crisi e richiesto la dichiarazione dello stato di emergenza, calcolando in quasi 200 milioni i danni del solo evento di maggio di quest’anno che vanno ad aggiungersi a quelli procurati dagli eventi precedenti.
Tuttavia il Piano straordinario degli interventi individuati dal Comitato tecnico–scientifico incaricato al Commissario dopo l’alluvione del 2010, presieduto dal Prof. D’Alpaos, tra interventi di emergenza e interventi strutturali, calcolerebbe in oltre due miliardi di euro le risorse per una vera messa in sicurezza del territorio Veneto.
Uno degli obbiettivi di questa mozione è quella di superare una distorsione della logica, ovvero che la politica di tutela del territorio continua a destinare le risorse disponibili, comunque scarse, quasi esclusivamente all’emergenza, al posto di una effettiva opera di prevenzione e messa in sicurezza del territorio.
Non è razionale ad esempio che tra il 1999 ed il 2008 siano stati spesi 58 miliardi di euro per la difesa del suolo, la riduzione dell’inquinamento e l’assetto idrogeologico, ma di questi oltre il 50 per cento è stato assorbito dalle spese di parte corrente e solo 26 miliardi di euro siano stati destinati ad investimenti per la prevenzione dei rischi.
Gli stanziamenti destinati alla difesa del suolo ed alla riduzione del rischio idrogeologico, iscritti nei bilanci di previsione degli ultimi anni, indicano pesanti riduzioni di risorse, facendo venir meno la certezza di poter disporre delle risorse necessarie a politiche di prevenzione, che hanno bisogno di continuità per poter essere efficaci.
Tuttavia la scarsa sensibilità della politica nei confronti delle azioni di manutenzione e prevenzione che hanno comportato una insufficienza cronica di risorse, una insufficienza di pianificazione, si sono sommati ad un altro grave deficit relativo alla governance istituzionale nel settore delle politiche per la difesa del suolo, con un eccesso di frammentazione e sovrapposizione di competenze, che talvolta accompagnate da scarsa attenzione da parte delle pubbliche amministrazioni ed incomunicabilità istituzionale hanno prodotto errori, omissioni, scarichi di responsabilità che senza dubbio hanno aumentato il rischio, sia dal lato della probabilità che dal lato del danno.
A livello nazionale paghiamo a caro prezzo, la mancanza di unitarietà delle azioni di difesa del suolo e di gestione della risorsa idrica; l’adeguamento alle normative comunitarie avrebbe necessariamente richiesto la definizione di ruoli e competenze che sono ancora confuse tra i vari livelli centrali e periferici, con l’effetto di offuscare la catena delle responsabilità; l’attuale revisione dei livelli istituzionali e la diversa attribuzione di funzioni in materia di pianificazione territoriale di scala vasta e di tutela delle risorse ambientali rischiano, peraltro, di creare nuove criticità;
Spesso su uno stesso corpo idrico minore ci sono diverse competenze, di enti diversi che portano alla paralisi degli interventi e ad una mancanza di responsabilità circa la manutenzione e la prevenzione, con gravi ripercussione sul livello di rischio.
Nel programma di miglioramento delle politiche di difesa al rischio idrogeologico è fondamentale non limitarsi a contemperare le esigenze di sicurezza con quelle ecologiche ed economiche, l’azione dovrebbe mirare a riconsiderare il modello di sviluppo mediante scelte avvedute circa la destinazione e l’uso del suolo.
Punti caratterizzanti di tale programma sono:
- la ricostruzione ecologica dei corsi d’acqua;
- lo sfruttamento dei processi di qualificazione dell’agricoltura come cura e presidio del territorio;
- l’introduzione dell’analisi economica nei processi decisionali, al fine di realizzare gli interventi che portano maggior beneficio alla collettività;
- l’assunzione, nel quadro degli scenari di cambiamento, anche dei cambiamenti climatici;
- la promozione di politiche di adattamento piuttosto che il ricorso ad interventi strutturali;
- la valorizzazione di pratiche di partecipazione e coinvolgimento del pubblico nella ricerca di scelte.
Un altro elemento di innovazione proposto dalla nostra mozione, valido tanto più in un momento di insufficienza di disponibilità di risorse pubbliche, è il nuovo ruolo in materia di rischi da eventi naturali che potrebbe e forse dovrebbe avere in Italia il mercato assicurativo. Ad oggi offre la garanzia per rischi da catastrofi naturali come estensione della garanzia base incendio, ma tale offerta è più diffusa nelle polizze alle imprese e più rara per i privati. Servirebbe una forte promozione per la diffusione di una moderna cultura che tenga conto del rischio da catastrofi naturali e dei suoi drammatici effetti, dei costi umani, sociali ed economici, e in tale ottica è da ritenere indispensabile un incisivo intervento dello Stato che affianchi e renda più conveniente e sostenibile per i cittadini i costi di un sistema di copertura assicurativa volontaria degli edifici; andrebbero pertanto incoraggiate forme di trasferimento dei rischi catastrofali sul modello di quanto accade in altri Paesi, quale la Francia, dove vige un regime assicurativo semi obbligatorio che vede lo Stato nel ruolo di riassicuratore di ultima istanza.
Appare palese come archiviare l’attuale sistema di intervento a riparazione del danno, invece di interventi preventivi che sarebbero molto più efficaci ed economicamente sostenibili, sia una priorità per il nostro paese, aggiungendo inoltre che un piano strutturale di messa in sicurezza e di manutenzione del territorio atto a ridurre il rischio idrogeologico, può portare un po’ di fiato al sistema economico favorendo l’occupazione, per farlo occorre mettere nelle condizioni gli enti locali interessati di cantierare quei tantissimi interventi medio-piccoli che hanno la maggiore efficacia, ma per farlo occorre rivedere le regole del patto di stabilità interno che oggi impediscono la realizzazione di interventi fondamentali sul fronte della prevenzione;
Per tali ragioni la mozione chiede al Governo un fattivo impegno per affrontare con grande determinazione il problema del rischio idrogeologico puntando su una adeguata pianificazione dell’uso del suolo, investendo maggiori risorse sulla prevenzione, riconoscendo all’agricoltura un ruolo strategico e favorendo buone pratiche colturali nei terreni più a rischio.
Infatti solo una intelligente miscela di politiche lungimiranti ed a largo spettro ci consentiranno di ridurre i rischi cui sono esposti milioni di italiani, salvaguardando il nostro territorio e alla fine riducendo i costi necessari ad affrontare i danni provocati non solo da una natura inclemente, ma soprattutto dall’insipienza dell’uomo.
Solo la nostra intelligenza, lungimiranza e determinazione potranno dare alle prossime generazioni un futuro più sereno".

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domenica 23 giugno 2013

Diego Zardini e Alessia Rotta: Banche dati Inps condivise da Ater

L’impegno di Diego Zardini e Alessia Rotta prende in considerazione i problemi locali collocandoli in un quadro nazionale di miglioramento delle PA beneficio dei cittadini: i tempi lunghi di definizione delle prestazioni di invalidità civile dell’Ussl di Bussolengo, la mancata trasparenzadei provvedimenti dell’Azienda Ospedaliera di Verona, i compensi  ai docenti dipendenti delle PA, la Governance dell’Inps ed ultima la condivisione delle informazioni in possesso dell’Inps.
I deputati del Partito Democratico Diego Zardini e Alessia Rotta hanno presentato una interrogazione al Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione ed al Ministero del lavoro e delle politiche sociali al fine di consentire alle aziende pubbliche regionali Ater di accedere alle Banche dati dell’Inps per controllare le autocertificazioni presentate dai cittadini che richiedono determinati servizi.
“Lo stato complessivamente considerato, dichiara Diego Zardini, è ricco di dati ed informazioni se organizzate, elaborate e condivise rappresentano una fonte di vantaggio competitivo per il sistema delle PA per contrastare alcuni fenomeni come l’evasione fiscale e la corruzione.  Nel caso dell’interrogazione presentata dal sottoscritto e da Alessia Rotta permetterebbe all’Ater di Verona e delle altre Province di controllare le autocertificazioni dei cittadini con i dati contributivi e reddituali in possesso dell’Inps al fine di impedire illeciti vantaggi per ottenere l’assegnazione di alloggi e stabilire l’importo del canone di locazione rapportato al reddito”.
“Ritengo, afferma Alessia Rotta, che questa interrogazione vada nella direzione di due istanze particolarmente sentite dai cittadini: l'alleggerimento della burocrazia a favore di una maggiore trasparenza e pertanto equità. La mole di dati e informazioni possedute dall'INPS possono costituire un utile antidoto a eventuali dichiarazioni fasulle o tentativi di corruzione. Non si capisce pertanto cosa possa ostare all'accesso di questi dati da parte di Ater di Verona”.
Non si può da una parte obbligare gli enti pubblici ad effettuare i controlli delle autocertificazione e dall’altra impedire loro tale obbligo non consentendo l’accesso ai dati ed alle informazioni in possesso delle PA. Questa è una contraddizione che va sanata al più presto possibile per contrastare la burocrazia delle PA e per rendere più efficiente ed efficace il sistema pubblico.
Si riporta integralmente l’interrogazione.
Al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Per sapere – premesso che: 
l'Istituto nazionale della previdenza sociale per le attività che svolge e per i servizi che eroga possiede ed accumula dati e informazioni, organizzati in banca dati, molto importanti e strategiche per il sistema in rapporto agli obiettivi che le articolazioni dello Stato perseguono;
i dati e le informazioni dell'Inps se organizzati, integrati ed elaborati assumono rilevanza e facilitano l'attività dello Stato e degli enti pubblici al fine di verificare l'autenticità delle dichiarazioni effettuate dai cittadini. Molti problemi gestionali (velocità del processo e veridicità delle dichiarazioni) potrebbero essere risolti se le informazioni elaborate dall'Inps potessero essere condivise dal sistema delle pubbliche amministrazioni; 
l'Inps ha realizzato una molteplicità di accordi con i comuni allo scopo di integrare i servizi previdenziali con altri tipi di servizi nei punti cliente costituiti dagli enti locali, realizzando così, insieme ai comuni ed altri enti, una strategia integrata e condivisa di erogazione dei servizi, la quale si è rilevata efficiente, efficace e diffusa nel territorio con un'elevata soddisfazione da parte dei cittadini, i quali recandosi in un unico ufficio possono usufruire dei servizi erogati da enti diversi;
la politica descritta di integrazione e condivisione dei dati e delle informazioni non è prevista per tutti gli enti che hanno finalità pubbliche. Infatti, le Aziende territoriali per l'edilizia residenziale pubblica (ATER) di Verona e delle altre province venete non sono autorizzate ad accedere a tali informazioni allo scopo di verificare la veridicità delle autocertificazioni presentate dai cittadini;
le Ater, istituite con legge della Regione Veneto 9 marzo 1995, n. 10 e sostitutive degli Istituti autonomi case popolari (IACP), sono enti pubblici economici dotati di personalità giuridica e di autonomia organizzativa, patrimoniale e contabile, hanno sede nel capoluogo di ogni provincia veneta ed operano nel territorio della stessa nel settore dell'edilizia residenziale pubblica;
l'accesso alle banche dati dell'Inps è utile per contrastare le eventuali dichiarazioni mendaci e le eventuali azioni di corruzione da parte dei cittadini interessati al fine di ottenere l'assegnazione degli appartamenti di proprietà delle Ater e stabilire una congrua corresponsione del canone di locazione parametrato alla capacità contributiva e reddituale. Il medesimo problema potrebbe riguardare le altre regioni in rapporto al modello organizzativo scelto;
le informazioni di cui necessitano le Ater riguardano l'attività lavorativa dei lavoratori dipendenti ed autonomi e precisamente la contribuzione ed i relativi redditi derivanti da lavoro dipendente, da lavoro agricolo dipendente, da lavoro autonomo (artigiani, commercianti e coltivatori diretti) e dall'indennità di cassa integrazione guadagni e di disoccupazione allo scopo di verificare i redditi dichiarati nelle autocertificazioni per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e per l'attribuzione del canone di locazione –:
se non ritengano necessario realizzare un processo di condivisione delle informazioni in possesso dell'Inps a favore delle altre Pubbliche amministrazioni per il buon andamento dei servizi pubblici erogati dalle Pubbliche amministrazioni stesse e per contrastare le dichiarazioni mendaci eventualmente rilasciate dai cittadini interessati, considerato il controllo delle autocertificazioni disposto per legge;
se non reputino urgente mettere in condizioni le Ater di Verona e le province venete di effettuare i controlli sulle autocertificazioni, previsti dalle attuali disposizioni di legge, attraverso l'accesso alle Banche dati dell'Inps e la consultazione delle contribuzioni, dei redditi e delle prestazioni di cassa integrazione guadagni e di disoccupazione dei lavoratori dipendenti ed autonomi per contrastare eventuali tentativi di corruzione allo scopo di usufruire illegittimamente dell'erogazione di servizi (assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e attribuzione del canone di locazione rapportato al reddito)”.

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giovedì 20 giugno 2013

Rubinato Simonetta: accesso libero alla rassegna stampa

Simonetta Rubinato, deputata del PD, ha presentano una interrogazione alla Presidenza del Consiglio, sottoscritta anche dalle deputate Sandra Zampa, Gribaudo Chiara e Alessia Rotta, finalizzata a rendere pubblica la rassegna stampa del Parlamento. Le deputate chiedono che il Presidente Letta avvii nuovamente il tavolo presso il dipartimento per l’informazione e l’editoria per definire un accordo con le associazioni degli editori, comprese anche le istituzioni pubbliche.
Si riporta l’interrogazione.
“l'attività di «rassegna stampa», secondo quanto prescritto dalla convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie del 1886 che ne riconosce la liceità, è «un insieme di citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo»;
sino al 14 marzo 2013 i cittadini hanno avuto la possibilità di consultare varie rassegne stampa, on line, tra le quali anche quella della Camera dei deputati, opportunità che ha certamente contribuito alla realizzazione concreta della libertà di informazione prevista dalla nostra Carta Fondamentale;
la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale conferma infatti che la libertà di informazione di cui all'articolo 21 contempla pure un profilo passivo, che va identificato nel diritto a ricevere notizie e quindi nel diritto ad essere informati, comprendente pure l'interesse del cittadino a ricercare informazioni;
le rassegne stampa concorrono con la loro attività a rendere possibile l'esercizio del diritto di informare ed essere informati, si pensi ad esempio alla valenza del diritto di rettifica;
l'accesso libero alle rassegna stampa negli ultimi 15 anni ha sicuramente contribuito ad agevolare l'effettiva partecipazione da parte di migliaia di cittadini all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e le rivendicazioni della Federazione Italiana Editori Giornali appaiono poco chiare specie per quanto riguarda l'oscuramento degli archivi delle rassegne stampa pregresse che rappresentano fonte informativa preziosa per cittadini e studiosi «italiani e stranieri» e che nulla hanno a che fare con i cali delle vendite dei quotidiani;
va considerato altresì che i cittadini, attraverso la fiscalità generale contribuiscono al finanziamento dell'editoria;
la legislazione per la tutela del diritto d'autore risale al 1941 e non appare al passo coi tempi e l'evoluzione dei mass media;
il comparto delle società che offrono servizi di rassegna stampa rappresenta un'importante risorsa per una pluralità di soggetti e le aziende italiane che offrono questo servizio hanno realizzato nel corso del 2012 un giro d'affari di 40 milioni di euro occupando circa 600 dipendenti in totale;
il DIE, Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio, aveva organizzato nel novembre 2011 un tavolo tecnico per concordare un compenso equo tra editori e società di rassegna stampa che non fosse in contrasto con i diritti ad essere informati e di informare, tavolo tecnico a cui aveva invitato editori (Fieg, Uspi, Fisc, Anes, Mediacoop), giornalisti (FNSI) e assorassegne stampa;
il settore delle rassegne stampa ha recentemente ribadito di essere disponibile a riconoscere un compenso all'editoria per il materiale trattato, seppure questo non sia previsto, ma con «garante pubblico» a tutela appunto della libertà di informazione di cui all'articolo 21 della Costituzione;
la licenza rilasciata da PROMOPRESS s.r.l., società di cui FIEG detiene oltre il 97 per cento, consentirebbe di inserire in rassegna stampa solo le testate che hanno conferito un mandato alla stessa, che ad oggi risultano essere solo il 6 per cento dell'intero settore;
la discrezionalità della gestione della suddetta società e della revoca della licenza a inserire una testata nelle rassegne stampe, potrebbe comportare grave danno al diritto di essere informati ed informare, specie nelle rassegne stampa dei siti istituzionali –:
se non ritenga necessario avviare nuovamente il tavolo tecnico presso il dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri per la definizione di un accordo sulle regole per l'accesso pubblico alle rassegne stampa con le Associazioni degli Editori ivi comprese quelle delle istruzioni pubbliche;
se non ritenga utile prevedere iniziative normative che identifichino un ente unico collettore dell'equo compenso per gli editori, capace di assicurare terzietà ed unificare la raccolta dei compensi e la copertura di tutti i soggetti interessati, come la SIAE”.

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sabato 15 giugno 2013

Diego Zardini e Alessia Rotta: Governance Inps

I deputati Diego Zardini e Alessia Rotta hanno presentato una interrogazione al Ministro del lavoro e delle politiche sociali ed al Ministro dell’economia e delle finanze per sottoporre il caso dell’Inps, il quale a partire dal  mese di maggio 2010 è gestito da un uomo solo al comando, il presidente dell’Istituto, che accumula i poteri del Consiglio di Amministrazione. Inoltre, i due deputati hanno sottoposto ai ministri la possibilità di ridurre i membri del  consiglio di indirizzo e vigilanza e  di ripensare i ruoli e le funzioni tra gli organi dell’Istituto. Diego Zardini e Alessia Rotta hanno chiesto ai Ministri “di valutare, in termini di opportunità e di efficienza,  la molteplicità di incarichi ricoperti dal presidente dell'Inps”. 
“Il recupero di credibilità tra le istituzioni ed i cittadini, affermano Zardini e Rotta nell’interrogazione, avviene anche attraverso la gestione democratica e trasparente delle articolazioni dello Stato; l'attuale gestione monocratica dell'Inps non contribuisce, a parere dei proponenti, a rafforzare la fiducia nelle istituzioni e amplia la possibilità di effettuare delle scelte non in sintonia con gli obiettivi di carattere sociale che l'ente persegue”.  
Si riporta integralmente l’interrogazione dei deputati Diego Zardini e Alessia Rotta.
Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. 
Per sapere – premesso che: 
il recupero di credibilità tra le istituzioni ed i cittadini avviene anche attraverso la gestione democratica e trasparente delle articolazioni dello Stato; l'attuale gestione monocratica dell'Inps non contribuisce, a parere dei proponenti, a rafforzare la fiducia nelle istituzioni e amplia la possibilità di effettuare delle scelte non in sintonia con gli obiettivi di carattere sociale che l'ente persegue; 
negli ultimi anni l'Inps ha subito delle considerevoli modifiche in materia di governance: il decreto-legge n. 78 del 2010 ha trasformato la gestione commissariale dell'ente in una gestione monocratica, attribuendo le competenze del soppresso consiglio di amministrazione al Presidente; inoltre, le funzioni dell'Inpdap e dell'Enpals, a decorrere dal 1o gennaio 2012, sono state incorporate nel medesimo Istituto, allo scopo di migliorare il sistema di welfare in termini di efficienza con i risparmi di gestione previsti e di efficacia con l'incremento della qualità servizi pubblici attraverso l'integrazione delle funzioni previdenziali ed assistenziali in un unico ente; 
a seguito dell'incorporazione degli enti soppressi, l'Inps è chiamato ad amministrare circa 33.556 mila dipendenti, con un onere finanziario di 2.014 milioni, 23 milioni di occupati (99,3 per cento dei lavoratori), 18 milioni di pensionati, per un importo di circa 229 miliardi di euro per il relativo pagamento (14,49 per cento del prodotto interno lordo del 2011) e 4,5 miliardi di spese di funzionamento (1,56 per cento delle spese istituzionali). Da un confronto con gli istituti previdenziali europei risulta che il nuovo Inps rappresenta il più grande ente previdenziale dell'Europa; 
nella precedente legislatura il Ministro del lavoro e delle politiche sociali pro tempore si era assunto l'impegno di presentare un nuovo modello di governance per gli istituti previdenziali ed assistenziali ed a seguito della discussione delle mozioni dei deputati Silvano Moffa e Donata Lenzi; su tale argomento è stata approvata nel mese di maggio 2012 una mozione unitaria dalla Camera dei deputati al fine di superare l'attuale fase di gestione monocratica dell'Inps;
la Corte dei conti, nella sua relazione del novembre 2011, ha espresso evidenti perplessità sulla gestione monocratica dell'Inps; nonostante tali valutazioni la concentrazione dei poteri nella figura del presidente dell'Inps prosegue in assenza di una concreta presa di posizione finalizzata a superare il metodo dell'uomo solo al comando e a realizzare una gestione democratica trasparente, efficace e partecipata nell'Istituto, ripristinando l'organo previsto nelle imprese private e pubbliche: il consiglio di amministrazione. A parere degli interroganti, la gestione monocratica del presidente, il cui mandato scade il 31 dicembre 2014, ha espresso degli evidenti limiti, evidenziati dal ricorso a numerose consulenze esterne, onerose e pervasive, relativamente a problematiche che potevano essere gestite ad avviso degli interroganti utilizzando le competenze e le capacità esistenti all'interno dell'Inps; 
la riconsiderazione seria e responsabile degli organi dell'Inps e delle loro competenze può essere utile per rilanciare la strategia dell'Istituto e perseguire gli obiettivi di carattere sociale che fanno capo all'Istituto stesso. Inoltre, occorre riflettere sulle nuove competenze del consiglio di indirizzo e vigilanza, composto da 24 membri designati dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi –: 
se non ritengano necessario, per quanto di propria competenza, assumere iniziative per ridefinire la governance dell'Inps, anche agevolando, per quanto di competenza, l'iter della proposta avanzata al riguardo dal Partito democratico (atto Camera 556), che preveda, tra l'altro, la presenza del consiglio di amministrazione – così come avviene in tutte le imprese pubbliche e private, tenendo conto che l'istituto gestisce servizi essenziali per i cittadini e per lo Stato e una quantità notevole di risorse finanziarie – e, in tale quadro, valutare l'opportunità di prevedere una riduzione del numero dei componenti dei suoi organi – quale, a esempio, il consiglio di indirizzo e vigilanza – nonché una più netta ed efficiente distinzione di ruoli e funzioni tra i medesimi; 
come valutino, in termini di opportunità e di efficienza, la molteplicità di incarichi ricoperti dal presidente dell'Inps.

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venerdì 14 giugno 2013

Lettera aperta a Epifani e Speranza

Caro Guglielmo, caro Roberto,

abbiamo deciso di aprire un confronto a viso aperto con voi sul passaggio difficile che il nostro paese e il partito che abbiamo contribuito a fondare stanno vivendo. A partire da una premessa: noi sosteniamo il lavoro che state mettendo in campo, in condizioni difficili ed eccezionali, sul fronte del partito e in parlamento. Il risultato dei ballottaggi, pur in un quadro di astensionismo molto oltre i livelli di guardia, restituisce alla nostra gente un pezzo di quella fiducia persa nell’avvio drammatico di questa legislatura. Ma il sostegno al vostro lavoro e i risultati elettorali non possono farci tacere di fronte ad errori palesi che si sono commessi e che si continuano a commettere nel nostro partito rispetto ai quali ci sentiamo di fare tre considerazioni.
1) Superare le correnti è diventata la dichiarazione più frequente di ogni dirigente del partito democratico. Ma l’appartenenza a vecchie filiere, spesso ormai prive di significato politico, rimane invece il criterio esclusivo che guida le scelte nell’attribuire ruoli nel partito. E lo è stato anche in parlamento dove non sono stati valorizzati ad esempio i tanti parlamentari, portatori di competenze, democratici liberi, eletti con le primarie e che attraverso questo meccanismo di selezione hanno rinsaldato un rapporto con l’elettorato e i territori che il porcellum ha definitivamente cancellato. Il pluralismo politico e culturale è un valore a patto che non si trasformi in una sommatoria di compartimenti stagni, meccanismo esclusivo per la spartizione delle cariche. Il partito sul territorio e più in generale il nostro elettorato non si riconosce, ormai da tempo, in questa fotografia e sta a noi restituire un quadro più realistico di cosa è oggi effettivamente la nostra comunità politica, superando ora e non al congresso, uno stato di correntismo asfittico che rischia di soffocare il partito. Costruiamo da subito l’anagrafe delle competenze tra gli eletti. Chiediamoci chi sa fare che cosa, prima di qualsiasi domanda sulle appartenenze.
2) Abbiamo votato la fiducia al governo delle larghe intese. L’abbiamo fatto responsabilmente ma con addosso una ferita che difficilmente potrà rimarginarsi e che non riusciamo a motivare negli incontri con i nostri militanti ed elettori. Questo governo non nasce da una fatalità. Sono stati commessi errori irreversibili e abbiamo aspettato, invano, di ascoltare in queste settimane un’autocritica piena. Lo diciamo pensando anche che Pierluigi Bersani abbia pagato più di tutti e forse più del dovuto. I nomi dei 101 che ogni singolo militante ed elettore ci chiedono quotidianamente forse non li conosceremo mai. Ma ci sentiamo di rigettare con forza la tesi, che spesso abbiamo ascoltato, secondo la quale il disastro sia stato generato dalla irresponsabilità dei deputati alla prima legislatura e non, come crediamo, da vecchi rancori mai sopiti. Oggi sosteniamo lealmente il governo Letta e pensiamo che in questa vicenda il Pd debba fare il Pd. Dobbiamo marcare cioè una nostro profilo, in aula, nel lavoro delle commissioni e fuori dal parlamento, che sia chiaro. Senza autocensure per timori, spesso infondati, che dire delle cose “democratiche” possa far cadere il governo. Non ci interessa la competizione mediatica. Siamo interessati ai contenuti, alle cose da fare, alle risposte che giovani e meno giovani disoccupati da nord a sud, piccole e medie imprese, mondo della scuola, i ceti più deboli, aspettano e si aspettano da noi. Dividiamo il lavoro dei gruppi parlamentari in macroaree, mettiamo ordine all’iniziativa parlamentare, apriamo una discussione in anticipo sui temi più sensibili e facciamola vivere contemporaneamente nei nostri circoli e nel paese.
3) Siamo interessati al percorso congressuale ma siamo anche molto preoccupati che non lo si stia mettendo sui giusti binari. Fare un congresso aperto non può essere solo un problema di regole, che pure sono importanti. Il tema è se vogliamo che si parli, da subito, dei contenuti, dei nodi che per anni non abbiamo sciolto. Non ci riconosciamo nella telenovela mediatica sul nostro partito che racconta solo di posizionamenti strumentali attorno a questo o a quel leader. Promuoviamo da subito alcune tappe di avvicinamento al congresso per avviare una discussione seria, con circoli ed elettori su tre grandi questioni: il ruolo dei partiti e il grande tema della rappresentanza in questa difficile transizione democratica, il modello di sviluppo e la visione di paese nel nuovo quadro europeo, la prospettiva istituzionale e le riforme per far diventare l’Italia una democrazia partecipata e che decide.
Cari Guglielmo e Roberto vi scriviamo tutto questo non perché siamo professionisti del disagio interno, di quelli che pensano che gli avversari politici siano sempre dentro il partito. Lo facciamo perché non vogliamo restare inerti in un passaggio lacerante per il progetto a cui crediamo e che pensiamo sia l’unico possibile in questo momento, quello del Partito Democratico. Ci mettiamo a disposizione per un contributo positivo e di proposta e da noi troverete sempre dialogo e sostegno ma ci aspettiamo coraggio, condivisione e innovazione nelle scelte difficili che abbiamo davanti. Il paese sta soffrendo e noi vogliamo essere percepiti dagli italiani non come coloro che aggravano questa sofferenza ma come chi sta facendo quotidianamente lo sforzo per contribuire ad alleviarla.



Arlotti, Bargero, Beni, Berlinghieri, Capozzolo, Carella, Cenni,Cimbro, Cocci, Decaro, D’Ottavio, Fabbri M., Fossati, Gadda, Galli C., Gribaudo, Guerra, Guerini G., Incerti, Iori, Laforgia, Maestri, Malpezzi, Manfredi, Manzi, Marzano, Miccoli, Morani, Moretti, Mura, Pastorino, Patriarca, Rocchi, Rostan, Rotta, Sanna, Scuvera, Simoni, Tentori, Tidei.




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martedì 11 giugno 2013

Fabbrica Futuro Nord Est

Idee e strumenti per l’impresa manifatturiera di domani 

Si riparte dal manifatturiero. Come più volte ricordato dal Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, l’unica leva in grado di tamponare le emorragie di una crisi che ha messo in ginocchio l’intero sistema economico è rappresentato dal manufacturing.

Este, casa editrice che fin dal 1955 è impegnata a fianco delle aziende per divulgare cultura organizzativa secondo lo stile anglosassone, organizza un appuntamento dedicato a chi crede che ancora una speranza di crescita sia possibile nonostante gli scivoloni della fantapolitica.

Appuntamento a Verona il prossimo 27 giugno con Fabbrica Futuro Nord Est, un evento dedicato a chi fa impresa investendo capitali, passione e speranza in un progetto che vede nel valore della produzione il futuro di questo Paese.

I numeri registrati alla prima edizione dell’evento, che si è svolta il 6 marzo a Bologna, confermano più che un segnale di svolta. Dei 315 iscritti, infatti, oltre 200 sono intervenuti al Convegno. Il dato testimonia l’interesse al tema e la necessità di confrontarsi su come portare concretamente innovazione nel mondo manifatturiero.

Il convegno di Verona ospiterà contributi di manager e imprenditori che rappresentano aziende manifatturiere di ‘eccellenza’, contributi di accademici (in prevalenza appartenenti al comitato scientifico di Fabbrica Futuro) e contributi di rappresentanti di aziende che offrono prodotti, servizi, soluzioni, consulenza per il mercato manifatturiero.

Il pubblico di riferimento è composto da imprenditori e da manager della direzione generale, delle direzioni tecniche (produzione, logistica, ricerca e sviluppo, ecc.), della direzione commerciale e marketing di aziende manifatturiere di medio/grande dimensione.

Ti aspettiamo a Verona!

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lunedì 10 giugno 2013

Emergenza Energia

Intervista a Federico Testa, docente di Economia e gestione dell’impresa presso l’Università degli Studi di Verona ed esperto del settore energetico
La separazione della rete gas di Snam dall’Eni, sostenuta nella passata legislatura da Lei e da Enrico Morando, quali effetti positivi ha prodotto nel paese?
Separare dal punto di vista proprietario la rete di trasporto nazionale del gas dal principale operatore nell’importazione e nella vendita significa garantire la vera terzietà ed indipendenza della gestione della rete, che essendo un asset strategico e non replicabile è lo snodo principale per garantire l’esistenza di un mercato concorrenziale. Cosa tanto più importante in un Paese come il nostro, dove il gas è anche la principale fonte di produzione dell’energia elettrica, e quindi gioca un ruolo fondamentale per la competitività delle imprese.
Quali sono le cause che determinano un costo alto dell’energia rispetto agli altri competitori internazionali con conseguenze gravi per i consumatori e per le imprese?
Le ragioni dell’alto costo dell’energia possono a mio avviso essere fatte risalire ad un complesso di non-scelte, o scelte parziali, di cui è stata protagonista la classe dirigente del nostro Paese nel dopoguerra. L’ideologizzazione della scelta sul nucleare, la concentrazione su un’unica fonte primaria (il gas), per di più in una situazione di mercato scarsamente trasparente e poco competitiva, con il sostanziale abbandono del carbone, il tardivo sostegno alle rinnovabili in qualche modo “espiato” con incentivi troppo alti e concentrati su fonti rispetto alle quali non si è fatta crescere una filiera produttiva italiana, ci hanno portato ad un costo dell’energia certamente più caro dei competitors, con le evidenti conseguenze in termini di praticabilità della sopravvivenza di alcuni settori manifatturieri. E’ quindi certamente urgente intervenire per allineare il costo dell’energia a quello degli altri paesi.
Quali sono le sue proposte per allineare il costo dell’energia a quello dei competitori internazionali e superare questo gap che incide negativamente nella competitività delle imprese?
Credo che ora si imponga una riflessione che, nel perseguimento dello sviluppo al massimo potenziale delle fonti rinnovabili nel nostro Paese, consenta anche:
- di ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi opportuno concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- di favorire l’incentivazione di impianti rinnovabili che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo: quindi basta ad impianti che si sostengono solo grazie a incentivi troppo generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sé speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura;
- di aprire una discussione su cosa va in bolletta e cosa va in tassazione generale (evidentemente situazione economica permettendo): voci come i regimi tariffari speciali per le ferrovie od altre di natura più generica andrebbero infatti spostate a carico del bilancio dello stato;
conseguentemente, di decidere chi paga e chi no in bolletta, individuando innanzitutto le priorità di politica industriale (settori energivori/di base, rilevanti per la competitività di sistema ed esposti a concorrenza internazionale), a cui concedere le agevolazioni, con una selezione di merito che consenta di superare quindi gli attuali criteri quantitativi;
- di chiedere ai produttori di energia rinnovabile di farsi carico degli oneri di bilanciamento del sistema, dotandosi (singolarmente o in forma associata) delle necessarie strutture di accumulo, così da fornire l'energia "piatta”, con continuità. Accumuli che se invece predisposti da Terna o Enel finirebbero necessariamente in bolletta, e quindi pagati ancora una volta prevalentemente da famiglie e PMI;
- di spingere sullo sviluppo della generazione distribuita ad alta efficienza (così da minimizzare i costi di produzione), individuando un nuovo paradigma di sistema elettrico che superi il modello di produzione accentrata ed i conseguenti costi in infrastrutture, consentendo progressivamente di ridurre i costi di trasporto,  dispacciamento e bilanciamento;
- di collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo. L’energia da fonti rinnovabili dovrà essere gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid): ne sono la dimostrazione i costi di trasmissione e dispacciamento, quadruplicati (!!!!!) dal 2004 al 2012, vuoi per la remunerazione riconosciuta a Terna, vuoi perché le rinnovabili sono discontinue e aumentano gli oneri di bilanciamento del sistema;
- di accelerare gli investimenti di interconnessione con gli altri paesi europei, al fine di valorizzarne le peculiarità del mix produttivo e valorizzare appieno l’efficienza e la flessibilità del nostro parco di cicli combinati, che ben si presta a modulare le produzioni meno flessibili di altri paesi.

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Emergenza Lavoro

Intervista a Pietro Ichino,  senatore di Scelta Civica per l’Italia e docente di Diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Milano, pubblicata su Sistemi e Impresa n. 5 – luglio/agosto 2013
Professor Ichino, il nostro Paese è posizionato a un livello di disoccupazione insopportabile per le conseguenze sociali che i cittadini vivono. Quali sono le sue proposte per incrementare l’occupazione giovanile e avviare una svolta reale su tale emergenza?
Il tasso di disoccupazione giovanile è del 25 per cento superiore al tasso di disoccupazione generale. Questa differenza è dovuta alle difficoltà peculiari della transizione fra scuola e lavoro. Alle quali si deve porre rimedio con misure specifiche di assistenza intensiva al giovane in difficoltà in questa fase iniziale della sua vita professionale. È quanto è previsto dal programma Youth Guarantee promosso dall’Unione Europea e al quale dovremo dare puntuale applicazione.
Più precisamente?
Occorre che ogni Regione istituisca un vero osservatorio del mercato del lavoro, che non si limiti a riciclare i dati forniti dall’Istat e da altre fonti, ma rilevi puntualmente e direttamente gli skill shortages, cioè i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera adatta, e rilevi in modo sistematico i tassi di coerenza fra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi la ha ricevuta. Sulla base di questi dati devono poi essere organizzati servizi di assistenza intensiva per chi è in difficoltà nel mercato del lavoro, strettamente connessa con la formazione mirata specificamente alle occasioni di lavoro esistenti. Per esempio valorizzando i servizi di outplacement con un sistema di vouchers, finanziato con il contributo del Fondo Sociale Europeo.
E per la parte del problema che accomuna giovani e lavoratori maturi?
Occorre innanzitutto ridurre drasticamente il cuneo fiscale e contributivo che fa sì che il costo del lavoro per l’azienda sia doppio rispetto alla retribuzione netta che il lavoratore percepisce. Poi occorre consentire che per i primi due o tre anni il rapporto si risolva senza controlli giudiziali sul motivo e con un costo di separazione basso per l’impresa, facendo poi crescere gradualmente questo costo negli anni successivi. Solo così si può ottenere che il contratto a tempo indeterminato torni a diventare la regola, invece che l’eccezione. Io propongo anche una nuova disciplina del contratto a termine, che sostanzialmente lo liberalizza entro i primi tre anni di durata del rapporto, ma lo equipara a quello a tempo indeterminato per quel che riguarda il costo di separazione.
Ci sono progetti di legge già presentati in questo senso?
Ho presentato, con gli altri senatori di Scelta Civica, un disegno di legge – n. 555/2013 - che contiene tutte queste nuove norme, proponendole non come riforma generale della materia, ma come oggetto di sperimentazione che può essere attivata dall’impresa ma non è obbligatoria. I tempi dell’iter parlamentare potrebbero anche essere molto brevi, se la coalizione di Governo decidesse di far sua questa proposta.
Il tasso di occupazione femminile in Italia è basso rispetto agli altri paesi europei. Nella scorsa legislatura lei ha presentato un interessante disegno di legge. In questa legislatura come intende intervenire per affrontare tale problematica?
Ho ripresentato quello stesso disegno di legge, sottoscritto da tutti i colleghi del mio gruppo: è il n. 247/2013. Delinea un’“azione positiva” incisiva per l’aumento del tasso di occupazione femminile, che è ancora lontano dall’obiettivo del 60%. Alla misura di natura fiscale, consistente in una detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile, si aggiunge, per la prima volta, un esperimento condotto secondo un rigoroso metodo scientifico, per misurare con precisione gli effetti dell’incentivo economico.
In questo periodo quasi tutti parlano e si confrontano sull’Imu. Ritiene che sia un argomento prevalente ed importante per uscire dalla crisi rispetto ad altre emergenze o rappresenta il giusto prezzo da pagare per mantenere in vita il Governo Letta?
Su questo punto condivido integralmente i suggerimenti che ci vengono dall’Unione Europea e dalle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia: per rimettere in moto un Paese bloccato, occorre detassare prioritariamente chi produce, ovvero i redditi di lavoro e di impresa. Solo in un secondo tempo andrebbe detassato chi possiede, ovvero ridotte le imposte patrimoniali. Capisco però i motivi squisitamente politici che costringono il Governo Letta a incominciare con la riduzione dell’IMU.

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Emergenza Impresa

Intervista a Paola De Micheli, vicepresidente vicario del Gruppo Pd alla Camera, pubblicata su Sistemi e Impresa n. 5 – luglio/agosto 2013
L’Italia vive una crisi molto grave e complessa senza precedenti e la luce in fondo al tunnel della crisi non si intravede. Vuole raccontare le difficoltà  che incontrano le imprese nel contesto competitivo nazionale e globale?
Siamo tutti consapevoli del fatto che l’Italia attraversa la crisi economica più profonda dalla fine della seconda guerra mondiale. I numeri sono impietosi nel 2012: il Pil è caduto del 6,9 per cento rispetto al 2007, mentre il reddito disponibile delle famiglie del 9,5. Le ragioni di questo crollo sono soprattutto legate alla domanda interna, che riflette la contrazione della spesa delle famiglie e delle imprese.  A questo si aggiungono le pessime condizioni nell’offerta di credito, sempre più restrittiva e ciecamente selettiva. La profonda recessione che coinvolge l’Italia riflette fattori esterni (quali le tensioni finanziarie sui mercati internazionali), l’azione sui conti pubblici e le debolezze strutturali del nostro sistema economico. Questi numeri drammatici rendono chiaro, quindi, come al grande sforzo di risanamento sin qui fatto debba ora necessariamente accompagnarsi l’improcrastinabile rilancio dello sviluppo del Paese. Senza una nuova stagione di sviluppo anche il faticoso risanamento rischierà di essere vanificato. Per le imprese così è una fatica avere ordini, una scalata essere pagati. Un miraggio ottenere credito per qualunque ragione. Solo lo sviluppo può rispondere al drammatico rischio di desertificazione industriale che attanaglia il nostro Paese.
Quali interventi urgenti occorre prendere per sostenere la imprenditorialità nazionale e avviare la fase della crescita?
La questione fondamentale è il lavoro. Bisogna innanzitutto ridurre le tasse sul lavoro, in particolare su quello stabile e quello per i giovani neoassunti per togliere in questo modo dalla precarietà e dare certezza soprattutto alle nuove generazioni. Un importante passo è stato già compiuto fin qui dal governo Letta con il rifinanziamento di un miliardo della cassa integrazione in deroga per il 2013.
Occorre, poi, in tempi rapidi predisporre una nuova politica fiscale per la casa, che limiti gli effetti recessivi in un settore strategico come quello dell’edilizia privata.  La scelta del governo di prorogare gli incentivi per le ristrutturazioni e di innalzare al 65% i contributi per l’efficientamento energetico è un altro importante tassello per sostenere le politiche di sviluppo e di rilancio dell’economia. Si tratta, infatti, di un meccanismo automatico, rapido ed efficace per valorizzare investimenti e innovazione. Molto importanti sono anche gli incentivi per l’arredamento che concretizzano l’impegno preso dal Pd a sostegno degli imprenditori del made in Italy.
Tra gli interventi più urgenti è indispensabile, inoltre, proseguire col pagamento dello stock debito delle p.a.; rinunciare con ogni sforzo all’inasprimento dell’Iva, che deprimerebbe ancora di più i consumi; aumentare le dotazioni del Fondo centrale di garanzie per le piccole e medie imprese e del Fondo di solidarietà per i mutui. E continuare con più decisione nell’ammodernamento del sistema energetico con liberalizzazioni e investimenti, per recuperare un incredibile gap di costi accumulati negli ultimi 20 anni.
Gli imprenditori italiani sono poco propensi ad investire in particolar modo in innovazione e ricerca e, quindi, occorrono investimenti esteri per aumentare la ricchezza nazionale. Quali condizioni occorre realizzare per attrarre gli investimenti delle imprese straniere in Italia?
Il primo passo è, a nostro avviso, chiedere all’Europa di fare di più per la crescita. Dobbiamo chiedere che si dia seguito al Growth Compact e non solo al Fiscal Compact, che l’Europa faccia di più per promuovere gli investimenti, attuando finalmente la golden rule. Quindi politiche industriali di filiera, rilancio, attraverso meccanismi di esclusione dal patto di stabilità, di alcune indispensabili investimenti pubblici, senza compromettere il processo di risanamento della finanza pubblica. Per essere competitivi e riuscire ad attrarre gli investimenti stranieri è fondamentale mettere in atto una strategia complessiva che comprenda: la semplificazione della macchina della Stato, per renderla più agile ed efficiente, una riforma della giustizia civile, leggi più stringenti contro la corruzione che falsa le normali regole del mercato, una lotta senza quartiere contro la criminalità organizzata, una rete di infrastrutture più moderna e adeguata e soprattutto la diminuzione del costo del lavoro.

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Trasparenza e diritto alla conoscenza

Dal sito http://www.fainotizia.it/inchiesta/03-06-2013/diritto-alla-conoscenza-degli-atti-pubblici-che-punto-siamo

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martedì 4 giugno 2013

Imprese: investire nelle persone

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 4 giugno 2013
Ogni giorno che passa questo governo sembra dare ragione a chi sostiene che sembra essere incapace di avviare le riforme necessarie per fare ripartire la nostra economia. Proposte palliative sul lavoro. Passi indietro sulle poche lenzuolate lanciate in passato prima da Pier Luigi Bersani e poi da Mario Monti, come quella sacrosanta sulla liberalizzazione degli orari di apertura. Tutti segnali che non fanno ben sperare. In questo contesto chi guida le imprese italiane oggi rischia di trovare validi alibi per immobilizzarsi definitivamente aspettando che lo Stato paghi i suoi debiti e che le banche incomincino di nuovo a fare credito. Eppure esiste una grande opportunità per i migliori imprenditori e manager di partecipare attivamente a quella che sarà una selezione quasi darwiniana delle imprese italiane nei prossimi 5 anni.
Oggi in Italia abbiamo diverse centinaia di imprese medie che guadagnano e sono poco indebitate, se ne sono altrettante che perdono e/o hanno troppi debiti. Sono le prime quelle su cui puntare, le altre devono sparire, in gran parte assorbite dalle più forti. Ma per realizzare questo cambiamento sarà necessaria una trasformazione epocale del capitalismo italiano che oggi è incapace di fare finire le imprese in mano agli azionisti che valorizzano di più le risorse finanziarie e umane a loro disposizione.
Il capitale finanziario non è mancato (soprattutto quello bancario, perché gli imprenditori italiani sono quelli che meno hanno investito nelle proprie imprese): le imprese italiane hanno investito più di quelle tedesche, che però sono cresciute molto di più. Soprattutto, le imprese italiane hanno sfruttato male le risorse umane a loro disposizione. Lo dicono i loro lavoratori nei sondaggi di Great Place to Work («l'azienda per cui tutti vorrebbero lavorare»): si lamentano della mancanza di meritocrazia (solo un terzo di loro dice che «le promozioni vanno a chi se le merita di più», contro due terzi del personale delle multinazionali in Italia); in troppi dicono che non vengono valorizzati dall'azienda per cui lavorano (la metà sostiene che non vengono loro offerte opportunità di sviluppo professionale, contro il 20 per cento nel caso delle multinazionali) e denunciano la mancanza di spirito di collaborazione. E le rare imprese italiane che partecipano al sondaggio sono quelle più sensibili al problema, perché le altre non se lo pongono nemmeno.
Senza investimenti nelle risorse umane non bisogna stupirsi che l'innovazione ristagni e che nel 2012 le imprese italiane siano il fanalino di coda nell'utilizzare l' e-commerce per vendere e comprare online (meno di un quarto delle tedesche e inglesi, la metà delle spagnole e francesi). Alla fine si ritorna all'annoso problema, quello del capitalismo famigliare all'italiana che si preoccupa più della famiglia che dell'impresa. Il 50 per cento delle grandi aziende quotate è a controllo familiare contro il 25 per cento delle tedesche e delle francesi. I vincoli alla crescita che questa situazione comporta sono stati enormi. Per esempio le aziende italiane non hanno potuto sfruttare le acquisizioni che sono uno strumento chiave per crescere. È triste che nel 2012 il protagonista italiano nelle operazioni di acquisizione delle imprese italiane sia stata la Cassa depositi e prestiti (70 per cento delle acquisizioni sono state fatte con i suoi capitali). E la presenza della famiglia italiana non è solo troppo invasiva nel capitale delle aziende ma anche nel loro management: più del 40 per cento delle posizioni apicali delle grandi imprese italiane è ricoperto da membri della famiglia contro il 6 delle tedesche e il 20 delle francesi. E se la famiglia italiana è invasiva nelle grandi imprese, dilaga nelle medie e nelle piccole i cui consigli di amministrazione sono piene di famigliari e di consulenti della azienda (con enormi conflitti di interesse) e figli e cugini pullulano ovunque nel management quando non si incontrano a Capri e Santa Margherita alle riunioni dei «giovani imprenditori» della Confindustria. Non è con questi azionisti e questa governance e leadership che le imprese italiane più forti riusciranno a crescere. Se ne parla da anni, ma il redde rationem sembra essere arrivato.
Le opportunità di approfittare di questa imminente «selezione della specie» nel mondo delle imprese italiane sono enormi e la attesa di un governo che faccia ripartire dopo 20 anni la nostra economia non deve scoraggiare i futuri leader del capitalismo italiano che verrà.

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lunedì 3 giugno 2013

Il futuro dei giovani

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 31 maggio 2013
Anche se «fondata sul lavoro», la nostra Repubblica ha sempre fatto molta fatica ad offrire opportunità di occupazione ai propri cittadini. Quando fu approvato l’articolo 1 della Costituzione, gli italiani attivi erano solo cinquanta su cento, uno dei valori più bassi d’Europa. Persino durante il miracolo economico i posti di lavoro totali crebbero di poco: si espanse l’industria, ma si contrasse l’agricoltura. Da allora l’occupazione è aumentata, ma non abbiamo raggiunto i livelli degli altri Paesi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro femminile. La grande crisi ha fatto esplodere il fenomeno della disoccupazione giovanile. Nell’intervista rilasciata a Clemente Mimun, direttore del Tg5, il presidente Napolitano ha ricordato che non si tratta di una piaga solo italiana. Ma nel nostro Paese i giovani restano disoccupati più a lungo, hanno difficoltà a ottenere contratti stabili, sono vittime di «cicatrici» destinate a pesare nei loro percorsi di vita: un tratto davvero allarmante, come ha rilevato ieri l’Ocse. Inoltre, il 20% dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni (il triplo rispetto alla Germania e quasi il doppio rispetto alla Francia) non «fa nulla»: non risulta iscritto a scuola o a corsi di formazione, non ha un lavoro e non lo sta cercando. Alcuni si arrangiano nel sommerso, ma il problema resta grave. Secondo stime della Ue (2011), la mancata formazione e occupazione di questi giovani è uno spreco economico enorme, quantificabile in 500 milioni di euro a settimana in termini di mancata crescita. Sulle politiche pubbliche che servirebbero per affrontare la questione giovanile si sono già detti e scritti fiumi di parole.
Il nuovo governo ripone molte speranze nella cosiddetta «garanzia giovani» raccomandata dalla Ue: fare in modo che ogni ragazzo riceva una qualche offerta concreta di lavoro o formazione entro quattro mesi dalla fine della scuola o dall’inizio della disoccupazione. Insieme a Hollande e Rajoy, il premier Letta ha chiesto all’Europa di mettere più risorse a disposizione dei Paesi membri, anche scorporando le spese necessarie (come quelle relative ai servizi per l’impiego o agli incentivi all’apprendistato) dal deficit pubblico. Gli schemi di «garanzia giovani» funzionano da tempo, e con successo, nei Paesi nordici. Ma il mercato del lavoro italiano è lontano anni luce dai suoi omologhi del Nord. Come primo passo, forse potremmo sperimentare uno strumento meno ambizioso, recentemente introdotto in Finlandia. Si chiama Chance Card (carta opportunità), viene data ai giovani che si trovano in maggiore difficoltà occupazionale, assicura priorità d’accesso ai servizi per l’impiego e di formazione e dà titolo a un bonus contributivo alle imprese che li assumono. La via maestra per aiutare i giovani resta tuttavia l’apprendistato. È su questo fronte che occorre investire (in soldi e in organizzazione), coinvolgendo scuole e imprese, perfezionando le regole introdotte dalla riforma Fornero e prevedendo nuove forme di stabilizzazione contrattuale flessibile per i neoassunti. Il presidente Napolitano ha giustamente osservato che l’articolo 1 della Costituzione va considerato come un «principio regolatore» a cui dovrebbero uniformarsi tutti gli attori politici e sociali.
È un’esortazione da prendere sul serio e che concretamente potrebbe assumere due forme. Sul piano delle decisioni politiche, governo e Parlamento dovrebbero impegnarsi a stimare e illustrare gli effetti occupazionali di ogni provvedimento di politica economica e sociale. Sul piano delle relazioni industriali, sindacati e datori di lavoro dovrebbero a loro volta inaugurare una nuova stagione di concertazione «creativa», capace di elaborare progetti innovativi su sviluppo e competitività, il cui principale metro di valutazione sia, appunto, la creazione di nuovo impiego. Abbiamo un pesante handicap storico da superare. Per riuscirci dobbiamo trasformarlo in una sfida nazionale, come fu l’ingresso nella moneta unica. Allora ce la facemmo. Con un nuovo colpo di reni e molto impegno, possiamo farcela anche oggi. A patto di provarci seriamente.

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domenica 2 giugno 2013

Turismo Veneto dalla frammentazione all’integrazione

Si riporta il comunicato della conferenza stampa dei consiglieri regionali Roberto Fasoli e Franco Bonfante sulla nuova legge sul Turismo
“E’ stato determinante il contributo del PD nell’inserire le proposte più innovative ed in linea con le tendenze del turismo internazionale all’interno della nuova legge sul turismo approvata quasi all’unanimità (3 soli gli astenuti dal Consiglio Regionale il 30 maggio scorso.
Il relatore di minoranza, Roberto Fasoli, e tutto il gruppo consigliare del PD, coadiuvati da uno staff di esperti del settore, si sono fatti interpreti sia dei nuovi approcci alla gestione del turismo sia delle istanze provenienti dal territorio, dagli operatori e dai lavoratori di quello che è uno dei comparti trainanti dell’economia nazionale e veneta. Il lavoro preparatorio è durato due anni e molteplici sono state le occasioni di confronto costruttivo che hanno permesso di raccogliere osservazioni e proposte che si sono tradotte in emendamenti alla proposta di legge ed hanno permesso di migliorarla in modo significativo.
La governance del settore, la sua gestione a livello di destinazioni, la promozione per ambiti tematici,  l’innovazione e la qualificazione dell’offerta ricettiva, sono stati – insieme all’attenzione per la specificità del bellunese – al centro delle proposte e degli emendamenti presentati dai consiglieri PD in sede di dibattito e recepiti dal voto dell’aula.
In particolare tra le finalità si è impegnata la Regione Veneto a raccordarsi con l’organizzazione turistica nazionale e con le altre regioni e ad affiancare, sempre, nella promozione a livello internazionale, il marchio” Italia” al marchio “Veneto”; questo perché in una competizione sempre più globale bisogna potersi rapportare in modo diversificato a seconda dell’ampiezza e della distanza dei mercati.
A livello territoriale si è voluto   Italia e per le destinazioni turistiche  balneari, montane, lacuali, termali e d’arte che lo hanno reso attrattivo a livello internazionale. Grazie alle proposte del PD le destinazioni potranno essere organizzate e gestite secondo i moderni concetti del destination management senza per altro imporre alcuna soluzione giuridica o burocratica-amministrativa calata dall’alto, ma favorendone l’organizzazione bottom up (dal basso) attraverso un corretto ed equilibrato rapporto tra soggetti pubblici e privati che possa portare alla nascita di vere e proprie Organizzazioni di Gestione delle Destinazioni o DMO (Destination Management Organisation). I nuovi soggetti potranno così garantire una gestione unitaria e coordinata delle funzioni di informazione, accoglienza, assistenza turistica e promo-commercializzazione fino ad oggi gestite separatamente tra pubblico  e privato, saldando una antistorica frattura fra macro e micro marketing turistico.
Sul versante dell’offerta ricettiva si è contribuito a definire ed affermare anche in Veneto l’Albergo diffuso come forma di accoglienza alternativa che tende ad evitare lo spopolamento di aree di montagna, borghi e isole, attraverso il recupero dei centri storici.
Si è anche posto rimedio al problema di quella parte di offerta turistica che rischiava di sfuggire alla definizione di ricettività e quindi di non rapportarsi in modo adeguato nei confronti del turista e degli altri soggetti della filiera, affrontando, in particolare, il tema dei B&B e dgli appartamenti in affitto.
La specificità del bellunese, area di confine, è stata riconosciuta ai sensi del nuovo Statuto regionale anche per le materie turistiche,  affidate, con questa legge, completamente al territorio.
Infine, un emendamento del PD che mirava a recuperare – in tutto o in parte – il personale licenziato, dalle aziende/società provinciali che hanno gestito le funzioni di informazione , accoglienza, assistenza turistica e promozione locale è stato tradotto in Ordine del Giorno approvato dal Consiglio, ma soprattutto in un impegno formale dell’Assessore Finozzi a inserire nei provvedimenti attuativi della legge una formulazione che preveda che i soggetti gestori delle attività di informazione ed accoglienza turistica nell’individuazione del personale assegnato al servizio, siano incentivati a considerare la professionalità e l’esperienza maturate dal personale  proveniente dalle strutture che hanno gestito le funzioni di informazione, accoglienza,assistenza turistica e promozione locale per conto delle Province con qualsiasi tipo di contratto.
Un lavoro quello del PD che ha consentito, pur da posizioni e con ruoli distinti da quelli della Giunta e della maggioranza, di apportare significative modifiche e miglioramenti ad un testo di legge con luci ed ombre, ma che nella versione approvata appare più rispondente alle esigenze e alle aspettative di tutti gli attori del settore.
A Verona con questa leggge si aprono grandi possibilità. Per il Garda e per la città e l’insieme della provincia è possibile costituire in breve tempo delle realtà organizzate che mettano assieme la Provincia, la Camera di Commercio, i comuni, le associazioni datoriali, le organizzazioni sindacali, i consorzi di imprese, coinvolgendo anche altri importanti soggetti come Aeroporto, Fiera, Fondazione Arena, per una gestione integrata dell’intera filiera turistica offrendo, in collaborazione con la Regione, una gamma completa di servizi di qualità che ci permetterebbe di competere al meglio con le principali destinazioni turistiche a livello nazionale e internazionale e di porci all’avanguardia a livello regionale.
E’ una sfida che Verona può e deve raccogliere e alla quale come PD intendiamo dare il nostro contributo portando a compimento il positivo lavoro di confronto con le istituzioni, con le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali, svolto in questi ultimi due anni per arrivare nel modo migliore alla nuova legge sul turismo. Ora spetta alla Giunta Regionale emanare al più presto le disposizioni attuative, raccordarsi con la programmazione nazionale anche attraverso un immediato confronto con i ministeri del Turismo/Cultura e con quello dello Sviluppo Economico, mettere a disposizione risorse adeguate”.

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