martedì 4 giugno 2013

Imprese: investire nelle persone

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 4 giugno 2013
Ogni giorno che passa questo governo sembra dare ragione a chi sostiene che sembra essere incapace di avviare le riforme necessarie per fare ripartire la nostra economia. Proposte palliative sul lavoro. Passi indietro sulle poche lenzuolate lanciate in passato prima da Pier Luigi Bersani e poi da Mario Monti, come quella sacrosanta sulla liberalizzazione degli orari di apertura. Tutti segnali che non fanno ben sperare. In questo contesto chi guida le imprese italiane oggi rischia di trovare validi alibi per immobilizzarsi definitivamente aspettando che lo Stato paghi i suoi debiti e che le banche incomincino di nuovo a fare credito. Eppure esiste una grande opportunità per i migliori imprenditori e manager di partecipare attivamente a quella che sarà una selezione quasi darwiniana delle imprese italiane nei prossimi 5 anni.
Oggi in Italia abbiamo diverse centinaia di imprese medie che guadagnano e sono poco indebitate, se ne sono altrettante che perdono e/o hanno troppi debiti. Sono le prime quelle su cui puntare, le altre devono sparire, in gran parte assorbite dalle più forti. Ma per realizzare questo cambiamento sarà necessaria una trasformazione epocale del capitalismo italiano che oggi è incapace di fare finire le imprese in mano agli azionisti che valorizzano di più le risorse finanziarie e umane a loro disposizione.
Il capitale finanziario non è mancato (soprattutto quello bancario, perché gli imprenditori italiani sono quelli che meno hanno investito nelle proprie imprese): le imprese italiane hanno investito più di quelle tedesche, che però sono cresciute molto di più. Soprattutto, le imprese italiane hanno sfruttato male le risorse umane a loro disposizione. Lo dicono i loro lavoratori nei sondaggi di Great Place to Work («l'azienda per cui tutti vorrebbero lavorare»): si lamentano della mancanza di meritocrazia (solo un terzo di loro dice che «le promozioni vanno a chi se le merita di più», contro due terzi del personale delle multinazionali in Italia); in troppi dicono che non vengono valorizzati dall'azienda per cui lavorano (la metà sostiene che non vengono loro offerte opportunità di sviluppo professionale, contro il 20 per cento nel caso delle multinazionali) e denunciano la mancanza di spirito di collaborazione. E le rare imprese italiane che partecipano al sondaggio sono quelle più sensibili al problema, perché le altre non se lo pongono nemmeno.
Senza investimenti nelle risorse umane non bisogna stupirsi che l'innovazione ristagni e che nel 2012 le imprese italiane siano il fanalino di coda nell'utilizzare l' e-commerce per vendere e comprare online (meno di un quarto delle tedesche e inglesi, la metà delle spagnole e francesi). Alla fine si ritorna all'annoso problema, quello del capitalismo famigliare all'italiana che si preoccupa più della famiglia che dell'impresa. Il 50 per cento delle grandi aziende quotate è a controllo familiare contro il 25 per cento delle tedesche e delle francesi. I vincoli alla crescita che questa situazione comporta sono stati enormi. Per esempio le aziende italiane non hanno potuto sfruttare le acquisizioni che sono uno strumento chiave per crescere. È triste che nel 2012 il protagonista italiano nelle operazioni di acquisizione delle imprese italiane sia stata la Cassa depositi e prestiti (70 per cento delle acquisizioni sono state fatte con i suoi capitali). E la presenza della famiglia italiana non è solo troppo invasiva nel capitale delle aziende ma anche nel loro management: più del 40 per cento delle posizioni apicali delle grandi imprese italiane è ricoperto da membri della famiglia contro il 6 delle tedesche e il 20 delle francesi. E se la famiglia italiana è invasiva nelle grandi imprese, dilaga nelle medie e nelle piccole i cui consigli di amministrazione sono piene di famigliari e di consulenti della azienda (con enormi conflitti di interesse) e figli e cugini pullulano ovunque nel management quando non si incontrano a Capri e Santa Margherita alle riunioni dei «giovani imprenditori» della Confindustria. Non è con questi azionisti e questa governance e leadership che le imprese italiane più forti riusciranno a crescere. Se ne parla da anni, ma il redde rationem sembra essere arrivato.
Le opportunità di approfittare di questa imminente «selezione della specie» nel mondo delle imprese italiane sono enormi e la attesa di un governo che faccia ripartire dopo 20 anni la nostra economia non deve scoraggiare i futuri leader del capitalismo italiano che verrà.

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