lunedì 29 luglio 2013

Acli per il reddito di inclusione sociale

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 26 luglio 2013
La proposta è quella di chiamarlo “Reis”: Reddito di Inclusione Sociale. Le ACLI hanno elaborato un interessante progetto per introdurre nel nostro welfare un tassello mancante, volto ad aiutare i più poveri. Si tratta di una prestazione monetaria accompagnata da un programma mirato di inserimento lavorativo o formativo.
C’è bisogno di un simile schema? Si, per due motivi. I nostri livelli di povertà sono fra i più alti d’Europa, soprattutto sulla scia della crisi. E il sistema di protezione sociale è privo di una “rete di sicurezza”. Eccettuata la pensione sociale per chi ha più di 65 anni, tutti gli altri tipi di sussidio pubblico sono di natura “categoriale” (invalidità, non autosufficienza) oppure dipendono dalla buona grazia e dalle disponibilità finanziarie dei comuni, che hanno ormai le casse vuote.
Come si fa a stabilire chi è veramente povero? Il metro è la soglia di povertà “assoluta” calcolata dall’Istat. Per due genitori e due figli piccoli, la cifra varia tra 980 e 1415 euro al mese, a seconda del comune di residenza. Sono i soldi necessari per l’alimentazione, l’abitazione e il vestiario, calcolati secondo standard minimi di sussistenza e di decoro. Chi richiede il sussidio, di importo pari a quanto serve per raggiungere la soglia, deve rispettare il nuovo ISEE: uno strumento disegnato per misurare in modo accurato la situazione economica delle famiglie, evitando imbrogli o favoritismi. L’Istat calcola che le famiglie assolutamente povere siano circa il 6,8% del totale (la quota sale al 9.8% al Sud, scende al 5,5% al Nord).
Il rischio dei sussidi di povertà è che creino “assistenzialismo”, premiando quelli che non si rimboccano le mani onestamente. In linea con le migliori esperienze europee, la proposta ACLI prevede però condizioni molto precise per accedere e mantenere la prestazione, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità al lavoro e alla formazione professionale. Nessun “pasto gratis” insomma, ma un piuttosto un “trampolino” per tornare a camminare con le proprie gambe, anche con l’aiuto del terzo settore e dei privati.
Per far sì che tutti i poveri raggiungano la soglia di consumo “decente” bisognerebbe investire circa 6 miliardi l’anno: le ACLI propongono di arrivarci per gradi entro in quattro anni. E’ vero, ci sono i vincoli di bilancio. Ma manteniamo il senso delle proporzioni. Solo per le pensioni di invalidità civile spendiamo circa 12 miliardi. E per le deduzioni e detrazioni fiscali più di 100 miliardi l’anno. Fra gli “assolutamente poveri” c’è almeno mezzo milione di bambini. Che sensibilità (e che futuro) ha un paese che non investe sui propri figli?
I veri ostacoli al progetto sono due. Il primo è culturale: l’idea che ogni euro disponibile vada oggi speso per la crescita e il lavoro. E’ una posizione corretta. Ma anche nei paesi più dinamici ci sono sempre state e sempre ci saranno, purtroppo, sacche di indigenza che non scompaiono spontaneamente e richiedono misure specifiche. Sempre sul fronte culturale, bisogna poi spazzar via l’enorme confusione concettuale che circonda il dibattito italiano su questi temi. Il Reddito di Inclusione Sociale è cosa molto diversa dal reddito di cittadinanza, dal salario minimo, dal sussidio di disoccupazione universale e così via. Le ACLI hanno creato un sito internet (www.redditoinclusione.it), utilissimo a chiarire le idee.
Il secondo ostacolo è organizzativo. Se introdotto, il Reis non sarebbe un regolamento da applicare con mentalità burocratica, ma un programma da gestire con pragmatismo ed efficienza, avendo in mente i risultati. Qui casca l’asino, si dirà. Ma se questo paese non si dà una mossa per riformare la burocrazia, a cadere saremo tutti e soprattutto i nostri figli. Ormai anche molti paesi in via di sviluppo dispongono di schemi tipo il Reis. Se non riusciamo o non vogliamo allinearci all’Europa, cerchiamo almeno di non farci doppiare dal Brasile o dall’Uruguay.

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domenica 28 luglio 2013

La spending review blocca i disabili

L’Inps con determinazione n. 438 del 2 dicembre 2011 ha deliberato, per l’anno 2012, l’assunzione di n. 250 unità disabili in area B/B1 da distribuire sul territorio nazionale(18 nel Veneto e 5 nell’Inps di Verona), ha approvato lo schema di convenzione ed ha autorizzato i direttori regionali a stipulare lo schema di convenzione. Dopo tale decisione l’Istituto effettua tutte le fasi del processo di reclutamento (sottoscrizione della convenzione, selezione dei soggetti disabili, richiesta ai soggetti risultati idonei nella selezione della documentazione utile per l’assunzione, presentazione della documentazione richiesta da parte degli dei soggetti idonei) con esclusione della fase finale di assunzione.
Il processo di assunzione viene sospeso perché nel frattempo sono intervenute delle norme che vietano ai datori di lavoro pubblici, tra questi l’Inps, che presentano una pianta organica con personale in eccedenza o soprannumerario di effettuare nuove assunzioni.
Il tempo lungo del processo di selezione e reclutamento (determinazione di novembre 2011 e sospensione di febbraio 2013) ha giocato ingiustamente contro i soggetti disabili. Inoltre, i 495 posti scoperti nell’Inps da destinare ai disabili (45 nel Veneto) non possono essere occupati da altri lavoratori.
Pertanto, Diego Zardini, deputato del Partito Democratico, ha presentato una specifica interrogazione,sottoscritta dai deputati dello stesso partito Vincenzo D’Arienzo, Laura Coccia, Gianni Dal Moro e Alessia Rotta, al fine di salvaguardare le giuste aspettative dei soggetti disabili in attesa di assunzione.
Si riporta per intero il testo dell’interrogazione.
"Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali
- Per sapere – premesso che:
la grave crisi economica e sociale che coinvolge l'Italia impegna il Governo a mettere in atto delle strategie che influiscano positivamente sul livello occupazionale del Paese,con particolare riguardo ai soggetti maggiormente coinvolti dall'emergenza sociale;
tra questi rientrano i soggetti disabili, tutelati dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, avente la finalità di «promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro» (articolo 1); a tal fine, l'articolo 3, comma 1,della medesima legge disciplina le assunzioni obbligatorie e le quote di riserva a favore dei soggetti disabili;
l'Inps con determinazione n. 438 del 2 dicembre 2011 ha approvato lo schema di convenzione previsto dall'articolo 11 della citata legge – che stabilisce le finalità, la programmazione delle assunzioni, i criteri per la selezione dei soggetti disabili, le modalità di attuazione, la sottoscrizione del contratto individuale, la verifica dello stato di attuazione ed altro – autorizzando ciascun direttore regionale a stipulare lo schema di convenzione e approvando, per l'anno 2012, l'assunzione di n. 250 unità di disabili in area B/B1 da distribuire sul territorio nazionale; il prospetto informativo, parte integrante della determinazione, evidenzia una scopertura pari a 495 unità di disabili rispetto alle 250 assunzioni programmate; l'Inps, tramite i direttori regionali dell'Istituto, e le province hanno sottoscritto la predetta Convenzione;
dopo la procedura di selezione dei soggetti disabili, l'Inps comunica ai candidati il risultato della selezione e richiede ai soggetti idonei e collocati in posizione utile nella graduatoria di assunzione la documentazione utile al fine di perfezionare l’iter di assunzione; a tale scopo i soggetti interessati all'assunzione presentano la documentazione richiesta;
per il 2013 l'Inps ha sospeso cautelativamente il processo di assunzione relativo ai soggetti disabili ai sensi della legge n. 68 del 1999, a causa delle modifiche normative ed organizzative intervenute negli ultimi anni relative alla soppressione dell'Inpdap e dell'Enpals a decorrere dal 1o gennaio 2012 e l'attribuzione all'Inps delle relative funzioni (articolo 21 del decreto-legge n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) e alla riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni (articolo 2 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135);
l'Inps, ai sensi dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 95 del 2012 e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 gennaio 2013, ha successivamente rideterminato la dotazione organica dell'Istituto e rilevato la soprannumerarietà del personale in diverse aree rispetto al nuovo organico, tale da non consentire l'attuazione delle procedure di assunzione delle categorie protette nel limite della quote d'obbligo;
inoltre, i tempi lunghi del processo di selezione e reclutamento dei soggetti disabili interessati non ha consentito l'assunzione essendo intervenute nel frattempo alcune disposizioni di legge che vietano alle pubbliche amministrazioni che presentano una situazione di soprannumerarietà e eccedenza di effettuare le assunzioni previste dalla determinazione dell'Inps n. 438 del 2 dicembre 2011;
considerato l'impedimento di procedere all'assunzione dei soggetti disabili, risultanti idonei alle prove di selezione organizzate dall'Inps, nelle aree in cui sono presenti posizioni soprannumerarie, si ritiene urgente accelerare le procedure previste dalle disposizioni vigenti al fine di eliminare le posizioni soprannumerarie e le eccedenze di personale presso l'Inps e consentire l'assunzione dei soggetti in questione. In caso contrario l'obbligo prioritario di assunzione da parte dell'Inps delle quote di disabili diventa aleatorio –:
se non ritenga necessario effettuare una ricognizione nelle pubbliche amministrazioni al fine di conoscere lo stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n. 68, rendendo accessibili le informazioni scaturite dall'accertamento stesso e di intervenire nel caso in cui venga rilevato che gli obblighi della legge a favore dei soggetti disabili non siano stati rispettati;
se non reputi urgente accelerare nelle pubbliche amministrazioni ed in particolare nell'Inps le procedure di mobilità collettiva che presentano situazioni di soprannumero e di eccedenze di personale (articoli 6 e 33 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) e dare attuazione al piano di assorbimento dei soprannumerari entro il 31 dicembre 2014 (articolo 2, comma 11, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135) al fine di non disattendere le giuste aspettative dei soggetti disabili risultati idonei nel processo di reclutamento messo in atto dall'Inps;
se non ritenga necessario valutare la possibilità di effettuare le assunzioni in questione in profili professionali appartenenti ad aree dell'Inps in cui vi sia disponibilità di posti e non posizioni soprannumerarie”.
Diego Zardini ha dichiarato di aver quasi ultimato un disegno di legge allo scopo di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al reclutamento dei disabili ed imporre ai datori di lavoro pubblici di pubblicare sul proprio sito istituzionale le informazioni relative alle quote d’obbligo scoperte a favore delle categorie protette.

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domenica 21 luglio 2013

Ripensare la forma partito

Articolo di Giuseppe De Rita pubblicato sul Corriere della Sera il 20 luglio 2013
È ormai evidente come l'attuale sforzo di ristrutturazione della politica si orienti più ai suoi assetti istituzionali che all'evoluzione della sua dimensione partitica. Siamo un po' tutti speranzosi che i comitati di saggi portino frutti sostanziali sulla configurazione futura dei pubblici poteri; che il metter mano ad alcune crisi gravi (nel federalismo incompiuto come nella incerta revisione delle Province) porti a una precisa ridefinizione del rapporto fra poteri centrali e poteri periferici; che la fatica quotidiana delle larghe intese di governo possa ridare funzionalità fisiologica alla dialettica delle parti in campo; che gli stessi impegni europei ci aiutino a fare ordine nelle decisioni a forte carica istituzionale, dal controllo della spesa al fiscal compact .
La politica sembra quindi volersi rinnovare lavorando su percorsi istituzionali, mettendo in secondo piano la revisione delle sue forme interne, cioè della sua dimensione partitica e delle componenti a essa complementari, dall'associazionismo al movimentismo, alle campagne d'opinione. Su questi aspetti c'è oggi il deserto, basta guardarsi intorno e fare quattro semplici constatazioni: il movimentismo grillino non riesce a tramutarsi in partito e rischia la disarticolazione; l'onda d'opinione per Scelta civica non si consolida in partito e rischia la frammentazione; il berlusconismo resta avventura personale e non si può prevedere se mai finirà per essere partito; e il Pd è attraversato da diverse ambizioni, posizioni e lotte. Le quattro componenti della attuale dialettica politica, in sintesi, non sembrano in grado di ripensare il loro destino partitico; e non ricevono alcun aiuto dalle sedi (le élite come i movimenti di base) tradizionalmente deputate ad alimentare un'avventura partitica.
Fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone cinque scelte decisive. Anzitutto impone qualche aggettivo che dia un senso di condivisione e appartenenza. Non bastano i richiami botanici o stellari o civici, bisogna esprimere quel che si vuole: in fondo nei grandi partiti del passato erano gli aggettivi (comunista o democristiano) a dare l'indispensabile messaggio. In secondo luogo c'è bisogno di individuare il blocco sociale di riferimento: non basta una condivisione d'opinione, necessariamente volatile, bisogna capire di quali componenti sociali si vuole fare interpretazione politica e rappresentanza istituzionale. In terzo luogo serve almeno un'idea di «forma partito» (assembleare, federale, burocratico che si voglia) per sfuggire alle scorciatoie recentemente percorse (l'enfasi sulle primarie, rivelatesi poi prigioniere degli apparati). E da tale necessità ne discende un'altra, quella di definire regole certe e costanti nel tempo; perché senza di esse si naviga a vista e con spinte e controspinte di ogni tipo. E infine, quinta esigenza, c'è bisogno di un programma, magari non di un lungo elenco delle cose da fare, ma di interpretazione e orientamento dei fenomeni e dei processi che attraversano la società italiana in questo momento di intensa e contraddittoria globalizzazione.
Nessuna delle forze politiche oggi in campo si è seriamente esercitata su queste cinque esigenze, e le conseguenze si vedono, così come si vedono le paure di potenziale caos disgregativo. Forse uno sforzo di ripensamento va fatto, magari in parallelo alle revisioni istituzionali oggi di maggior moda.

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martedì 16 luglio 2013

Quale flessibilità nei contratti?

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 15 luglio 2013
Sappiamo che l’Italia dà il meglio di sé in prossimità di importanti scadenze. Expo 2015 è senz’altro una di queste. Si tratta di un evento che ci esporrà alla ribalta internazionale e che può diventare un vero e proprio volano di crescita. E’ dunque urgente creare le condizioni per sfruttare questa opportunità, soprattutto sul fronte dell’occupazione.
Con il cosiddetto «decreto del fare», ora all’esame del Parlamento, il governo Letta ha introdotto maggiore flessibilità per le assunzioni a termine, quelle a cui le imprese impegnate per Expo (direttamente o indirettamente) faranno maggior ricorso nel prossimo triennio.
Confindustria vorrebbe di più: la possibilità di stipulare contratti a termine senza causale specifica, rinnovabili fino a 36 mesi con brevissime interruzioni. I sindacati si oppongono e vorrebbero che fosse la contrattazione (anche aziendale) a definire le regole, per non intensificare il precariato.
La maggioranza è a sua volta divisa. Il Pdl è a favore di una liberalizzazione generalizzata, il Pd sta con i sindacati. Scelta Civica ha formulato invece una sua originale proposta: sperimentare per l’Expo un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato, ma rescindibile dietro il pagamento di una contenuta indennità.
A fronte di queste marcate divisioni dovrà essere il governo a svolgere il ruolo decisivo. Per portare a casa dei risultati non basta però mediare fra le parti, ma occorre uscire dalla logica binaria «precarietà-rigidità» del rapporto di lavoro e spostare l’attenzione su altri aspetti: adeguatezza della retribuzione, continuità del reddito, formazione.
Le statistiche europee (si visiti soprattutto il sito di Eurofound) ci dicono che prima della riforma Fornero in Italia la quota di lavoratori atipici era in linea con la media Ue, più o meno come in Francia e in Germania. Abbiamo anzi finora evitato la proliferazione di contratti ultra-flessibili (come quelli «a zero ore», in cui il lavoratore offre piena disponibilità ma l’impresa non garantisce neppure un’ora di retribuzione) pure molto diffusi in altri Paesi. Di per sé, la flessibilità in entrata non è dunque il problema.
Il precariato all’italiana si contraddistingue tuttavia per tre elementi negativi. Basse retribuzioni, innanzitutto: non abbiamo un salario minimo né sussidi pubblici integrativi per chi riceve retribuzioni inadeguate. In secondo luogo, i contratti atipici danno accesso a un welfare anch’esso «atipico»: meno generoso e più limitato nel tempo rispetto a quello previsto in altri Paesi, Inghilterra compresa.
La cosiddetta «mini-Aspi» introdotta dalla riforma Fornero (un’indennità di disoccupazione per chi svolge lavori saltuari) ha mosso un passo nella giusta direzione, ma è ancora insufficiente. Infine c’è il problema della formazione. Se il dipendente è a tempo determinato, le imprese non investono per migliorare le sue competenze: un problema diffuso in tutta Europa, ma da noi particolarmente marcato.
La scadenza di Expo 2015 può essere utilizzata per affrontare congiuntamente tutte queste sfide. La richiesta di flessibilità da parte delle imprese è comprensibile, ma non può tradursi in assunzioni del tipo «usa e getta». Anche i timori sindacali sono legittimi, ma l’attenzione va spostata dalla forma dei contratti alla loro sostanza ed estendersi a welfare e formazione.
Il governo deve infine mettere sul piatto qualcosa di suo, magari collegando a Expo la prima attuazione della garanzia-giovani o all’uso dei fondi di coesione Ue da riprogrammare. Parafrasando il titolo di un celebre film americano degli anni Novanta, in certe occasioni «It takes three to tango», per ballare il tango si deve essere in tre. In settimana il ministro Giovannini incontrerà le parti sociali. Dovrà esser lui a guidare le danze, difendendo in primo luogo gli interessi di tutti i giovani disoccupati.

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lunedì 15 luglio 2013

L’avventura di Pietro Ichino con la burocrazia

Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 15 luglio 2013
Caro Direttore, la burocrazia che affligge il nostro Paese fa molto danno ai cittadini, ma forse ne fa ancora di più allo Stato stesso che la produce.
Nei mesi scorsi ho ereditato con mio fratello l’appartamento in cui ha abitato mia madre; e lo abbiamo affittato. Da aspirante buon cittadino, decido di andare a registrare il contratto, per poterlo poi indicare nella denuncia dei redditi. L’impiegato che esamina la pratica osserva che sul contratto avrei dovuto apporre due marche da bollo, da 14,62 euro l’una. Vado dunque a comprarle e torno con le marche da bollo; senonché l’impiegato osserva che le marche avrebbero dovuto recare una data anteriore a quella della stipulazione del contratto e ci aggiunge una sanzione di euro 3,65 (ma perché mai, dal momento che la registrazione, per legge, può avvenire fino a 30 giorni dopo la stipulazione?).
A questo punto, l’impiegato rileva che i proprietari sono due: non si può procedere alla registrazione senza che siano presenti entrambi. Ma mio fratello abita in un’altra città! Allora deve inviare una procura perché io possa rappresentarlo. Obietto che, se anche mio fratello non mi avesse incaricato di questo adempimento, lo Stato dovrebbe essere contentissimo del fatto che io lo compia. Niente da fare: occorre la procura. Perché? Perché anche su quella si paga l’imposta di registro: altri 168 euro. E se mio fratello fosse venuto di persona? Altri 168 euro anche in quel caso, senza rimedio. E se mio fratello non ne volesse proprio sapere? L’impiegato non risponde; ma i suoi occhi parlano da soli: “vuole smetterla di formulare ipotesi totalmente estranee a quelle contemplate dal regolamento?”
Chiedo dunque a mio fratello di prendere appuntamento con un notaio per stipulare la procura. Costo: 300 euro per il notaio più i 168 della registrazione dell’atto. Torno quindi all’Agenzia delle Entrate, convinto di avere superato l’ultimo ostacolo. A questo punto viene effettuato il computo dell’imposta di registro da pagare: di base 472 euro. Ma l’impiegato osserva che nel contratto abbiamo inserito una penale – peraltro assai modesta – per il caso in cui l’inquilino ritardi nei pagamenti. Per questa sola clausola aggiuntiva l’imposta di registro aumenta di 168 euro (e se poi non ci saranno ritardi nei pagamenti? non importa: l’imposta aggiuntiva va pagata lo stesso). Insomma, alla fine l’imposta da pagare viene determinata in 640 euro più i 168 per la procura. E mi spiegano che per pagarla devo compilare un modulo F23 e andare a fare il pagamento in Banca.
Eseguito diligentemente anche questo passaggio, torno fiero all’Agenzia delle Entrate con il mio F23 timbrato dalla Banca. Penso dentro di me: “ho pagato, ora devono soltanto prendere atto ed effettuare la registrazione”. Effettivamente, a questo punto l’impiegato prende a digitare intensamente sul suo terminale. Ma subito aggrotta la fronte: “lei ha più di nove proprietà immobiliari”. “No”, rispondo “ne ho solo tre: oltre alla prima casa, un appartamentino in montagna e una casa in Toscana”. Già, ma se si contano anche due pezzetti di terreno che vi sono attaccati, due box e due soffitte di cui una adattata a mansarda, si arriva proprio a nove. E ora con l’appartamento della mamma fanno dieci. Devo riconoscere che l’impiegato ha ragione; ma ancora non comprendo dove voglia andare a parare. Me lo spiega impietosamente lui stesso: chi possiede più di nove unità immobiliari non può fare la registrazione allo sportello; può farla solo per via telematica.
Oddio, e ora come si fa? Mi spiegano che devo andare a un altro sportello per chiedere un codice Pin, necessario per eseguire la pratica on line. Ma mi avvertono anche del fatto che, eseguendo la pratica in questo modo, il pagamento dell’imposta non può essere effettuato per mezzo del modulo F23: va fatto anche quello on line. E io che ha già pagato con l’F23 in banca? Non c’è altro modo per rimediare che quello di chiedere il rimborso e intanto procedere a pagare una seconda volta con l’altro sistema.
Mi sento vessato e persino schernito per questa mia pretesa di registrare da solo ‑ senza consulenti! ‑ un contratto di locazione. In questa gimkana costosissima (più ancora di tempo che di denaro) a cui ho dovuto sottopormi vedo l’arroganza di un’amministrazione fiscale alla quale tutto è dovuto dal cittadino-suddito, mentre nulla essa stessa al cittadino deve: non la semplificazione degli adempimenti che un management minimamente capace e attento al benessere del contribuente onesto dovrebbe essere capace di garantire con intelligenza e sollecitudine; non l’informazione completa e tempestiva che un impiegato minimamente diligente e ben addestrato dovrebbe fornire fin dal primo contatto con il contribuente; non l’attenzione a evitare tutti i piccoli e grandi aggravi degli adempimenti, le piccole e grandi complicazioni gratuite, che costano al cittadino sproporzionatamente di più di quanto rendono allo Stato.
Che stupido, questo Stato! Quanto più volentieri pagheremmo le tasse, se avessimo la sensazione che l’amministrazione pubblica si comporta verso di noi con la stessa diligenza, sollecitudine e buona fede che da noi essa pretende!

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giovedì 11 luglio 2013

PDL contro la Cassazione

Intervento di Alessia Rotta
In merito alla sospensione dei lavori parlamentari di ieri Alessia Rotta, deputata veronese del Partito Democratico, ha scritto una nota su Facebook che io ritengo interessante per riflettere sul metodo di lavoro e sulla democrazia interna al PD.
Per tali motivi riporto integralmente la riflessione di Alessia Rotta ed una mia breve valutazione conclusiva:
“PREMESSE
Non voglio difendere il Pd.
Il peccato originale è il governo delle larghe intese ovvero l'alleanza con il Pdl, che di certo non volevo, non ho sostenuto alla nascita, MA che la maggioranza dei parlamentari Pd, democraticamente eletti con le democratiche primarie ha voluto (vedi elezione del Presidente della Repubblica). Fatto da cui discende un compromesso di dialogo faticoso, accidentato, di cui tutte le settimane, tutte portiamo il peso, nella convinzione dello stato di emergenza sociale ed economica del Paese. Altrimenti, alla faccia di chi pensa che salviamo il nostro posto, avremmo mollato la prese da tempo.
Seconda premessa: Il partito democratico non condivide le sue scelte all'interno del gruppo prima che in aula, e questo è un problema più volte denunciato, siamo ancora ignorati e passiamo per dissidenti, mentre gli elettori se ne vanno. Detto questo, alla luce dell’esperienza dei 101 e dell’elezione del Presidente della Repubblica, in cui il Pd ha perso il suo grande appuntamento con la Storia, penso che dovremmo imparare a lavarci i panni sporchi in casa e non in aula. E’ un film che non vorremmo più vedere, quello di schiantarci in diretta, ma votando secondo coscienza e compattamente, a maggioranza, non ad ogni costo.
Detto ciò qualche doverosa precisazione di merito:
COSA NON ABBIAMO FATTO OGGI
Non abbiamo fermato e sospeso i lavori in aula, ma abbiamo invertito il calendario: oggi infatti si lavorava per la precisione alle ore 15 per il question time c’era il Presidente Letta, quindi il lavoro previsto in aula giovedì è stato spostato ad oggi;
Non abbiamo votato un salvacondotto a Berlusconi;
Non abbiamo offerto al Pdl un pretesto per addossare ad altri responsabilità politiche o poco politiche.
COSA ABBIAMO FATTO
ABBIAMO CONCESSO 4 ore per la direzione del Pdl, riconoscendo un problema politico per il Partito di B. Un atto di cortesia istituzionale di cui non solo il Pdl ha goduto. Poche settimane fa lo avevano fatto loro, ad esempio, nei nostri confronti, quando qualche problema ce l’avevamo noi e avevamo la necessità di riunirci.
Chiariamo che non abbiamo concesso un pomeriggio per evitare processi o per far loro organizzare un corteo in piazza.
COSA AVREMMO DOVUTO DIRE
Che non bastano certo 4 ore al Pdl per mettere ordine ai propri equilibri o meglio squilibri, e che se questo era il pretesto per dichiarare guerra ne cercassero uno più nobile e che soprattutto si prendessero le loro responsabilità, in altre parole avremmo dovuto buttare la palla in campo del Pdl, facendo emergere il loro problema e la loro contraddizione interna, noi ci sappiamo come al solito fare carico dei guai altrui, come se non avessimo abbastanza dei nostri. E diventiamo protagonisti involontari di scene altrui.
GIUSTIFICAZIONI in politichese?
No, non sarei intervenuta per spiegare un voto procedurale, se il Pd avesse una strategia politica e comunicativa, mancanza che lamento dalla prim'ora. Ma per uscire dal politichese bisogna anche non confondere fischi per fiaschi, stare attenti alle trappole e non scambiare un’inversione di calendario d’aula per un lasciapassare a B. o una sua assoluzione. Né tantomeno per un bocca a bocca all’ultimo respiro a questo governo. Anzi esattamente l’opposto, non sarà la sospensione a rendere più difficile il mantenimento di questo governo, il Pdl al contrario sarà costretto ad un supplemento chiaro di argomentazioni”.
La sospensione di 4 ore dei lavori parlamentari è inficiata dalla motivazione del PDL quando ha richiesto la sospensione di tre giorni dell'attività delle Camere non condivisa dal PD. I capi gruppo avrebbero dovuto riunire i gruppi parlamentari è discutere della questione e non come dice Orfini che la richiesta doveva partire dai parlamentari. Chi ha maggiori responsabilità nei gruppi parlamentari, in questo caso Zanda e Speranza, devono creare continuamente e responsabilmente le condizioni di coinvolgimento e di partecipazione dei parlamentari, i quali non devono essere considerati dei numeri da utilizzare per confermare la linea del PD stabilita dai vertici.
In una situazione normale con obiettivi chiari e democratici la sospensione viene accolta senza riunire i gruppi. In questo caso la motivazione, contestare la decisione della Cassazione, scredita l'accettazione verticistica della sospensione in assenza di un dibattito interno ai gruppi.
Il PD dovrebbe con carattere e determinazione non farsi coinvolgere più negli atteggiamenti e comportamenti non democratici del PDL altrimenti non veniamo capiti dai cittadini. Infatti grazie alla informazione non completa e poco chiara i cittadini hanno capito che il PD ha votato per la sospensione richiesta dal Pdl per contestare la decisione della Cassazione anche se questa non rappresenta la realtà degli avvenimenti.
La riunione dei gruppi parlamentari sarebbe servita a dare risalto ed evidenza alla posizione del PD ed a condannare le motivazioni gravi ed inaccettabili del PDL anche nel caso in cui venisse accettata la sospensione di tre ore. Zanda e Speranza hanno sbagliato perché avrebbero dovuto garantire la democrazia interna nei gruppi ed un dibattito responsabile.
Ancora una volta i vertici decidono per tutti.
In un’intervista Roberto Speranza, presidente del gruppo parlamentare PD della Camera, dichiara: “Stiamo parlando di persone che non avevano colto in modo chiaro il passaggio e hanno dato una lettura politica, come se il nostro fosse un voto che accedesse ad un compromesso. La nostra posizione invece era lineare e ha sbagliato chi ha scelto diversamente, mentre la stragrande maggioranza del gruppo ha votato secondo le indicazioni di buon senso che avevamo costruito. Credo nella buona fede di tutti, ma è chiaro che quando il gruppo dà indicazioni bisogna votare con il gruppo. Questo sarà oggetto di un chiarimento in una prossima riunione”.
Se i parlamentari non sono coinvolti nel processo decisionale dei gruppi come può Speranza pretendere che le decisioni del vertice vengano rispettate?

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domenica 7 luglio 2013

Risorse dalla ricchezza finanziaria per lavoro e innovazione

Articolo di Vincenzo Manes pubblicato su Corriere della Sera il 5 luglio 2013
Caro direttore, i documenti ufficiali del governo italiano e delle istituzioni europee sottolineano l'urgenza di una svolta politica che abbia al centro il lavoro. Il problema è che quando si passa alle proposte concrete tutto ricade in provvedimenti parziali, aggiustamenti marginali. Si è deciso di usare il cacciavite, come ha efficacemente scritto Dario Di Vico sul Corriere del 16 giugno per descrivere il «decreto del fare» del governo Letta e che vale anche per le decisioni del Consiglio europeo di Bruxelles. Tutto giusto, certamente, ma l'impressione è che siano assolutamente parziali, non tali, comunque, da essere adatte ad imprimere quella svolta decisa richiesta dalla drammaticità della situazione.
Il mantra della crescita, recitato ormai in ogni consesso, è ormai diventato per l'appunto un mantra senza conseguenze effettive. Il pericolo è che si coltivi la falsa illusione che la ripresa della crescita porti con sé, automaticamente, l'aumento dell'occupazione. Non è vero, e gli esempi statunitensi e anche di molte economie emergenti dimostrano il contrario.
La metafora del cacciavite può indicare una strada giusta per tempi tutto sommato «normali». Si aggiustano macchine che hanno ancora potenzialità di funzionamento, ma non quelle che ormai hanno dato tutto quello che potevano dare, altrimenti si buttano via risorse per motori inefficienti a scapito degli investimenti necessari per l'innovazione e l'eccellenza, i veri campi sui quali impostare i programmi di ripresa. Anche qui, però, bisogna che sia chiara a tutti una cosa: le riforme su pubblica amministrazione, ammodernamento delle istituzioni, riduzione della burocrazia, liberalizzazioni dei servizi, sono indispensabili, ma hanno obbligatoriamente dei tempi medio-lunghi. Il lavoro è invece l'emergenza assoluta che abbiamo, che non può aspettare, pena il rischio per quell'equilibrio sociale che è invece indispensabile proprio per far sì che quelle riforme possano essere messe in atto.
È qui, dunque, che la classe dirigente nazionale deve dimostrare di essere all'altezza del proprio ruolo, magari mettendo finalmente mano ad un'azione drastica di abbattimento del debito, non con il «cacciavite», ma con la «ruspa» della cessione reale di asset pubblici, ma anche con proposte shock.
Provo ad avanzarne una: la creazione di un «Progetto Italia» per il lavoro, finanziato da una «tassa di scopo», una patrimoniale ad hoc, separata dal bilancio dello Stato, che vada a costituire una sorta di «Iri delle imprese sociali», per finanziare progetti innovativi nei settori quali la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, i beni ambientali, il turismo, le attività ad alto rilievo sociale.
Gli ultimi dati ufficiali indicano la ricchezza finanziaria privata del Paese in circa 3.300 miliardi. Propongo un prelievo straordinario dell'1% su tale ricchezza (o in alternativa un prestito forzoso di pari entità). Sono circa 30 miliardi da destinare esclusivamente alla nascita e allo sviluppo di imprese sociali nei campi sopra indicati.
Sarebbe una tassa con tre obiettivi precisi: 1) tassa per il lavoro - per l'immediata creazione di occupazione, con priorità rivolta ai giovani, ma non esclusivamente a loro; 2) tassa per lo sviluppo - la promozione di progetti innovativi di sviluppo nei settori che ho prima segnalato e che rappresentano un potenziale di creazione di valore aggiunto pressoché unico nel mondo; 3) tassa per la ricchezza (non sulla ricchezza) - è un ossimoro apparente, perché fatto cento il valore della ricchezza finanziaria individuata, quell'un per cento di prelievo sarebbe non un impoverimento della stessa, bensì un suo incremento, qualitativo ma anche quantitativo. La nascita di imprese sociali innovative, infatti, creando lavoro e sviluppo, contribuirebbero a reinserire quel 99% di ricchezza finanziaria restante in un quadro di crescita generale che ne accrescerebbe il valore.
Ci sono ormai molteplici studi ed esperienze che illustrano come l'impresa sociale sia un modello di business efficace e che può contribuire concretamente al rilancio di economie in crisi strutturali.
Per avviare il «Progetto Italia» è necessario uno sforzo di responsabilità collettiva delle classi dirigenti, politiche e non, per costituire una governance adeguata. Penso ad una struttura il più possibile agile, sotto l'egida del Presidente della Repubblica, alle dirette dipendenze del premier e con la partecipazione della Banca d'Italia e delle parti sociali.
I componenti di tale struttura avranno due compiti immediati: 1) il monitoraggio delle esperienze esistenti nel campo dell'impresa sociale e delle attività legate alle nuove iniziative di welfare aziendale (già adesso sono molto numerose e in crescente sviluppo), individuando quelle a maggiore contenuto di innovazione e con migliori potenzialità; 2) l'individuazione, con l'aiuto delle Regioni e delle associazioni di categoria, dei settori prioritari nei quali avviare i primi progetti di impresa, coinvolgendo anche i patrimoni di conoscenze ed esperienze dei principali gruppi imprenditoriali nella responsabilità sociale.
L'avvio immediato del «Progetto Italia» avrà come conseguenza il ritorno all'attività di una serie di soggetti fino ad allora a carico esclusivo del sistema di ammortizzatori sociali e potrà fungere da volano per ulteriori iniziative. Non solo, progressivamente dovranno confluire nel suo finanziamento le risorse disponibili dal fondo sociale europeo e dalle Fondazioni (penso a quelle ingenti delle Fondazioni bancarie) in modo da ridurre progressivamente il peso della tassazione straordinaria, fino ad azzerarla in un tempo ipotizzabile in 5-7 anni.
Progetto velleitario? Forse, ma non voglio e non posso credere che, in tempi quali quelli attuali, con il rischio evocato da tutte le parti di rottura traumatica della coesione nazionale, le nostre classi dirigenti non sappiano trovare le risorse etiche, intellettuali e professionali che seppero esprimere, ottant'anni orsono, persone quali Beneduce, Menichella, Sinigaglia, Mattioli, Reiss e Rocca. I padri fondatori dell'Iri seppero costruire quel progetto in un contesto economico altrettanto drammatico. Oggi come allora le priorità sono chiare: le riforme sono tutte necessarie ma la prima urgenza è solo una: il lavoro.
Presidente di Intek Group Spa, la holding che controlla Kme (multinazionale dei semilavorati di rame e leghe di rame) e della Fondazione Dynamo

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venerdì 5 luglio 2013

PD: alcune riflessioni sulla periferia

Le ultime elezioni amministrative hanno registrato un chiaro successo del Partito Democratico. Questo avvenimento ci ha reso felici dopo un periodo di crisi del PD in relazione ai noti avvenimenti relativi alla elezione del Capo dello Stato.
A mio parere i motivi del successo sono i seguenti:
-candidature di personalità credibili (Marino a Roma);
- buona amministrazione per i sindaci riconfermati(Variati a Vicenza);
- fallimento delle amministrazioni del centro destra e fiducia nell’alternativa (Manildo a Treviso);
- il famoso zoccolo duro del PD cioè la fedeltà degli elettori che a prescindere da ogni cosa hanno confermato la loro fiducia al PD.
Occorre tenere presente che una parte dell’elettorato è mobile e non compie scelte definitive a favore di un partito e, pertanto, tali consensi vanno guadagnati di volta in volta con la buona amministrazione del territorio.
Diversi commentatori ed esponenti politici hanno parlato di radicamento del PD nel territorio. Ritengo che questo elemento vada valutato con attenzione senza facili entusiasmi altrimenti si corre il rischio di sopravalutare la qualità della presenza del PD in periferia e, quindi, di non affrontare la relativa problematica.
Occorre ricordare che il risultato delle amministrative ha confermato il consenso del PD nelle grandi città ottenuto nelle elezioni politiche del 24-25 febbraio. Tale risultato non ha consentito al centrosinistra di vincere le elezioni politiche con la conseguenza inevitabile di sostenere il governo di servizio. Pertanto, si ritiene che per vincere alle prossime elezioni politiche non sono sufficienti tali risultati ma occorre andare oltre e fare di più. Per essere sicuri di vincere occorre recuperare i consensi degli elettori che insistono nei comuni delle province in misura preminente rispetto agli altri partiti.
Per superare tale gap è necessario ripensare la presenza del PD nei comuni provinciali e lanciare una strategia di coinvolgimento e di partecipazione nelle strutture periferiche del partito (dal circolo alla federazione provinciale ed a quella regionale): non più un partito periferico rivolto a se stesso ma proiettato all’esterno, non più una gestione oligarchica del partito che considera solo i consensi interni finalizzati alla scalata del potere ma una struttura organizzativa che esprima attenzione alle problematiche delle comunità locali e si ponga al servizio dei cittadini.
La presenza di un PD nella forma piramidale, caratteristica questa dell’organizzazione tayloristica e del partito di massa, impenetrabile e magari funzionale non crea consensi. Occorre invece una classe dirigente visibile e presente nel territorio che privilegi il lavoro di gruppo e l’attenzione verso i problemi dei cittadini.
Da diverso tempo le organizzazioni più innovative nella fase di superamento del taylorismo sono impegnate a realizzare la piramide rovesciata (Jan Carlzon, 1997; G. Hamel, 2011) ed a co-creare valore con i cittadini (C. K. Prahalad e V. Ramaswamy, 2004). Il PD dovrebbe trarre insegnamento da queste esperienze e metodologie organizzative al fine di preparare un’offerta politica ai diversi livelli in sintonia con i problemi reali del paese che si fondi sul coinvolgimento dei cittadini.
Al momento è assente un processo serio di valutazione e selezione della classe dirigente che valorizzi le conoscenze e competenze da mettere al servizio del PD e del paese. La scelta viene fatta all’interno delle correnti ed è finalizzata alla loro sopravvivenza.
L’indicatore di efficacia del partito periferico è la capacità di mobilitazione: più bassa è la partecipazione dei cittadini e più alta è la necessità e l’urgenza del cambiamento del modello organizzativo del PD.
Occorre liberare i circoli dalla prospettiva del potere e riportarli alla loro funzione essenziale di interfaccia con il territorio per ampliare i consensi nella società civile.
In tale prospettiva assumono rilevanza gli uffici centrali del partito, quali per esempio Organizzazione ed Enti locali, i quali devono sopportare concretamente e rispettivamente la realizzazione di modelli organizzativi adatti e coerenti al disegno strategico di coinvolgimento delle popolazioni e l’attività amministrativa dei consiglieri, assessori comunali e sindaci. Ad esempio dopo l’approvazione della legge anticorruzione, la quale ha avuto un impatto rilevante sugli enti locali, dal dipartimento degli Enti locali non è stato inviato nessun documento ai consiglieri comunali del PD per spiegare non solo la posizione politica del partito ma anche le attività amministrative conseguenti da realizzare in ogni comune. Quindi, si procede per intuito o per approfondimenti individuali o peggio ancora non affrontando il problema: alcune volte si sbaglia ed altre si azzecca.
Occorre realizzare una rete di collaborazione e di aggregazione tra gli uffici centrali e gli organi regionali e provinciali del partito al servizio dei circoli e degli amministratori locali. Molte iniziative promosse dal PD sono generaliste mentre invece occorre sostenere in modo costante e concreto le attività politiche ed amministrative dei comuni della province per creare fiducia e consensi a favore del PD (modelli organizzativi delle strutture periferiche del PD e politiche amministrative).
E’assente un processo di valutazione costante ed attento delle strutture periferiche del partito e delle realtà territoriali per stabilire quali interventi puntuali occorre effettuare per realizzare il miglioramento continuo ed il cambiamento. Complementare a tale processo è la politica del fare nei comuni delle province dove è assente un management degli enti locali all’altezza dei problemi e, quindi, è necessario sopportare l’attività dei nostri consiglieri comunali. Nelle grandi città il problema si pone relativamente in quanto vi è un personale politico ed un management capace ed innovativo.
Occorre ripensare i circoli per eliminare i limiti, di cui se ne indicano alcuni tra i più importanti, che si frappongono ad una gestione libera, democratica ed efficace dei circoli stessi: - La ricerca costante di consensi all’interno del Partito; - L’obiettivo di lavorare per la propria sopravvivenza ed ascesa politica; - L’interferenza delle correnti nella vita del circolo. Al contrario è urgente lavorare nel territorio con gli altri e per gli altri.
Per superare tali limiti occorre cambiare le regole dei congressi territoriali a livello provinciale e prevedere la presentazione di liste di circoscrizioni che rappresentino almeno il 20% o 25% dei comuni o dei circoli. Le attuali regole di partecipazione diretta dei circoli creano dei problemi in quanto la competizione si trasforma in divisione stabile tra i quadri dei circoli al fine di conservare ed aumentare i consensi interni al partito. La rappresentanza circoscrizionale favorisce la collaborazione e la presenza in un territorio più ampio del circolo.
Il superamento della frammentazione e l’aggregazione circoscrizionale della rappresentanza favorisce una presenza politica dei circoli che si basi sui seguenti fattori: - Unità all’interno del circolo; - Cultura della trasparenza; - Visione comunitaria; - Sistema aperto che opera con progetti bottom-up.
Nel territorio possono essere previste delle comunità di passione che operano con una propria organizzazione non gerarchica in modo autonomo ed in collaborazione con i circoli per il conseguimento di finalità specifiche stabilite dai membri delle comunità (G. Hamel, 2011). Occorre sperimentare nuove forme di partecipazione democratica affinché i cittadini non si sentano estranei al sistema politico.
Inoltre, è necessario che le federazioni provinciali e regionali svolgano un ruolo attivo e produttivo nei territori di ciascuna provincia al fianco dei circoli e dei consiglieri comunali, i quali molto spesso si trovano ad affrontare in solitudine problemi molto seri che interessano le popolazioni.
In questo momento l’attenzione dei leaders del PD sembra rivolta esclusivamente alle regole del congresso: partito degli iscritti o degli elettori, leadership separata o meno dalla premiership. Una polemica non credibile perché si svolge alla vigilia del congresso e, quindi, esposta a critiche, a posizioni di parte e ad errori considerato il poco tempo disponibile per confrontarsi e decidere.
Senza entrare nel merito delle questioni penso che le regole del congresso devono essere stabilite molto tempo prima dello svolgimento dell’assise o in sede congressuale o subito dopo il congresso.
Si parla poco o niente delle strutture periferiche del PD ed è un grande errore perché i consensi si guadagnano in periferia, nel territorio e nei piccoli Ritengo che occorre prestare molta attenzione alla periferia del PD perché non sono sufficienti i proclami centrali per innovare le strutture periferiche, spezzare il rapporto di diffidenza e sfiducia verso il PD ed aumentare i consensi elettorali.

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giovedì 4 luglio 2013

Invalidità civile: tempi e costi alti

Interventi dei deputati Diego Zardini e Alessia Rotta
L’interrogazione presentata da Diego Zardini e Alessia Rotta sui tempi troppo lungi di definizione delle prestazioni di invalidità civile ha colpito nel segno. Infatti, il 1° Rapporto sull’invalidità civile e la burocrazia di Cittadinanzaattiva ed i dati della Corte dei Conte registrano un aumento della burocrazia e dei ritardi del procedimento amministrativo che di conseguenza fanno lievitare i costi per gli interessi passivi e per i medici convenzionati Inps.
I fattori di crisi espressi nell’interrogazione di Zardini e Rotta  sono confermati dai dati contenuti nei rapporti: il 44% delle Asl non utilizza la piattaforma informatica dell’Inps e trasmette i verbali sanitari in formato cartaceo con dispendio di tempo e risorse,  tempi medi di attesa per la prima visita  8 mesi, circa un anno per la concessione dei  benefici economici e delle agevolazioni ed interessi passivi in aumento (37,5 milioni nel 2011 rispetto ai 34 milioni del 2010).
Esempio dell’inefficienza è l’Asl di Bussolengo che non si è adeguata al disegno organizzativo di collaborazione tra Inps e Asl, non utilizza l’applicazione informatica dell’Inps, causando ritardi nella definizione delle prestazioni di invalidità civile ed aumento dei costi per interessi passivi che scattano per i benefici liquidati dopo 120 giorni dalla decorrenza delle prestazioni.
Nella interrogazione Zardini e Rotta, presentata al Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione ed al Ministero per gli affari regionali e le autonomie, hanno posto l’attenzione sui seguenti punti:
- “l'innovazione organizzativa ed informatica introdotta nel processo di invalidità civile e finalizzata alla contrazione dei tempi di definizione delle prestazioni di invalidità civile non è stata recepita concretamente da tutte le aziende sanitarie, con la conseguenza che non sono migliorati, in alcuni territori, i tempi di effettuazione delle visite sanitarie e di definizione delle prestazioni, con disagi gravi da parte degli utenti segnalati dalla stampa e dai rapporti di Cittadinanzaattiva e della Corte dei Conti;
- il caso emblematico è rappresentato dall'Asl n. 22 di Bussolengo (Verona), la quale utilizza la piattaforma informatica dell'Inps unicamente per scaricare le richieste di domande di invalidità civile trasmesse dal cittadino o dai patronati. Per la fase sanitaria di accertamento dell'invalidità (calendarizzazione visita, convocazione a visita, redazione del verbale di visita, aggiornamento del fascicolo elettronico) l'Asl 22 non utilizza la procedura informatica Inps e, all'esito del procedimento di accertamento, trasmette all'Inps i verbali e la documentazione sanitaria in formato esclusivamente cartaceo  con spreco di tempo e risorse per l’inserimento dei dati nella piattaforma informatica dell’Inps.  La cooperazione informatica tra gli enti interessati, pur  con tempi di attuazione diversificati caso per caso sul territorio, è utilizzata dalla maggioranza delle aziende sanitarie (56% delle Asl) al punto che nella regione Veneto solo l'Asl 22 è estranea a tale sistema operativo”.
Inoltre, i deputati Zardini e Rotta avevano sottolineato che “ il pagamento delle prestazioni dopo 120 giorni dalla data di decorrenza della domanda comporta il pagamento degli interessi legali all'interessato. Costi questi in continuo aumento a causa dei ritardi che potrebbero essere eliminati attraverso una gestione efficace delle prestazioni ed attenta a non superare i limiti temporali oltre i quali scatta il calcolo degli interessi”.
Le inefficienze segnalate sono coperte dall’opacità delle fasi di lavorazione del processo di invalidità civile. Occorre invece rendere trasparenti ogni aspetto dell’organizzazione, gli indicatori di qualità e quantità, le risorse impiegate e le fasi del ciclo di gestione della performance al fine di facilitare  forme diffuse di controllo da parte dei cittadini,  così come prescrive l’art. 11 del D. Lgs. n. 150/209.  Un ruolo significativo in tale direzione può essere svolto dall’Inps, il quale è in possesso delle informazioni necessarie, grazie alle proprie procedure informatiche ed all'utilizzo degli strumenti di rilevazione (cruscotto direzionale).
La normativa del processo di invalidità civile prevede dei tempi precisi da rispettare per ogni fase di lavorazione (accertamento sanitario, definizione della prestazione)  e nel caso in cui i tempi non vengono rispettati gli utenti possono intervenire presentando una diffida all’assessorato regionale della Sanità, al direttore generale dell’Asl  ed all’Ufficio medico legale dell’Inps competente per territorio. Per il caso dell’Asl di Bussolengo è urgente che gli utenti presentino la diffida per ridurre i tempi di attesa.
I deputati Diego Zardini e Alessia Rotta hanno richiesto al Ministero di intervenire per il tramite dell'ispettorato della funzione pubblica onde verificare se l'Asl n. 22 di Bussolengo (Verona) nella gestione delle pratiche di invalidità civile rispetti i principi di efficienza e di efficacia nell'azione amministrativa.

Rapporto Cittadinanzaattiva

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mercoledì 3 luglio 2013

Fabrizio Barca a Verona il 6 Luglio


In vista del congresso del prossimo autunno il Partito Democratico di Verona avvia una discussione pubblica sul rinnovamento della forma partito e sulle sfide che la città e il Paese hanno davanti oggi e nel prossimo futuro.

Sabato 6 Luglio 2013 alle ore 10.30 in Sala Ater di Piazza Pozza a Verona sarà ospite Fabrizio Barca che spiegherà la sua proposta "Un partito nuovo per un buon governo".

Introduce il segretario provinciale Pd Luigi Ugoli e modera il giornalista Alessio Corazza.

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