martedì 28 gennaio 2014

Governance democratica e trasparente dell’Inps

Il Partito Democratico con Donata Lenzi ed altri deputati aveva chiesto due anni fa, durante il Governo Monti, un cambio di passo molto decisivo con una mozione che venne approvata a larga maggioranza.
Con la mozione, dichiara Donata Lenzi, “il Governo si era impegnato a garantire per l’Inps una governance equilibrata, collegiale e trasparente, con la compresenza di un organismo di vertice costituito da personalità di comprovata esperienza, autonomia e indipendenza, affiancato da un Comitato di indirizzo e vigilanza dai poteri rafforzati. Inoltre, a verificare la compatibilità operativa, funzionale e gestionale dell’attuale situazione di coesistenza di numerosi incarichi in altre società del presidente dell’Inps”.
“Questa mozione, conclude Donata Lenzi, fu approvata con una larga maggioranza di 504 voti favorevoli e soltanto 1 contrario. Un cambiamento dunque voluto da molti in Parlamento su cui il Governo si era impegnato. Impegno poi evidentemente disatteso. Anche alla luce di queste nuove notizie sull’inchiesta a carico del presidente Mastrapasqua, dunque, il Pd torma a ribadire la necessità urgente di un intervento del Governo anche per verificare – conclude - la compatibilità di una situazione che vede Mastrapasqua continuare a mantenere diversi incarichi”.
Nella precedente legislatura il Ministro del lavoro e delle politiche sociali si era assunto l'impegno di presentare un nuovo modello di governance per gli istituti previdenziali ed assistenziali ed a seguito della discussione delle mozioni dei deputati Silvano Moffa e Donata Lenzi. Nel mese di maggio 2012 è stata approvata una mozione unitaria dalla Camera dei deputati al fine di superare l'attuale fase di gestione monocratica dell'Inps.
In questa legislatura Diego Zardini e Alessia Rotta, deputati del PD, hanno presentato il 13 giugno 2013 una interrogazione al Ministro del lavoro e delle politiche sociali ed al Ministro dell’economia e delle finanze per sottoporre il caso dell’Inps, il quale a partire dal mese di maggio 2010 è gestito da un uomo solo al comando, il presidente dell’Istituto, che accumula i poteri del Consiglio di Amministrazione. Inoltre, i due deputati hanno sottoposto ai ministri del lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze la possibilità di ridurre i membri del consiglio di indirizzo e vigilanza e di ripensare i ruoli e le funzioni tra gli organi dell’Istituto. Diego Zardini e Alessia Rotta hanno chiesto ai Ministri “di valutare, in termini di opportunità e di efficienza, la molteplicità di incarichi ricoperti dal presidente dell'Inps”. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali a cui è stata assegnata l’interrogazione non ha dato a tutt’oggi alcuna risposta.
Se il Governo ed il Ministero competente avessero preso in seria considerazione la mozione e l’interrogazione sulla gestione dell’Inps e fossero intervenuti in modo puntuale forse si potevano evitare gli avvenimenti odierni, riportati dalla stampa, che coinvolgono il Presidente dell’istituto previdenziale.
“Il recupero di credibilità tra le istituzioni ed i cittadini, affermano Zardini e Rotta nell’interrogazione, avviene anche attraverso la gestione democratica e trasparente delle articolazioni dello Stato. L'attuale gestione monocratica dell'Inps non contribuisce a rafforzare la fiducia nelle istituzioni e amplia la possibilità di effettuare delle scelte non in sintonia con gli obiettivi di carattere sociale che l'ente persegue”.
Negli ultimi anni l'Inps, dichiarano Zardini e Rotta, ha subito delle considerevoli modifiche in materia di governance: il decreto-legge n. 78 del 2010 (Governo Berlusconi) ha trasformato la gestione commissariale dell'ente in una gestione monocratica, attribuendo le competenze del soppresso consiglio di amministrazione al Presidente. Inoltre, le funzioni dell'Inpdap e dell'Enpals, a decorrere dal 1° gennaio 2012, sono state incorporate nel medesimo Istituto, allo scopo di migliorare il sistema di in termini di efficienza con i risparmi di gestione previsti e di efficacia con l'incremento della qualità servizi pubblici attraverso l'integrazione delle funzioni previdenziali ed assistenziali in un unico ente”.
A seguito dell'incorporazione degli enti soppressi (Inpdap e Enpals), l'Inps è chiamato ad amministrare circa 33.556 mila dipendenti, con un onere finanziario di 2.014 milioni, 23 milioni di occupati (99,3 per cento dei lavoratori), 18 milioni di pensionati, per un importo di circa 229 miliardi di euro per il relativo pagamento (14,49 per cento del prodotto interno lordo del 2011) e 4,5 miliardi di spese di funzionamento (1,56 per cento delle spese istituzionali). Da un confronto con gli istituti previdenziali europei risulta che il nuovo Inps rappresenta il più grande ente previdenziale dell'Europa.
“La Corte dei conti, nella sua relazione del novembre 2011, ha espresso evidenti perplessità sulla gestione monocratica dell'Inps; nonostante tali valutazioni la concentrazione dei poteri nella figura del presidente dell'Inps ha proseguito in assenza di una concreta presa di posizione finalizzata a superare il metodo dell'uomo solo al comando e a realizzare una gestione democratica trasparente, efficace e partecipata nell'Istituto, ripristinando l'organo previsto nelle imprese private e pubbliche: il consiglio di amministrazione”, affermano Zardini e Rotta. A parere di Zardini e Rotta, “la gestione monocratica del presidente, il cui mandato scade il 31 dicembre 2014, ha espresso degli evidenti limiti, evidenziati dal ricorso a numerose consulenze esterne, onerose e pervasive, relativamente a problematiche che potevano essere gestite ad avviso degli interroganti utilizzando le competenze e le capacità esistenti all'interno dell'Inps”.
Alla luce degli avvenimenti recenti occorre intervenire con urgenza al fine di sostituire l’attuale Presidente dell’Inps con un commissario di provata capacità e professionalità che porti alla normalità la gestione dell’Inps. Inoltre, occorre agevolare l’iter della proposta di legge (atto camera 556) presentata da Cesare Damiano, deputato del PD, al fine di ridefinire la governance dell’Inps che dovrà considerare: la rimessa in vigore del Consiglio di Amministrazione, la riduzione del numero dei componenti degli organi, quale ad esempio il consiglio di indirizzo e vigilanza, la netta ed efficiente distinzione dei ruoli e delle funzioni degli organi e il riordino degli organi collegiali territoriali dell’ente previdenziale.
Purtroppo in politica la variabile tempo non viene considerata ed i problemi si accumulano sino a quando non salta fuori uno scandalo, come in questo caso, e tutti corrono per cercare riparo.
Si spera in un intervento urgente per ripristinare una gestione democratica e trasparente all’Inps.

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mercoledì 22 gennaio 2014

Alessia Rotta su legge elettorale

Riporto integralmente la dichiarazione di Alessia Rotta, parlamentare PD, che ha postato in Facebook i cui contenuti condivido integralmente.

“È una grande vittoria per il Partito Democratico e per il suo segretario, che è riuscito a fare ciò che negli ultimi 8 anni non si è fatto: mettere d’accordo le principali forze politiche su una riforma che individui chiaramente un vincitore e non sia modificata alla prossima tornata elettorale. Le polemiche sulla proposta di Renzi sulla legge elettorale sono del tutto strumentali.
Chi in passato ha approvato una riforma di questo tipo senza interloquire con il principale partito di opposizione ha prodotto il ‘Porcellum’, con le conseguenze che conosciamo. Per coerenza, è impensabile oggi non coinvolgere il principale partito di opposizione e il suo leader, Berlusconi, su un tema simile né sono ricevibili le critiche di chi fino a ieri ha sostenuto, a ragione, in prima linea, l’accordo per il governo di larghe intese. Oggi abbiamo una proposta largamente condivisa, che restituisce governabilità al Paese e potere di scelta agli elettori. La proposta di Renzi prevede collegi piccoli, con massimo 4 o 5 seggi in palio, sulla scheda ci saranno i nomi dei candidati, che saranno perfettamente identificabili, influenzando così la scelta dell’elettore sul partito o la coalizione da votare. Nessuno potrà nascondersi. Il potere di scelta non è intaccato e non lo è ancora di più per gli elettori del Pd, che ormai ha una tradizione consolidata sulle primarie.
La riforma sarebbe completa se contenesse anche un riferimento alle primarie, regolandole per tutti e imponendole, ma, per il momento, è un primo passo e risponde alle esigenze principali del Paese: governare con una coalizione solida che si basa su priorità programmatiche. Colpisce l’indagine di Demos per la Repubblica, che rileva un aumento della quota di italiani per i quali si può rinunciare alla democrazia in favore di forme più o meno autoritarie di governo. Indicativa della graduale paralisi della nostra democrazia, incapace di dare risposte. Con questa riforma si può tornare a fare politica con efficacia.
Nel frattempo credo che gli elettori sapranno riconoscere lo sforzo di chi, per sua iniziativa, saprà farli partecipare in modo trasparente alla scelta dei candidati”.
Sempre su Facebook Carla Pellegatta, dirigente della Cgil del Veneto, ha dichiarato: “Il sistema delle preferenze è sempre stato foriero di clientele e manovre di bottega. Si facciano le primarie di collegio”.
La sinistra storica del PD (ex Pci, ex Pds, ex DS) ha dimenticano volutamente le battaglie fatte da sempre contro le preferenze per motivi condivisibili (libertà di voto contro le clientele, la mafia e la criminalità). Adesso invece pur di contestare Renzi condivide strumentalmente le preferenze.
Sono cresciuto con le preferenze fin dagli anni 70 nel Sud e conosco molto bene gli effetti illeciti di tale strumento. Negli anni 90 si è creata una cultura contro tale metodo di scelta e non sono stato io a sostenerla. Ma non si può per le convenienze di qualcuno interessato cambiare a comando. Questo è quello che sta avvenendo oggi dimenticando che le preferenze possono essere sostituite con altri strumenti (lista corta, collegi ridotti e primarie). In ogni caso nel momento in cui occorre arrivare ad un accordo qualcosa bisogna pur lasciare se si è convinti che un cambiamento del sistema è necessario ed urgente. Altrimenti non facciamo nulla e continuiamo a fare gli "intellettuali sterili" senza produrre nulla di positivo per il paese e senza pensare che potremmo scomparire dal sistema politico. Rimanere fermi e uniti non serve al paese ed al PD.
La sinistra storica ha continuato anche con Bersani a contrastare le preferenze e vi sono articoli di giornali. Non ho interesse a difendere una parte del partito. Ho vissuto il periodo pre PD e parlo con cognizione di causa. Quella posizione è continuata nel PD tanto è vero che era stata scelta una proposta con collegi uninominali e doppio turno in contrasto con la posizione di Berlusconi. Per tale motivo non si è fatto nulla. La proposta di Renzi rappresenta la proposta possibile in questo momento e con le forze politiche in campo. Si evitino le preferenze e si facciano le primarie.
Brava Alessia Rotta ad esprimere tale posizione che non va tanto di moda ma che può salvare un paese in ginocchio.
La riforma elettorale e collegata alla istituzione del senato delle autonomie e alla riforma del titolo V della Costituzione. Tutte riforme importanti che rappresentano il presupposto per avviare un grande cambiamento nel nostro paese. Non bisogna dimenticare che la prossima settimana si discuterà in direzione PD del Job Act di Matteo Renzi dopo anni di inerzia e slogansimproduttivi.
Occorre avere presente che la ragione di essere del Governo Letta sono le riforme e senza di esse cadono i presupposti di questo Governo.

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martedì 21 gennaio 2014

Al lavoro in bicicletta

Articolo di  Francesca Simeoni* e Antonino Leone pubblicato su http://www.bici-initinere.info/?p=1961
Giovedì 16 gennaio alle ore 12,00 si è svolta presso la Camera la conferenza stampa per presentare la proposta di legge sull’infortunio in itinere che interessa tutti coloro che usano la bicicletta per recarsi al lavoro.
Una proposta di legge che ci auguriamo diventi al più presto legge racchiusa in un solo articolo questo: “All’articolo 2, del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giungo 1965, n. 1124, il terzo periodo è sostituito dal seguente: “L’assicurazione opera comunque nel caso di utilizzo di velocipedi, di cui all’articolo 50 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e nel caso di altro mezzo di trasporto privato, purché necessitato.”
Qui potete vedere il video della presentazione della proposta alla Camera http://webtv.camera.it/archivio?id=4535&position=0
Primo firmatario della proposta di legge è Diego Zardini seguito da Paolo Gandolfi e altri 24 parlamentari.
Su questo importante tema – ragion d’essere di questo sito – intervengono con un’intervista a Zardini
 Antonino Leone e Francesca Simeoni.
Intervista che ospitiamo volentieri.
Cosa si propone con la proposta di legge?
Liberare dalle limitazioni normative l’uso della bicicletta e specificatamente dall’utilizzo necessitato di tale mezzo durante il percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro quale condizione di indennizzo completo dell’infortunio in itinere.
L’attuale assetto normativo come si pone nei confronti dell’uso della bicicletta per recarsi al lavoro?
La legislazione vigente in materia di infortunio in itinere condiziona e discrimina il riconoscimento dell’indennizzo nel caso di incidente da parte del lavoratore che usa la bicicletta per recarsi al lavoro. Infatti, la corresponsione dell’indennità viene effettuata nei seguenti casi: – assenza o insufficienza dei mezzi pubblici di trasporto; – non percorribilità a piedi del tragitto casa e lavoro e viceversa; – incidente avvenuto solo all’interno di piste ciclabili o di zone interdette al traffico. Tali condizioni rendono impossibile il riconoscimento dell’infortunio in itinere e la conseguente corresponsione da parte dell’Inail del risarcimento per i lavoratori che utilizzano la bicicletta per recarsi al lavoro.
L’utilizzo della bicicletta per recarsi al lavoro risponde alle esigenze della società?
La legislazione vigente in materia di infortuni in itinere per quanto riguarda il caso dell’uso della bicicletta non risponde più alle esigenze sociali ed economiche di uno Stato moderno che pone attenzione: – all’impatto ambientale (inquinamento acustico,atmosferico ed emissione del gas serra); - ai costi legati alla mobilità urbana (benzina, ticket parcheggio); – alla tutela della salute dei cittadini (aspettativa di vita più lunga, riduzione dello stress); – alla riduzione del traffico sulle strade (decongestione del traffico, riduzione degli incidenti in itinere).
Inoltre, l’attuale crisi economica e la dipendenza dall’estero in materia energetica impone all’Italia di promuovere delle forme alternative di trasporto che incidano positivamente sul consumo e sul risparmio energetico che in questo caso sono rappresentate dall’utilizzo della bicicletta.
Nella società del terzo millennio è urgente utilizzare i fattori indicati e liberare dai condizionamenti normativi l’uso della bicicletta. Si ritiene che la società italiana, considerato il consenso espresso in numerose occasioni da parte dei cittadini e dalla testimonianza continua e concreta svolta da Fiab, sia preparata ad un cambio di paradigma che privilegi l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro per i benefici che l’uso di tale mezzo di trasporto realizza a vantaggio delle comunità.
Cosa propone per uscire dai condizionamenti che lei ha espresso?
E’ urgente riconoscere in ogni caso ai lavoratori che utilizzano la bicicletta nel caso di incidente la piena tutela derivante dall’infortunio in itinere per l’impatto positivo che tale mezzo di trasporto implica sul benessere sociale ed economico dei cittadini.
La proposta di legge non prevede incentivi ma prospetta soltanto di eliminare la condizione di mezzo necessitato di trasporto della bicicletta, adoperata dal lavoratore per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, nell’ambito della normativa vigente in materia di infortuni in itinere per la parte che disciplina l’uso di mezzi di trasporto privato.
L’uso della bicicletta ha degli effetti positivi, riconosciuti dalla letteratura e dimostrati da specifici studi scientifici, sui cittadini che la usano, sulle città e sulle imprese che facilitano l’uso di tale mezzo e di conseguenza sugli stati e sul pianeta. I centri urbani sono profondamente cambiati e trasformati ed hanno bisogno sempre di più di risolvere alcuni problemi fondamentali, quali l’inquinamento e la congestione del traffico, che possono essere affrontati con una pluralità di interventi, tra i quali assume rilevanza la rimozione degli ostacoli di ordine legislativo che scoraggiano l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro.

Perché le imprese si dovrebbero adoperare per facilitare l’uso della bicicletta da parte del proprio personale? Prima di presentare gli interventi attesi dalle imprese si accennano brevemente i vantaggi che esse potrebbero ricavarne nel breve, medio e lungo periodo. Alcuni studi affermano che il dipendente che arriva al lavoro in bicicletta, mantenendo una forma fisica migliore e un livello di stress inferiore, è più produttivo della media. Inoltre l’impresa può trarne dei vantaggi in termini, ad esempio, di riduzione dei parcheggi da prevedere, migliore immagine dell’impresa almeno sulla comunità locale e riduzione delle assenze per malattia.
Se questi sono alcuni dei vantaggi per le imprese, esse possono agevolare o incentivare l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro attraverso:
- la predisposizione di rastrelliere coperte e sicure per il parcheggio delle biciclette;
- la disposizione all’interno dei parcheggi per le biciclette di prese di corrente per il carico delle batterie delle biciclette a pedalata assistita o elettriche;
- la stipulazione di accordi con negozi di articoli sportivi per dotare il personale di buoni sconto per l’acquisto della bicicletta, o accordi con le società di gestione dei servizi di bike sharing al fine di ottenere degli sconti per il personale sul costo dell’abbonamento annuale al servizio di noleggio;
- l’incentivazione, eventualmente in collaborazione con i competenti organi pubblici, della progettazione o del completamento di piste ciclabili;
- l’individuazione e la predisposizione di spazi all’interno dell’impresa da adibire a spogliatoi, magari anche con delle docce a disposizione del personale che arriva in bicicletta.
Oltre alle facilitazioni appena elencate, le imprese potrebbero incentivare l’uso della bicicletta, al di là del tragitto casa/lavoro, anche promuovendone l’uso all’interno dell’orario di lavoro e per motivi di servizio utilizzando biciclette di proprietà aziendale o personale, o ancora servizi di bike sharing cittadini (qualora esistenti).
L’imprenditrice Marina Salomon, sollecitata a commentare la proposta di legge poco sopra presentata, ha affermato: “apprezzo la proposta di legge di Diego Zardini in quanto libera l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro da regole non più attuali ed in contrasto con la tutela dell’ambiente. A Milano e a Treviso, precisamente alla Doxa ed Altana, abbiamo realizzato dei parcheggi custoditi all’interno delle imprese con la soddisfazione dei dipendenti che in passato hanno subito il furto della bicicletta e, quindi, erano scoraggiati ad usare tale mezzo di trasporto”.
"La società Baxi, ha dichiarato Giordano Bellò, responsabile sicurezza e ambiente, è consapevole dell’impatto che la viabilità e flussi di mezzi possono avere sul sistema viario urbano, per tali motivi ha avviato una serie di iniziative e proposte in collaborazione con il Comune di Bassano del Grappa e la Fiab. Tra queste si ricordano lo studio per il dirottamento del percorso dei mezzi pesanti al di fuori della viabilità urbana, promozione di convegni sul tema e l’adesione al Bike to Work Day, un’iniziativa mondiale volta a promuovere la mobilità sostenibile e nello specifico l’uso delle due ruote nei tragitti casa/lavoro, invitando tutti i dipendenti a lasciar l’auto a casa e a recarsi al posto di lavoro con la bicicletta”. Inoltre, la Baxi ha predisposto all’interno dello stabilimento dei parcheggi custoditi per le biciclette.
La Giunta Comunale di Bassano del Grappa ha approvato il Piano Particolareggiato per la Mobilità Ciclabile. La redazione del Biciplan è stata supportata dalle proposte e studi realizzati e offerti dalla FIAB, con il gruppo locale Tuttinbici. “L’obiettivo generale del Biciplan, afferma Giordano Bellò, è la valorizzazione della mobilità ciclabile che passa attraverso lo sviluppo di tutti gli aspetti legati alla ciclabilità. Non si tratta quindi solo di realizzare nuove infrastrutture, ma anche di dare impulso alla creazione di servizi e di implementare un buon sistema di comunicazione. Questi tre pilastri rappresentano sicuramente gli strumenti per raggiungere il vero obiettivo del BiciPlan, che quindi non è quello di costruire piste ciclabili ma piuttosto la crescita della quota di mobilità ciclabile nel territorio”.
Gli esempi a sostegno della mobilità sostenibile e dell’uso della bicicletta sono tanti e tra questi si ricordano i seguenti casi: i Comuni di Torino, Milano, Bologna e Ferrara, Clear Channel, l’Università Cattolica di Milano, Unipol e Fondazione Unipolis, Anci, Università di Verona. Ferrara è tra le città europee che vengono citate nelle ricerche e negli gli studi. Si segnala che la FIAB Onlus ha istituito un club di imprese che si impegnano a promuovere l’uso della bicicletta (Ciab).
La promozione dell’uso della bicicletta nei tragitti casa/lavoro può essere anche il volano per lo sviluppo dell’economia che ruota direttamente intorno all’uso di questo mezzo, quali le imprese di produzione, di vendita e di riparazione, ma, allargando la prospettiva, potrebbe anche fungere da promotore di nuove imprese quali possono essere i Bike messenger, i cosiddetti corrieri in bicicletta che anche in Italia si stanno sempre più sviluppando. Non per ultimo, legando le imprese all’uso della bicicletta lo sguardo può essere rivolto al business del cicloturismo con tutte le economie che esso può muovere: tour operator, sistema ricettivo (alberghiero ed extraalberghiero), servizi di guide turistiche e naturalistiche, promozione di eventi e così via.
Concludendo, dati e casi che dimostrano la convenienza di un investimento aziendale a favore della mobilità in bicicletta non si può dire che non ce ne siano, serve però lavorare per la diffusione e discussione di queste tesi al fine di vedere riconosciuta l’importanza del tema in ciascuna azienda. La previsione nel territorio della figura del Mobility manager che potrebbe senza dubbio valutare i migliori investimenti e cercare le soluzioni più adatte. Al riguardo si segnalano alcune offerte formative interessanti come quella, ad esempio, dell’Università degli Studi di Verona che presenta la seconda edizione di un corso di perfezionamento e di aggiornamento professionale in “Nuova figura professionale – promotore della mobilità ciclistica”.
Si ritiene urgente che le autonomie locali e le imprese facciano sistema al fine di effettuare studi, programmi ed interventi nei distretti o poli industriali e nei centri urbani per migliorare il sistema della mobilità sostenibile a beneficio dell’ambiente e delle persone. A tale scopo si ricorda il progetto I.mo.s.m.i.d. promosso nel distretto industriale di Correggio, quale esempio di modello integrato per la gestione sostenibile della mobilità in un distretto industriale.
Al lavoro in bicicletta in Facebook
* Francesca Simeoni è ricercatrice di Economia e gestione delle imprese presso l’Università degli Studi di Verona e componente del Comitato Scientifico del corso di perfezionamento e di aggiornamento professionale in “Nuova figura professionale – promotore della mobilità ciclistica”.

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giovedì 16 gennaio 2014

Roger Abravanel su Job Act

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 16 gennaio 2014
Il «jobs act», che Matteo Renzi sta sviluppando e del quale ha pubblicato le prime idee, è una piattaforma di discussione che lo stesso leader del Pd auspica possa molto evolvere nei prossimi mesi. I commenti di questi giorni ne hanno sottovalutato sia due importanti contributi sia alcune significative carenze.
Il primo importante contributo è il coraggio con cui per la prima volta un segretario del Pd ha imbracciato senza se e senza ma un’idea radicale, la protezione del lavoratore e non del posto di lavoro. Quelli che criticano la proposta di Renzi sottolineando che non c’è nulla di nuovo in questa idea sottovalutano l’importanza che essa diventi la base del programma di lavoro del maggior partito della sinistra. È sicuramente vero che il cosiddetto «modello danese» esiste da decenni e che esperti come Pietro Ichino hanno già fatto proposte simili, ma la sinistra italiana le ha sempre rifiutate, come si è visto nel caso dello stesso Ichino che fu «scomunicato» dal Partito democratico. Invece in questi giorni personaggi come Landini e la Camusso hanno applaudito il «jobs act».
È anche vero che il percorso per realizzare questa idea è tutto da studiare: come finanziare il sussidio universale di qualcuno che perde il posto di lavoro con un ridisegno degli ammortizzatori sociali (inclusa la ormai obsoleta cassa integrazione) e con i risparmi graduali della spesa pubblica? Ed è anche vero che la attuazione sarà immensamente difficile perché la macchina pubblica italiana non è quella danese: lì le agenzie del lavoro funzionano e la seconda offerta «che non si può rifiutare» di solito arriva presto; da noi le agenzie del lavoro, pur avendo un numero di dipendenti come quelle tedesche, creano meno di un quinto delle opportunità che in Germania.
Il secondo valido contributo è la scelta di alcuni settori, soprattutto nei servizi, come aree dove focalizzare gli sforzi per fare crescere l’economia e creare lavoro. Nel turismo per esempio, dove si spera che il «jobs act» possa portare al centro del dibattito proposte come quella contenuta nel mio saggio Regole per una nuova regolazione sulle concessioni, orientata non più al turismo da «secchiello e paletta» delle piccole pensioni familiari ma a fare emergere qualche grande investitore italiano e straniero. Un altro esempio viene dall’Ict (Information and telecommunication technology), dove il «jobs act» delinea un ruolo dello Stato come regolatore intelligente capace di imporre alle aziende di fatturare elettronicamente per combattere la evasione fiscale e stimolare nel contempo la nascita di nuove imprese innovative. Nel «jobs act» esistono però anche alcune ombre.
Ridurre del 10 per cento l’Irap è sicuramente un’idea che va nella giusta direzione, ma farlo con la tassazione delle rendite finanziarie è tutt’altro che facile. La tassazione sulla casa esiste quasi ovunque perché la casa si vede e non si muove, cosa che non è per le ricchezze finanziarie che sono difficili da tracciare e la cui tassazione rischia di produrre gettiti ridotti ed elevata evasione.
Si rivelerà probabilmente una pia illusione anche l’idea di aumentare la competitività delle piccole e medie imprese riducendone del 10 per cento il costo per l’energia. Intanto perché un quarto di questa riduzione si vorrebbe ottenerla eliminando quei contratti di favore per l’energia detti «interrompibili» perché le aziende possono interrompere la fornitura ottenendo uno sconto. È giusto eliminare questi sussidi utilizzati soprattutto da aziende in settori del passato e poco verdi come l’alluminio, l’acciao e la carta. Ma non sarà facile perché a breve alcuni impianti chiuderanno e la disoccupazione aumenterà. E poi non è chiaro dove il «jobs act» intenda reperire il resto dei tagli, dato che si limita ad indicare genericamente «ulteriori misure da parte della Autorità per l’energia».
Anche nella «green economy» (uno degli otto settori del «jobs act») lo Stato potrebbe giocare un ruolo di regolatore innovativo: il problema è che il Pd ha sempre sostenuto delle politiche di regolazione poco efficaci (per esempio gli incentivi delle rinnovabili). E ha appoggiato amministrazioni locali, soprattutto nel Centro Sud, responsabili di cattiva gestione dei rifiuti. È quindi un errore citare questo settore tra quelli da sviluppare senza accennare all’esigenza di una revisione profonda delle logiche seguite sinora, per esempio con una radicale nazionalizzazione delle politiche di regolazione che deve essere sottratta alle Regioni e ai Comuni.
Infine stona la presenza del «made in Italy» tra gli otto settori da sviluppare: qui lo Stato può fare ben poco come regolatore e committente perché questo settore è ormai esposto alla concorrenza globale. Le sfide del «made in Italy» hanno a che fare con l’incapacità del capitalismo familiare di valorizzare il capitale umano e la meritocrazia e su questo lo Stato e il «jobs act» possono fare ben poco. Avendo riconosciuto al «jobs act» il pregio di affrontare il problema della disoccupazione giovanile in un’ottica di crescita dell’economia, ci auguriamo che facciano seguito al più presto un «justice act» e un «education act». Con una giustizia civile con i tempi del Gabon, le imprese italiane non cresceranno e non creeranno posti di lavoro. E, senza una scuola italiana che si adeguerà al lavoro che cambia, le imprese continueranno a non trovare nei giovani le competenze per il 21° secolo, che non sono le professionalità tecniche, ma le capacità cognitive, l’etica del lavoro, la capacità di lavorare con gli altri e comunicare. Cose che oggi la scuola italiana insegna poco e male.

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mercoledì 15 gennaio 2014

Job Act: prime considerazioni

Le persone più attente alla proposta di Renzi sul lavoro hanno colto aspetti positivi, espresso attenzione, desiderio di conoscere il piano in modo completo e non hanno lesinato proposte di miglioramento, richieste espressamente da Renzi. Ritengo che tale approccio sia giusto perché è costruttivo.
Altri invece vogliono ricondurre il Job Act ai documenti della passata gestione del Pd o alle proprie posizioni personali con una forma di egocentrismo. Tale posizione è incapace di guardare il futuro del lavoro in Italia e non prende in considerazione nuovi strumenti per affrontare l’iniquità del mercato del lavoro che si è prodotta fino ad oggi. Tra questi si citano l’alto tasso di disoccupazione in particolare quella giovanile e l’ampliamento a dismisura dell’area del lavoro precario. Questi fenomeni significano che le politiche economiche del passato sono fallite e che le regole e le norme del lavoro precario non sono servite a contenere ed a porre sotto controllo tale fenomeno caratterizzato dall’insicurezza e dalla incertezza delle nuove generazioni verso il futuro.
Le regole per essere efficaci devono essere applicabili e non devono ampliare l’area della non applicabilità della legge. Pertanto, se le norme che regolano il lavoro precario consentono di nascondere un rapporto di lavoro dipendente sottostante e di sfruttare le nuove generazioni al fine di trarne vantaggio sul costo del lavoro vanno abolite o nel migliore dei casi rivisitate.
Il documento di Matteo Renzi non si limita a dettare nuove regole del mercato del lavoro ma interviene a favore delle imprese e della creazione di nuovi posti di lavoro in quanto “non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori”. Infatti interviene sui costi di produzione delle imprese per renderle più competitive nel mercato globale (energia, tasse, burocrazia ecc.) e sul costo del lavoro (tasse, cuneo fiscale). Inoltre individua i settori da sostenere con azioni operative e piani industriali (cultura, turismo, agricoltura e cibo, made in Italy, Ict, green economy, nuovo welfare, edilizia, manifattura). Tali interventi dovrebbero consentire l’aumento della base occupazionale.
Le nuove regole del mercato sono finalizzate ad introdurre nel sistema equità, il superamento del dualismo tra lavoratori protetti e lavoratori precari ed a ripensare e, quindi, cambiare gli istituti che non corrispondono a tali obiettivi.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro occorre considerare che fino a questo momento una efficace politica attiva del lavoro non è stata mai attuata in Italia se non in modo marginale ed inconcludente. La politica passiva del lavoro è presente nel nostro paese e non è integrata dalla riqualificazione professionale e dalla rioccupazione. Pertanto, la condizionalità delle prestazioni a sostegno del reddito è evanescente per assenza di una politica outplacement.
Matteo Renzi è stato il primo politico in Italia che ha introdotto la valutazione del tempo (velocità) nell’attuazione delle politiche. Nel caso particolare sembra che Renzi sia contenuto e cauto in un momento in cui l’occupazione è il primo vero problema dell’Italia. Faccio riferimento specifico a:
- “Semplificazione delle norme. Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero”. Si ritiene che tale intervento possa essere effettuato entro il mese di giugno per accelerare gli effetti di tale soluzione;
- “Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Anche in questo caso vanno indicati tempi certi e brevi. Le attività che formano il processo non sono indicate e si spera che il processo sia snello e veloce.
La semplificazione amministrativa e la trasparenza di cui si parla nel documento sono fattori fondamentali per attrarre gli investimenti esteri in Italia.
I servizi di outplacement, la riqualificazione dei centri per l’impiego, la formazione professionale sono tutti fattori dai quali dipende una efficace politica del lavoro. Nel caso contrario si investono risorse con risultati improduttivi sul piano occupazionale.
Le regole espresse nel documento sono senz’altro positive ma occorre approfondirle e completarle.
Occorre tenere presente che alcune proposte di Renzi sono già presenti nell’ordinamento: l’assegno universale (Aspi), condizionato all’accettazione del posto di lavoro, che sostituisca le altre forme di prestazioni a sostegno del reddito (indennità di mobilità, cassa integrazione in deroga). La Cig ordinaria contrazione del mercato, intemperie stagionali) e straordinaria (ristrutturazione aziendale) deve essere riportata alla sua funzione originaria di garantire il sostegno del reddito quando c’è realmente la prospettiva di riprendere il lavoro nella medesima azienda. Quindi, basta alla Cig in deroga per lunghi periodi di tempo che non consente ai lavoratori sospesi di riprendere il lavoro nella stessa azienda, di rientrare nel mercato del lavoro e di riqualificarsi. Quest’ultima forma di sostegno fa aumentare il lavoro nero, svaluta la professionalità ed il potere contrattuale dei lavoratori.
Attualmente i Centri per l’impiego registrano 9.865 dipendenti ed un costo di 464 milioni di cui per tre quarti destinato agli stipendi. Tali strutture sono fuori dal mercato e non posseggono le capacità e la professionalità per attuare una politica attiva del lavoro (rioccupazione e riqualificazione professionale). Senza una politica attiva del lavoro qualunque cambiamento delle regole del mercato del lavoro risulta infruttuoso. Per tali motivi ritengo che la proposta del senatore Pietro Ichino sul contratto di ricollocazione vada presa in considerazione perché consente, come dichiara lo stesso Ichino: 1)una stretta cooperazione fra uffici pubblici e agenzie private specializzate nell’assistenza intensiva ai disoccupati; 2) la possibilità per questi ultimi di scegliere liberamente l’agenzia da cui farsi assistere, tra quelle accreditate; 3)il pagamento del servizio da parte della Regione soltanto a risultato ottenuto; 4)un controllo efficace circa la disponibilità effettiva del disoccupato, dalla quale, entro limiti ragionevoli, deve essere fatta rigorosamente dipendere l’indennità di disoccupazione”.
Ritengo inoltre che la ripartizione delle competenze sul lavoro tra lo Stato e le Regioni vada rivista perché non ha funzionato ed è necessario realizzare una politica del lavoro unitaria e non inefficace e diversificata.
Per quanto riguarda la formazione professionale si ritiene che vadano introdotti alcuni indicatori di efficacia esempio la misurazione delle persone che si sono occupate grazie ai corsi di formazione professionale) e realizzati rapporti di collaborazione stretti e proficui tra le imprese e gli enti che gestiscono la formazione al fine di considerare le esigenze professionali delle imprese nell’attività formativa.
Il Job Act ha il merito di aver introdotto come priorità il lavoro nel dibattito politico con proposte che non sono ortodosse e che possono realizzare un nuovo equilibrio nel mercato del lavoro, abbandonando vecchie regole e strumenti che hanno ingessato il mercato del lavoro e mortificato l’equità tra i lavoratori, i disoccupati ed i lavoratori precari.
Adesso aspettiamo il documento completo per analizzarlo e capire il cambiamento che si vuole realizzare.

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domenica 12 gennaio 2014

Jobs Act: direzione giusta senza indugi

Articolo di Pietro Ichino pubblicato su l’Unità il 10 gennaio 2014
Il Jobs Act di Renzi muove nella direzione giusta, quella di una protezione della sicurezza economica e professionale della persona che lavora che non può più essere costruita sull’ingessatura del rapporto, come facevamo 30 o 40 anni fa. Oggi essa deve essere fondata su di un robusto sistema di assistenza alla persona nel passaggio da un lavoro a un altro: sostegno del reddito e assistenza efficace nella ricerca del nuovo posto. Questa è la nuova frontiera della difesa del lavoro e il neo-segretario del PD sembra averlo capito benissimo. Ma se questa è la scelta, perché tanta esitazione nel compierla? Perché non dire chiaramente che occorre coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale della persona nel mercato del lavoro? Nell’annuncio di Renzi si legge che si avvia un “processo verso il contratto a tutele crescenti”. Che cosa significa questa criptica concessione al peggior linguaggio “sindacalese”?
L’unica leva di cui oggi disponiamo per un forte aumento della domanda di lavoro è aprire l’Italia agli investimenti stranieri, ai quali siamo ermeticamente chiusi. Potremmo proporci ragionevolmente, guardando a quel che accade nel resto di Europa, di avere ogni anno un flusso di 50-60 miliardi di investimenti in più. Anche su questo punto concordo con Renzi: occorre migliorare le amministrazioni pubbliche, incominciando dalla giustizia, e ridurre i costi dell’energia. Ma occorre anche un mercato del lavoro molto più fluido e ben funzionante. E una legislazione semplice, traducibile facilmente in inglese e allineata ai migliori standard europei. Occorre quel Codice semplificato del lavoro che Renzi presentò con me a Firenze il 15 novembre 2012: un testo sul quale ovviamente si può e deve ancora lavorare, ma che – se la volontà politica è ancora quella, può benissimo essere varato nei tre mesi ripetutamente promessi durante la campagna per le primarie. Perché, dunque, quei tre mesi ora si sono allungati a otto, rinviando tutto a un autunno che mai come in questo gennaio appare lontanissimo?
Veniamo all’“assegno universale di disoccupazione” con le nuove regole annunciate da Renzi per chi vuole beneficiarne. In realtà l’assicurazione universale contro la disoccupazione per tutto il lavoro dipendente esiste già: è l’Aspi, introdotta dalla riforma Fornero, che già richiede, in teoria, disponibilità alla riqualificazione professionale e alle offerte di lavoro. Il vero problema è quello di rendere operante questa “condizionalità”. Ed è una questione che non si risolve dettando regole burocratiche nella Gazzetta Ufficiale, per tutti e una volta per tutte. La disponibilità che può e deve essere chiesta al lavoratore non può che variare molto da caso a caso, secondo le circostanze. Il metodo più corretto ed equo per sciogliere questo nodo, stando alle migliori esperienze del centro e nord-Europa, è quello “contratto di ricollocazione” tra lavoratore, centro per l’impiego pubblico e agenzia privata specializzata: sarà interessante vedere se il Jobs Act lo farà proprio.
Infine una delusione: quell’accenno agli “oltre 40 tipi di contratto di lavoro”, che andrebbero sfrondati per combattere il precariato. Una curiosa concessione di Matteo alla leggenda metropolitana, secondo la quale i tipi di contratto di lavoro possibili sarebbero stati moltiplicati a dismisura dalla legge Biagi del 2003. Ho sempre sfidato i sostenitori di questa duplice sciocchezza a indicare quali sarebbero gli oltre 40 tipi di contratto di lavoro e quali, in particolare, quelli istituiti ex novo dalla legge Biagi, che non fossero soltanto vecchi tipi cui quella legge ha soltanto dato un nuovo nome e nuove regole. Nessuno è stato mai in grado di raccogliere questa mia sfida, perchè in realtà A) le forme giuridiche di contratto di lavoro in Italia non superano la quindicina; B) esse preesistono tutte alla legge Biagi, anche se alcune sono state da questa rinominate e ri-regolate. Un consiglio al neo-segretario del PD: stia alla larga dai luoghi comuni, che hanno fatto danni incalcolabili alla sinistra italiana.

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mercoledì 8 gennaio 2014

Lavoro: semplificazione, riforme e equità

Articolo di Beppe Severgnini pubblicato sul Corriere della Sera il 7 gennaio 2014
Le discussioni sulla legge elettorale, per quanto indispensabili, rischiano di esasperare gli italiani. Chi ha due figli a casa, che da mesi cercano inutilmente un impiego, non può apprezzare gli esoterismi del sistema spagnolo o le discussioni sul modello tedesco modificato. Occorre, nel 2014, sbloccare il mercato del lavoro. Tutti i partiti, a parole, dicono di rendersene conto. Talvolta sono le parole sbagliate – Jobs Act ! ancora inglese, perché? E soprattutto, quali sono i contenuti? – ma è chiaro: il 41% di disoccupazione giovanile ha smesso d’essere una preoccupazione. È una bomba sociale a orologeria.
Chiunque abbia provato ad assumere un ragazzo conosce l’odissea cui sono costretti datore di lavoro e lavoratore.
L’apprendistato - il fiore all’occhiello del governo Monti, in Germania la porta d’ingresso al mondo del lavoro - deve passare sotto le forche caudine di dodici (12!) autorizzazioni. Il part-time non ha mai preso piede (e molte aziende non lo concedono). I contratti a progetto sono spesso una farsa, che nasconde la totale assenza di un progetto. I contratti a termine riguardano ormai cinque rapporti di lavoro su sei: ma generano quel precariato cronico che sta azzoppando due generazioni. Restano i classici contratti a tempo indeterminato. I neolaureati che entrano così in azienda sono scesi dal 20% del 2004 al 5% del 2012: una percentuale irrisoria.
Perfino lo stage – la cui importanza non dev’essere sottovalutata: nove ragazzi su dieci passano di qui – è stato burocratizzato. La legge 148/2011 prevede che il datore di lavoro sia solo il tutor (sic) di un rapporto tra un’associazione di categoria e lo stagista. I due sono costretti a operare fianco a fianco: la legge ignora che, nel XXI secolo, il lavoro si svolge spesso a distanza e in movimento. Lo stagista, infine, deve pagare imposte sul reddito anche su un compenso di 500 euro mensili. Davvero questo Stato vorace vuole aiutare i ragazzi italiani? È necessario un Codice del Lavoro semplificato, integrato nel Codice Civile, tradotto – quindi, chiaro e traducibile – in inglese, come chiede l’Unione Europea. Un progetto è stato presentato nel 2009 da 54 senatori, e il Senato nel 2010 ha approvato una mozione in tale senso. L’idea è stata lodata da tutti, a destra (Berlusconi), a sinistra (Renzi) e nel sindacato (Uil). Tanto per cambiare, non è accaduto nulla.
I sindacati devono fare la loro parte. Non possono continuare a difendere i buchi neri delle aziende municipalizzate e, in genere, a proteggere chi è già protetto, ignorando chi è da sempre ignorato: i milioni di lavoratori atipici che si dibattono tra contratti astrusi. Centinaia di norme, infatti, si sono stratificate nel tempo, e oggi la legislazione del lavoro è così complessa da risultare comprensibile solo agli esperti.
La via d’uscita? Esiste, e se n’è parlato. Un contratto unico di ingresso, nessuno inamovibile, ma garanzie crescenti nel tempo, condizionate alla disponibilità del lavoratore alla riqualificazione e alla ricollocazione. Lungo il percorso, un servizio di orientamento professionale, capillare ed efficace.
Si può fare, il governo Letta ha la sua grande occasione. Gli inglesi, anche grazie al nudging (incoraggiamento individuale), ci stanno riuscendo. Noi italiani non siamo né più pigri né più stupidi. Siamo solo legati. E come i contorsionisti del circo, in questo modo, stiamo affondando. Ma i contorsionisti, alla fine, si liberano e riemergono. Noi rischiamo di restare, malinconicamente, sul fondo.

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Riforme per contrattare con l’Europa

Articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera il 5 gennaio 2014
Nel triennio 2011-2013 il Regno Unito ha ridotto la spesa pubblica di 13,8 miliardi di sterline (16,6 miliardi di euro) e aumentato le imposte di solo un miliardo. Con quali risultati? La disoccupazione ha cominciato a scendere: 7,6% nel novembre 2013,il valore più basso da tre anni in qua. E non perché lavoratori scoraggiati abbiano smesso di cercare lavoro, come succede in parte anche negli Stati Uniti: è cresciuto sia il numero di coloro che partecipano al mercato del lavoro (dal 70 al 72% nel periodo) sia il numero degli occupati: un milione in più. E ciò nonostante il numero dei dipendenti pubblici sia sceso, sempre in un triennio, di circa 400.000 unità, dimostrazione che se il mercato del lavoro funziona non necessariamente una riduzione del numero di dipendenti pubblici fa crescere la disoccupazione. E la spiegazione non può essere che il Regno Unito è fuori dall’euro e quindi ha potuto svalutare (del 15% circa): l’Irlanda è parte dell’euro e non ha potuto farlo, e ciò nonostante - grazie ad un aggiustamento attuato per lo più (76%) tagliando le spese - oggi cresce a una velocità doppia della media dell’Unione monetaria.
Negli stessi anni i governi di Parigi, in particolare quello di Hollande, hanno cercato di correggere i conti pubblici operando per lo più tramite aumenti della pressione fiscale: il 70% dell’aggiustamento francese nel triennio 2011-13 è stato dovuto ad aumenti di imposte. Il risultato? La disoccupazione continua a salire: dal 9,6% nel 2011 all’11% oggi. E mentre nel resto dell’area euro (persino in Grecia) l’industria manifatturiera dà segni di riprendersi, in dicembre l’indice Pmi francese (che riflette le attese dei responsabili acquisti delle imprese nel settore manifatturiero) ha raggiunto il livello più basso da sette anni a questa parte.
È con una comprensibile soddisfazione che il primo ministro inglese, David Cameron, ha scritto il 2 gennaio sul Times: «Abbiamo ripreso a crescere grazie ad una politica economica che ha voltato le spalle a chi voleva più spesa pubblica e più debito. Per convincersi di quanto avessero torto basta confrontare ciò che sta succedendo nel Regno Unito con quanto accade nei Paesi i cui governi hanno ceduto all’illusione della spesa e del debito». E in quelli, aggiungeremmo noi, che hanno aggiustato i conti solo aumentando le imposte, come Italia e Francia.
Lo stesso giorno, il 2 gennaio, Matteo Renzi diceva, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento». Bisogna essere molto più precisi, altrimenti anche questa rischia di rivelarsi una pericolosa illusione a cui nessuno a Bruxelles crederà. Siamo stati (crediamo) i primi a proporre, il 17 maggio su questo giornale, una strategia di politica economica che contempli un nuovo negoziato con Bruxelles e un temporaneo superamento del vincolo del 3% sul deficit dei conti pubblici. Scrivevamo che anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse (come avviene da un ventennio, e continua tuttora con la legge di Stabilità di due settimane fa) il governo avrebbe dovuto proporre a Bruxelles una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi (quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco), accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali, della spesa, e riforme coraggiose, soprattutto del mercato del lavoro, da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. Riducendo i sussidi improduttivi (che valgono, fra incentivi diretti e agevolazioni fiscali qualche decina di miliardi) e avviando un piano di liberalizzazioni, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. E, parallelamente, le dismissioni di immobili e le privatizzazioni di cui tanto si parla, ma solo se ne parla.
Per farci approvare dall’Europa un piano simile dobbiamo però presentarci a Bruxelles dopo aver approvato i tagli di spesa e con obiettivi numerici, scadenze temporali e meccanismi istituzionali che ci obblighino a farle davvero queste riforme di cui tutti parlano ma sempre attenti a non scontentare nessuno. Il problema è che finora questo non lo abbiamo saputo fare. L’irritante vaghezza e i continui rinvii di Letta e Saccomanni lo confermano. La discesa dello spread al di sotto dei 200 punti è magra soddisfazione per un Paese che dal 2007 ha perso quasi il 10 per cento di reddito. Forse la stangata fiscale del governo Monti e, soprattutto, le rassicurazioni della Bce, sono servite a calmare temporaneamente i mercati riguardo a un eventuale ripudio del debito. Ma il 133 per cento di rapporto debito su Pil, anche con tassi relativamente bassi (per ora), rimane un fardello che uccide la crescita. Dichiarare vittoria perché lo spread e sceso è un altro pessimo esempio della nostra tendenza ad adagiarci non appena ci si allontana di qualche passo dal baratro.
La cattiva abitudine a rinviare sempre tutto, a parte le maggiori imposte, è la ragione della nostra scarsa credibilità in Europa. Ad esempio, dopo l’ingresso nell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono crollati: il debito ci costava l’11,5% del prodotto interno lordo nel 1996, questo costo è sceso sotto il 6% dopo l’ingresso nella moneta unica. Avremmo dovuto approfittarne per ridurre il peso del debito, tagliando la spesa. Non lo abbiamo fatto e abbiamo sprecato un’occasione d’oro. Invece di ridursi, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita di più di tre punti di Pil (dal 39,6% nel 2000 al 43% nel 2003). Questi erano anni in cui l’economia (cioè il denominatore del rapporto spesa/Pil) cresceva: ma il numeratore saliva ancor più rapidamente. Quando la crescita si è fermata, il rapporto spesa su Pil è continuato ad aumentare raggiungendo il 46 per cento di oggi. Abbiamo così dimostrato che non appena ci ritorna un po’ di respiro e di tempo subito ci adagiamo: è questo che l’Europa teme. L’unico successo, e non da poco, va detto, è stata la riforma pensionistica.

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martedì 7 gennaio 2014

La bicicletta concorre a salvare l’ambiente

Diego Zardini primo firmatario, Paolo Gandolfi ed altri 24 deputati  hanno presentato una proposta di legge per promuovere l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro.

La proposta di legge si propone l’obiettivo di sostenere l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro con l’eliminazione delle condizioni che rendono impossibile il riconoscimento dell’indennizzo per infortunio in itinere.
Infatti, la normativa vigente riconosce l’infortunio in itinere e la relativa indennità per coloro che usano la bicicletta solo nel caso in cui vi è l’uso necessitato di tale mezzo di trasporto (piste ciclabili, sciopero dei mezzi pubblici e altro).
La proposta di legge propone l’eliminazione dell’uso necessitato della bicicletta per recarsi al lavoro nel caso di incidente nel percorso casa, lavoro, casa e di conseguenza faciliterebbe l’uso di tale mezzo.
Con i livelli di polveri sottili ed altri inquinanti, dichiara Lorenzo Dalai consigliere della Provincia di Verona, sempre oltre i limiti cercare di attuare anche la più piccola misura che vada a limitare il traffico automobilistico privato è senz'altro encomiabile. Purtroppo fino ad oggi si sono invocate "misure strutturali" e con questo alibi nulla è stato messo in cantiere. L'iniziativa di garantire la copertura assicurativa a chi decide di utilizzare la bicicletta per andare al lavoro è senz'altro piccola cosa di fronte alla gravità del problema, ma ha il grande merito di dare concretezza ad un disegno, che, partendo appunto da misure reali, seppur non eclatanti, può far capire che la direzione intrapresa è quella che nel nord Europa vede appunto una parte consistente dei lavoratori utilizzare la bicicletta come mezzo di trasporto ideale: silenziosa, non inquinante, economica, salutistica. Cominciamo da qui e, senza soste, lavoriamo per una mobilità alternativa e sostenibile!
“Accrescere sempre più il numero delle persone che utilizzano la bicicletta per recarsi al lavoro, soprattutto in città, è un passo avanti importante per la nostra comunità, afferma Matteo Avogaro. Dal punto di vista della tutela dell'ambiente e della salute. Naturalmente, l'invito ad utilizzare la bicicletta deve corrispondete ad una modifica delle leggi che spinga le persone a fare questo passo. Ed è qui che si rivela la qualità e l'importanza della proposta di Diego Zardini. Un'ottima iniziativa, che dimostra come Diego e gli altri estensori del progetto sappiano occuparsi, in Parlamento, di temi che toccano la vita concreta e quotidiana dei cittadini. E di saperlo fare nel modo migliore".
Luca Granzarolo richiama l’impegno degli enti locali: "La Proposta di legge di cui Zardini è primo firmatario è fondamentale, perché costituisce un elemento di modernizzazione del nostro Paese e ha importanti ricadute sulla vita di tutti noi. Rappresenta un incentivo all'utilizzo della bicicletta, con conseguenze positive per la salute delle persone e per dell'ambiente. Tuttavia è anche importante pensare a una seria e completa rete di piste ciclabili che attraversi Verona, per rendere effettiva e concreta la possibilità di spostarsi in bicicletta. A questo scopo dovranno impegnarsi i consiglieri circoscrizionali e comunali".
“A livello europeo sono numerosi gli esempi di normative tese a favorire l’uso della bicicletta, dichiara Yared Ghebremariam-Tesfau, come mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, realtà grandi, come Barcellona o Amsterdam, e realtà meno grandi, come Friburgo, con questo tipo di iniziativa hanno ottenuto una considerevole riduzione del numero di automobili con tutti i vantaggi che da questo comporta. Prendendo questi esempi virtuosi a modello, è giunto il momento di iniziare a valorizzare davvero questo tipo di trasporto e non limitarci a qualche isolata pista ciclabile o a qualche imbarazzante surrogato di bike sharing”.
A sostegno della proposta di legge è nato un gruppo in Facebook “Al lavoro in bicicletta” che in pochi giorni ha raccolto il consenso di 1.335 persone e tra questi i gruppi amanti della bicicletta sparsi in tutt’Italia.
Numerosi sono stati i commenti degli aderenti e tra questi si riportano i seguenti:
- il mio direttore arriva al lavoro in bici, anche io lo faccio da S. Massimo a corso Porta Nuova con il bel tempo. La salita di via San Marco, però è troppo irta e spesso porto la bici a mano;
- trovo che quando vado a lavoro in bici guadagno in umore, salute ,finanza, felicità, tempo, e tanta goduria nel vedere i miei fratelli ingabbiati e incazzati nelle loro lussuose scatole di ferro!!;
- Awsome!!! cioè.... che figata.... andare al lavoro in bici! Ma quanto sono più rincoglioniti di noi i colleghi che usano l'auto per fare 1 km. Prima di carburare di la dalla scrivania impiegano tempo e caffè mentre noi arriviamo già pimpanti ed energizzati. Diffondiamo il verbo;
- Oltre al problema dell'infortunio in itinere, occorrerebbe incoraggiare la pratica economicamente o con un incentivo economico all'olandese o con una riduzione delle imposte sul reddito (come succedeva a mia figlia quando lavorava a Berlino);
- Vivo a Mestre e lavoro da 13 anni a Treviso. Da Treviso a Mestre vi sono circa 25 KM che ho fatto per diversi anni in bicicletta quasi tutti i giorni. Ma ho dovuto smettere: 1) In Italia vi è la Libertà di rubare le biciclette. Spendo troppo a dover ricomprare biciclette (i catorci non attirano i ladri, ma vanno bene solo per andare in bar o in stazione dei treni). La soluzione si chiama chip identificativo ma i politici italiani sono per la Libertà di Furto 2) Furgoni e SUV guidati da rampante con cellulare incollato all'orecchio che guidano come pazzi ubriachi: si rischia la vita. 3) Inquinamento dell'aria: in inverno si arriva al lavoro con gli occhi rossi che bruciano. In Italia tanti tifano per la Libertà d'Inquinare (industrie, impianti di riscaldamento, camion stranieri, furgoni antidiluviani, scooter a due tempi);
- Bisogna sensibilizzare le imprese pubbliche e private affinché mettano a disposizioni dei parcheggi custoditi per le biciclette;
- Bella proposta, speriamo che possa andare a buon fine. Includete qualcosa che stimoli (o obblighi) i comuni a creare piste ciclabili, incroci adatti ai ciclisti, vie preferenziali e così via, in modo da rendere conveniente l'utilizzo della bici rispetto alla macchina!
Dai commenti si evince che occorre impegnarsi e mobilitare le persone affinché la proposta di legge venga approvata e non dimenticata come è successo con la precedente proposta predisposta da Fiab. Inoltre è necessario attuare una politica territoriale della mobilità sostenibile e sensibilizzare le imprese a mettere a disposizione dei parcheggi custoditi e coperti a favore dei propri dipendenti che usano la bicicletta.
Il primo obiettivo è quello di ampliare il gruppo “Al Lavoro in bicicletta” in Facebook affinché la proposta venga conosciuta e sostenuta dai cittadini e dalle associazioni ciclistiche.

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Politica attiva del lavoro per non dimenticare i disoccupati

Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 6 gennaio 2013
Caro Direttore, tra i (non molti, per la verità) meriti di dettaglio della legge di stabilità varata a fine 2013 c’è una disposizione apparentemente di poca importanza, ma che può invece significare moltissimo per il mercato del lavoro italiano nel prossimo futuro: mi riferisco al comma 215, che promuove l’esperimento regionale del “contratto di ricollocazione”.
L’importanza di questo esperimento sta nel fatto che esso avrà per oggetto quattro cose utilissime, finora per lo più sconosciute in Italia: 1)una stretta cooperazione fra uffici pubblici e agenzie private specializzate nell’assistenza intensiva ai disoccupati; 2)la possibilità per questi ultimi di scegliere liberamente l’agenzia da cui farsi assistere, tra quelle accreditate; 3)il pagamento del servizio da parte della Regione soltanto a risultato ottenuto; 4) un controllo efficace circa la disponibilità effettiva del disoccupato, dalla quale, entro limiti ragionevoli, deve essere fatta rigorosamente dipendere l’indennità di disoccupazione.
Queste quattro cose sono oggetto di un vero e proprio contratto tra la persona interessata, l’agenzia privata e il centro per l’impiego pubblico. L’agenzia si obbliga a fornire il servizio di assistenza per la riqualificazione e rioccupazione, che viene retribuito con un voucher regionale pagabile solo a seguito dell’occupazione effettiva del lavoratore per un periodo di almeno sei mesi. L’importo del voucher è determinato in riferimento al grado di difficoltà del reinserimento del disoccupato (stabilito preventivamente dal centro per l’impiego sulla base di parametri oggettivi e facilmente applicabili). La persona interessata si impegna a dedicare quotidianamente alla ricerca del nuovo posto e al percorso di riqualificazione un tempo pari a quello del lavoro cui aspira. In questo percorso sarà affiancata da un tutor, cioè un esperto dell’agenzia che giorno per giorno la indirizzerà e ne verificherà la disponibilità effettiva; e che avrà il compito di denunciarne un eventuale ingiustificato rifiuto del nuovo posto di lavoro o del percorso per accedervi, ai fini della sospensione dell’indennità di disoccupazione.
La novità più interessante di questo metodo – sperimentato con successo in Olanda – sta nel meccanismo di determinazione automaticamente equilibrata del grado della disponibilità che può e deve essere richiesta al disoccupato, in relazione alle condizioni del mercato del lavoro locale. Come si è visto, la figura chiave in questo meccanismo è il tutor, al quale il contratto di ricollocazione assegna il compito di stabilire le occasioni di occupazione, e i percorsi di formazione ad esse mirata, che il disoccupato non può ragionevolmente respingere, tenuto conto di tutte le circostanze. L’agenzia che per attirare più disoccupati applicasse criteri troppo compiacenti nei loro confronti si esporrebbe al rischio di non conseguire il risultato utile della loro ricollocazione effettiva, così lavorando in perdita: il voucher potrà infatti essere incassato soltanto a risultato ottenuto. Per altro verso, se l’agenzia stessa adottasse criteri di valutazione irragionevolmente severi, i disoccupati ne preferirebbero un’altra che, adottando criteri più ragionevoli, riesca tuttavia a ricollocarli in tempi accettabili. In altre parole, il regime di concorrenza che si instaura tra le agenzie accreditate tende a produrre l’equilibrio ottimale, proprio per la persona assistita, tra disponibilità del tutor a tener conto delle sue esigenze e aspirazioni, e prospettiva di un suo reinserimento rapido nel tessuto produttivo.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché la nuova norma stanzia soltanto 15 milioni per questo esperimento nel 2014, a fronte di quasi un miliardo stanziato per le politiche del lavoro “passive”, cioè di puro e semplice sostegno del reddito dei disoccupati, senza alcuna condizionalità né alcuna misura attiva per il loro reinserimento. La speranza è che le Regioni si affrettino comunque ad avviare la sperimentazione del contratto di ricollocazione, destinando ad essa una parte delle ingenti risorse fino a oggi destinate a servizi di formazione professionale di cui nessuno controlla il contenuto e gli esiti. Ci si accorgerà, così, che questo nuovo metodo per affrontare il problema della disoccupazione si ripaga da solo, anzi genera risparmi, insieme a risultati molto migliori per i lavoratori interessati. Perché se è vero che l’assistenza intensiva offerta dalle agenzie specializzate costa cara, è però evidente che “mettere in freezer” i disoccupati per anni e anni a fondo perduto costa molto di più a tutti: ai disoccupati stessi per primi.
Si può poi sperare che, in corso d’opera, un po’ di quel miliardo stanziato dalla legge di stabilità per le politiche “passive” venga spostato su questa misura di politica “attiva”. Anche perché l’Italia ha fame e sete di mobilità della forza-lavoro dalle aziende in declino a quelle in fase di sviluppo: le quali stanno per fortuna ricominciando a prevalere sulle prime, ma oggi paradossalmente incontrano molte difficoltà per trovare la manodopera qualificata di cui avrebbero bisogno.

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domenica 5 gennaio 2014

Fassina si dimette

Non bisogna dimenticare che Fassina spesse volte è stato scorretto ed offensivo con gli esponenti del PD che nella precedente gestione esprimevano opinioni diverse dalle sue.
Le sue dimissioni danno una risposta immediata al suo orgoglio e rispondono all’esigenza di uscire dal Governo che in diverse occasioni ha manifestato direttamente o indirettamente. Per Fassina sembra che il congresso del PD non si sia concluso. Inoltre Fassina ha perso la sicurezza che lo accompagnava quando era in maggioranza con Bersani nel PD. Questo denota che abbia più di qualche difficoltà ad esprimere una linea politica che aggreghi in una posizione di minoranza.
Occorre tenere presente che Fassina ha espresso in diverse occasioni riserve nei confronti del Governo e della sua presenza nel Governo. Aveva già tentato di dimettersi.
Fassina ha scelto il momento e l’occasione sbagliata per dimettersi.
Ho visto ed ascoltato il video con le dichiarazioni di Renzi e si evince chiaramente che Renzi ha dichiarato: “Rimpasto pausa Chi?”. Non capisco perchè i giornali riportano invece “Fassina chi?”.
Interessante la dichiarazione di Matteo Orfini: Ho appreso la notizia dalle agenzie, non le ho capite" Matteo Orfini non usa mezze misure nel commentare l'addio al governo dell'ex vice ministro dell'Economia Stefano Fassina. Non condivide la scelta del suo compagno di mozione (insieme avevano appoggiato Cuperlo alle ultime primarie del Pd). La definisce "inconcepibile nei tempi e nei modi". "Avrei capito -dice - avesse deciso di lasciare su questioni legate a contenuti, a decisioni prese dal governo invece lo ha fatto su una polemica congressuale, di contrasto nei confronti della linea del nuovo segretario. Io - aggiunge - non l'avrei fatto".
Fassina era tra coloro che sostenevano la tesi di sopportare il Governo Letta. Si vede che il suo orgoglio gli ha fatto perdere di vista questo suo importante obiettivo.
La mia amica giornalista Eleonora Voltolina dichiara: “Caso Renzi, son tutti fuori di testa? Prima di parlare qualcuno si è preso la briga di guardare il video di 10 secondi che immortala il passaggio “incriminato” della conferenza stampa? Avrebbe scoperto che la frase “Fassina chi?” non é mai stata pronunciata. Cioè i vari Giannini stanno commentando sul nulla. E anche tanti, troppi altri. Un consiglio spassionato: imparate a ricercare le fonti prima di sentenziare pareri. Così si evitano figure barbine, e si resta sui contenuti”.
Cristiana Alicata dichiara nel suo blog: “Ho visto il video incriminato del “Fassina chi?”, mi viene da dire “Giornalisti chi?”
Mi pare il tipico caso montato ad arte, spiace che Fassina ci sia cascato.
Renzi dice: “Chi?” (e in effetti non si sente bene dalla domanda del giornalista) e non “Fassina chi?” come sta uscendo da tutte le parti. E soprattutto non ride, sono i giornalisti ad avere riso e ad avere montato (così a me pare) ad arte una polemica.
Ora io mi chiedo:vi rendete conto che stiamo parlando di questo e non del contenuto del Job Act? O di quale legge elettorale? Spero Renzi e Fassina si sentano a telefono, si chiariscono e si ricominci a parlare di politica.
Se poi le dimissioni sono date per la linea PD, ripeto a Stefano Fassina la mia domanda: al governo con Alfano e prima con Berlusconi sì e nel PD con Renzi no?
Spero false voci di partitello turco.
Non è nella cultura del PD che vogliamo e nessuno vuole mandare via nessuno, siamo bipolaristi, quindi la dialettica anche dura e il conflitto fanno parte dell’idea del partito che abbiamo. Che, appunto, è diversa da quella precedente dove la conflittualità era peccato mortale”.
Non si è mai verificato che la maggioranza di un partito, in questo caso il PD, rappresenti nel Governo tutto il partito. In questo caso Fassina si è inventato una nuova regola del terzo millennio.

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