mercoledì 30 aprile 2014

Dal cambiamento delle PA alla competitività del paese


 
Il Governo Renzi ed il ministro della Pubblica Amministrazione, Mariamma Madia,  sono impegnati a predisporre, valutare e varare la riforma delle Pubbliche Amministrazioni. Questo obiettivo è molto importante perché il livello di efficienza ed efficacia della macchina pubblica incide notevolmente sui costi dei cittadini e delle imprese e sulla competitività del sistema Italia. Per accelerare la crescita del paese e superare gli ostacoli che si frappongono a tale obiettivo occorre affrontare e risolvere le problematiche che bloccano la competitività del paese.
Diego Zardini, deputato veronese del Partito Democratico, ha presentato una proposta di legge al fine di introdurre obbligatoriamente il performance management con tutti i suoi strumenti nella gestione delle autonomie locali  ed avviare una fase di miglioramento negli enti locali, i quali sono il primo anello della catena dei rapporti con i cittadini.  
La proposta è stata sottoscritta da altri 15 deputati tra i quali il deputato veronese Gianni Dal Moro e Roger De Menech, segretario regionale del Partito Democratico del Veneto.
La riforma Brunetta ha fallito e non ha conseguito i risultati sperati di cambiamento delle PA in particolar modo per gli enti locali, i quali sono state destinatari di poche norme obbligatorie sulla trasparenza, le quali sono state abrogate dal D. Lgs. n. 33/2013, e di molte disposizioni facoltative che hanno consentito alla maggior parte degli enti territoriali  di mantenere lo status quo.
L’obiettivo della proposta di legge di Zardini è quello di ampliare l’area della trasparenza, di introdurre il sistema di misurazione e valutazione nelle autonomie locali, di costituire l’Organismo indipendente di valutazione, eliminando il Nucleo di Valutazione e gli organismi interni di valutazione, di realizzare il benchmarking tra gli enti  territoriali attraverso la definizione di  indicatori comuni di andamento gestionale degli enti locali, classificati per classi di popolazione, delle regioni e del Servizio sanitario nazionale.
Dopo circa quattro anni dalla riforma della PA, D. Lgs. n. 150/1999, si può affermare che ha avuto una scarsa incidenza sulle autonomie locali a causa dei pochi obblighi (art. 16, comma 1, del D. Lgs. n.150/2009 in materia di trasparenza), dei tanti principi ai quali gli enti interessati dovevano adeguare l’ordinamento (art. 16, comma 2, del D. Lgs. n. 150/2009) e della facoltà di adottare alcuni istituti, tra i quali l’Organismo indipendente di valutazione della performance, ed il sistema di misurazione e valutazione della performance, contenuti dal Decreto.
La maggior parte delle autonomie locali hanno scelto di enunciare i principi senza alcuna implementazione operativa, di trattare la trasparenza come un adempimento e di non introdurre, avendone solo la facoltà, alcuni istituti molto importanti per avviare un percorso di cambiamento.
Per conoscere ed approfondire la proposta di legge di Zardini si invita ad esaminare le slide.


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domenica 27 aprile 2014

Lavoro: la disoccupazione non aspetta

Intervista a Pietro Ichino a cura di Eleonora Voltolina, pubblicata sull’e-magazine Next Hr del sito repubblicadeglistagisti.it il 24 aprile 2014.
Lei sostiene da anni che il diritto del lavoro italiano sia troppo rigido e che gli interventi normativi degli ultimi vent’anni non abbiano semplificato abbastanza la disciplina dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Il decreto Poletti servirà a questo scopo?
Questo decreto-legge costituiva, nella sua formulazione iniziale, un buon inizio per il lavoro di abbattimento del muro che oggi ostacola l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Esso infatti abbatteva in gran parte il muro sul versante del contratto a termine, pur rinviando a un secondo tempo l’abbattimento del mura sul versante del contratto a tempo indeterminato. Poi, in sede di conversione in legge, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati è tornata a ricostruire un muretto di ostacoli e complicazioni in materia di contratto a termine.
In materia di contratto a termine, resta comunque la parte più rilevante del decreto, cioè la soppressione dell’obbligo di indicare la causale. Questo è un principio che lei considera giusto?
Nella logica dell’abbattimento del muro che oggi rende troppo difficile in Italia l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, la soppressione del controllo giudiziale della motivazione dell’apposizione del termine al contratto va nella direzione giusta. Per lo stesso motivo per cui è opportuno, secondo l’impostazione del problema proposta nell’ormai famoso saggio degli economisti Blanchard e Tirole, sopprimere il controllo giudiziale sul “giustificato motivo” del licenziamento: i giudici sono in grado di accertare il motivo effettivo di natura discriminatoria o di rappresaglia, ma non di valutare il motivo di ordine economico-organizzativo addotto dall’imprenditore per la cessazione del rapporto di lavoro o per l’apposizione di un termine finale. Questa è la ragione per cui Blanchard e Tirole propongono l’adozione del metodo del “filtro automatico”, cioè di un costo di separazione, che – fermo restando il controllo del giudice sulle eventuali discriminazioni o rappresaglie – costituisca al tempo stesso un vaglio delle scelte imprenditoriali in materia di cessazione del rapporto e un disincentivo alla pratica dell’“usa e getta”, ovvero dell’eccessivo frazionamento dei rapporti di lavoro.
E questo metodo del “filtro automatico” può essere applicato anche al contratto a termine?
Sì. Questa infatti è la mia proposta: istituire una indennità di cessazione del rapporto – per esempio: una settimana di retribuzione per ogni trimestre di anzianità di servizio – applicabile nel primo triennio sia nel caso del contratto a termine “acausale” non rinnovato, o non convertito in contratto a tempo indeterminato, sia nel caso del licenziamento nel contratto a tempo indeterminato. In questo modo si consentirebbe all’impresa di assumere molto più ampiamente e fluidamente a tempo indeterminato, sdrammatizzandosi la scelta tra contratto a termine e contratto stabile. Oggi la sicurezza economica e professionale del lavoratore non può più essere costruita con l’ingessatura del rapporto, come facemmo negli anni ’60 e ’70.
Il secondo fulcro della liberalizzazione del rapporto a termine contenuta nel decreto Poletti è la possibilità di reiterare per ben 8 volte (ridotte a 5 in sede di conversione in legge alla Camera), nell’arco di 36 mesi, un contratto di lavoro a tempo determinato acausale tra la stessa azienda e lo stesso lavoratore. Anche su questo principio lei è pienamente d’accordo? Non teme che questa facoltà porterà le aziende ad aumentare ancor di più la precarietà di questa tipologia contrattuale, riducendo la durata media dei contratti?
La tecnica protettiva del numero massimo di proroghe non è la migliore possibile. Se si adottasse quella del costo di separazione, di cui ho parlato prima, si potrebbe anche lasciare libere le parti di stabilire durata del rapporto e frequenza delle proroghe: la persona che lavora a termine avrebbe la stessa protezione prevista per quella che lavora a tempo indeterminato, costituita nel primo triennio da un’indennità di cessazione del rapporto. Per il resto, la sua sicurezza economica e professionale dovrebbe essere basata sulle garanzie di continuità del reddito e di assistenza intensiva nell’eventuale passaggio da un’azienda a un’altra. Nel sistema economico attuale la rigidità delle protezioni ha il solo effetto di creare precariato, come effetto della “vendetta del mercato” contro la rigidità stessa.
Se il decreto Poletti permette sette rinnovi entro i primi 36 mesi, lei però teme che ci sia ancora un rischio di contenzioso giudiziario. Qual è ad oggi l’incidenza di cause giudiziarie legate ai contratti a termine?
Non conosco il dato preciso, ma so che è abbastanza rilevante: una percentuale a due cifre rispetto al totale delle cause di lavoro.
Il centro studi Adapt ha evidenziato alcuni problemi di coordinazione fra le norme decreto Poletti e quelle precedenti in materia di contratti a termine: per esempio il rapporto tra l’ampliamento dell’istituto della proroga e il permanere inalterato della disciplina dei rinnovi e degli intervalli tra più contratti a termine successivi. A suo avviso, vige ancora l’obbligo di una pausa tra un contratto a termine e l’altro con lo stesso lavoratore, oppure si può concludere un contratto e riavviarne immediatamente un altro senza soluzione di continuità, così come è stato annunciato dal Pd?
Vedremo come il decreto uscirà dalla seconda lettura in Senato. Credo, comunque, che il risultato finale sarà nel senso che – secondo l’intendimento del Governo – il problema degli intervalli tra un contratto e l’altro risulterà superato.
Il decreto Poletti prevede anche che l’assunzione di personale a tempo determinato non possa superare il limite del 20% dell’organico complessivo: ma qui vi è molta incertezza sul calcolo della base di computo della percentuale del 20%. Andranno conteggiati tutti i dipendenti con tipologia contrattuale subordinata? O anche i collaboratori? Come dovranno regolarsi le aziende?
Andranno computati solo i subordinati. D’altra parte va anche considerato che, dopo l’entrata in vigore della legge Fornero del giugno 2012, l’elusione del diritto del lavoro mediante ricorso alla collaborazione continuativa autonoma si è notevolmente ridotta.
Rispetto all’apprendistato, le semplificazioni apportate vanno tutte nella giusta direzione? Molte voci del sindacato hanno denunciato che l’alleggerimento degli obblighi formativi non sarebbe un passo avanti. Ma secondo lei perché finora le aziende non hanno usato il contratto di apprendistato? E con queste semplificazioni davvero cominceranno a farlo?
La Camera ha modificato notevolmente il decreto per questo aspetto. Resta a mio avviso discutibile la norma che lascia sostanzialmente libere le Regioni di imporre un contenuto formativo oppure no. Credo comunque che in seconda lettura il Senato interverrà su questo punto del decreto.
Oltre al decreto legge Poletti, per sua stessa natura immediatamente entrato in vigore, ora sul tavolo delle riforme in tema di lavoro c’è il disegno di legge “Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità ed alla conciliazione”. Un suo primo giudizio complessivo sul ddl?
Avrei preferito un disegno di legge che puntasse esplicitamente a un nuovo testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro inserito nel Codice civile e a un testo unico sugli ammortizzatori sociali. Il disegno di legge presentato dal Governo può comunque portare a questo stesso risultato. In Senato lavoreremo in questa direzione.
La convince l’articolo 2, quello che riguarda la riforma dei servizi per il lavoro e politiche attive?
Ho l’impressione che qui ci sia un problema di compatibilità tra il contenuto del disegno di legge e la ripartizione costituzionale delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Lo si può comunque risolvere applicando il principio di sussidiarietà: lo Stato interviene là dove la Regione non adempie la propria funzione.
Già, ma come lo si accerta?
Non è difficile individuare indici obiettivi di efficienza ed efficacia dei servizi per l’impiego, sia per quel che riguarda i servizi all’incontro fra domanda e offerta, sia per quel che riguarda quelli di orientamento e quelli di formazione professionale.
Rispetto al riordino degli ammortizzatori sociali, Renzi promette una universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ma prevedendo prima dell’entrata a regime un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite. Secondo lei davvero c’è bisogno di una sperimentazione? Non basterebbe decidere, e aprire il sostegno a tutti gli aventi diritto?
In questo campo il metodo sperimentale mi sembra indispensabile: in Italia siamo troppo indietro – nel senso della mancanza di know-how specifico – sul terreno della necessaria coniugazione di sostegno del reddito e misure di reinserimento, cioè della condizionalità del trattamento economico di disoccupazione, per poter pensare a una riforma organica che prenda forma definitiva dall’oggi al domani.
Nel disegno di legge la questione della sperimentazione ritorna più volte. Per esempio rispetto al contratto unico, che Renzi aveva finora sostenuto, si legge nel testo che l’obiettivo di riforma si limiterebbe alla «redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro […]che possa anche prevedere la introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori». Un passo indietro dunque. Chi ha spinto perché Renzi lo facesse? Gli alfaniani alleati al governo o quella minoranza Pd che ha sempre visto il contratto unico come fumo negli occhi?
Il condizionamento negativo è venuto da entrambe le parti. Ma non dispero che si riesca a superarlo già in fase di conversione in legge del decreto n. 34. Non sarebbe difficile anticipare nel decreto una norma che preveda almeno un avvio del nuovo contratto a tempo indeterminato a protezioni progressive, salvo poi inserire organicamente la relativa disciplina nel testo unico delle norme sui rapporti individuali di lavoro.
A una domanda sul Jobs Act che un giornalista del Fatto le aveva fatto prima che il testo del ddl fosse reso pubblico, lei aveva risposto che «la delega legislativa per ora sembra formulata a maglie molto larghe. Se il suo contenuto non verrà reso più preciso e stringente prima della presentazione al Parlamento, sarà quest’ultimo a doverlo fare». Dunque secondo lei il Parlamento adesso dovrà mettere mano al disegno di legge, rendendolo più puntuale?
Sì: mi sembra necessario.
E nel frattempo il progetto di Contratto di ricollocazione di Scelta Civica che strada sta facendo?
Per quel che ne so, Lazio e Trentino Alto Adige stanno già attivandone la sperimentazione. E alla Edison hanno stipulato un accordo aziendale che prevede proprio l’attivazione del contratto di ricollocazione, anche senza finanziamento pubblico, come strumento per attuare nel modo migliore una riduzione degli organici. Il compito di implementare questa misura è stato affidato dalla Edison alla agenzia Intoo.
Il ministro Poletti ha risposto all’interrogazione parlamentare in cui lei e altri senatori chiedevate conto del Fondo per le politiche attive del lavoro? Questi 50 milioni, già pochissimi, ci sono o non ci sono?
Non ancora. Lo stanziamento è previsto dalla legge di stabilità, ma non è stato ancora emanato il regolamento che consente di attivare la sperimentazione con quelle risorse. Avrebbe dovuto essere emanato entro marzo.
Che tempi prevede per questa riforma del lavoro? C’è chi ha ricordato che l’iter parlamentare della legge Biagi durò tre anni: anche per la riforma Renzi si aspetterà così tanto?
Le variabili che possono influire sui tempi dell’iter parlamentare sono molte. La più importante è quella che riguarda la capacità di questa legislatura di durare oltre il prossimo autunno. Dipenderà anche dall’esito delle elezioni europee. È certo, comunque, che non sarà un iter rapidissimo; per semplificarlo e velocizzarlo sarebbe meglio dividere il disegno di legge in due provvedimenti distinti, uno dedicato al testo unico sui rapporti di lavoro, cioè al Codice semplificato, e l’altro dedicato alla materia degli ammortizzatori sociali.

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mercoledì 16 aprile 2014

Proposta di legge su infortunio in itinere per i ciclisti



La proposta di legge presentata da Diego Zardini e da altri 29 deputati finalizzata al riconoscimento completo dell’infortunio in itinere per coloro che si recano al lavoro in bicicletta nel percorso di andata e ritorno allarga i consensi tra le associazioni, i cittadini e coloro che ricoprono importanti ruoli nelle istituzioni. Si ricordano il sostegno e la condivisione della Federazione italiana amici della bicicletta (Fiab), del Coordinamento nazionale mobility manager università e del Sottosegretario all’ambiente Silvia Velo.
Chi usa la bicicletta per andare a lavorare, in Italia, è decisamente penalizzato, dichiara Silvia Velo,Sottosegretario all’ambiente. Ed è paradossale che ciò avvenga in un momento in cui le Istituzioni Pubbliche e le Amministrazioni promuovono l’uso di mezzi alternativi di trasporto che incidono positivamente sul consumo, sul risparmio energetico e sulla riduzione dell’inquinamento ambientale. Mi riferisco alle norme che riguardano il riconoscimento dell’infortunio per chi usa la bicicletta per recarsi a lavoro. Norme che, allo stato attuale, complicano il riconoscimento dell'indennizzo per infortunio in itinere. La proposta di Legge Zardini, in tal senso, va a modificare una norma ingiusta che, tra l’altro, disincentiva l’uso della bicicletta penalizzando senza alcun apparente motivo i cittadini virtuosi che, da un lato decongestionano il traffico locale e che, dall’altro, non inquinano".
Il Presidente della Fiab dichiara a sua volta che “promuovere l'utilizzo della bicicletta nei percorsi casa-lavoro può dare risposte importanti ai problemi di inquinamento e congestione delle nostre città. E' per questo necessario dare ai lavoratori la possibilità di scegliere serenamente di utilizzare la bicicletta per i loro spostamenti casa-lavoro garantendo la copertura assicurativa INAIL: è una scelta consapevole che il lavoratore fa non solo per se stesso ma a favore della collettività tutta”.
Inoltre, vi è da registrare l’iniziativa del responsabile del Coordinamento nazionale mobility manager università, Annalisa Greco, la quale ha inviato una lettera ai Presidenti della Commissioni Parlamentari trasporti, ambiente e lavoro per esprimere il sostegno alla proposta di legge Zardini.
Si riporta la lettera inviata ai Presidenti delle Commissioni parlamentari:
"Il Coordinamento Nazionale Mobility Manager Università è un gruppo di lavoro composto dai mobility manager degli  Atenei italiani, con lo scopo di condividere le esperienze attivate dalle università nell’ambito della mobilità sostenibile e costituire un soggetto in grado di dialogare a livello istituzionale per la promozione di azioni comuni.
In collaborazione con il Mobility Manager di ISPRA e la rete dei Mobility Manager delle ARPA regionali siamo venuti a conoscenza della proposta di legge avanzata dall’on. Diego Zardini e dall’on. Paolo Gandolfi con il supporto di altri 29 deputati, per il riconoscimento della tutela,legale ed assicurativa, di chi subisce un infortunio in bicicletta durante il tragitto casa-lavoro. In qualità di mobility manager aziendali siamo impegnati in prima persona nel supporto di forme di mobilità sostenibile per gli spostamenti casa – lavoro e rappresentiamo un numero importante di cittadini . Nell’ambito di generale orientamento verso stili di vita indipendenti dall’utilizzo individuale dell’auto privata, accanto al trasporto pubblico, la bicicletta rappresenta una delle opzioni modali più interessanti e funzionali, oggetto di un interesse crescente da parte sia delle amministrazioni locali che dei lavoratori.
L’assenza della copertura assicurativa INAIL in caso di incidente per coloro che si recano al lavoro in bicicletta, salvo i casi "in assenza o insufficienza dei mezzi pubblici di trasporto e per la non percorribilità a piedi del tragitto vd. nota Inail, Direzione Centrale Prestazioni, n. 8476 del 7 novembre 2011), rappresenta un deterrente importante all’uso della bicicletta ed un limite significativo allo sviluppo delle potenzialità della mobilità ciclistica.
Con la presente lettera intendiamo esprimere il nostro supporto nei confronti di questa iniziativa legislativa e avanzare una richiesta di esame della legge da parte della Commissione parlamentare competente”.
La proposta di legge Zardini si propone di tutelare le persone che si recano al lavoro in bicicletta e nello stesso tempo salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini. Si fa presente che le imprese potrebbero ricavare dei benefici dall’approvazione della proposta di legge in quanto il dipendente che arriva al lavoro in bicicletta, mantenendo una forma fisica migliore e un livello di stress inferiore, è più produttivo della media. Inoltre, le imprese possono trarne altri vantaggi tra i quali si citano:la riduzione dei parcheggi da prevedere, la migliore immagine dell’impresa sulla comunità locale e la diminuzione delle assenze per malattia.

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Assegno sociale a 65 anni



La deputata veronese del PD Alessia Rotta ha presentato una proposta di legge al fine di ripristinare il requisito anagrafico dei 65 anni per coloro che richiedono all'Inps l'assegno sociale. Dal 2010 è stata introdotta la speranza di vita nel sistema pensionistico con effetti sui requisiti anagrafici per conseguire anche il diritto all’assegno sociale. "Con l’attuale sistema il requisito dei 65 anni - spiega la deputata veronese - deve essere aggiornato a cadenza triennale. A partire dal 2013, questo requisito sale a 65 anni e 3 mesi e dal 2018 a 66 anni e 3 mesi. L’assegno sociale non è legato ad alcuna attività lavorativa, ma è semplicemente una misura per contrastare lo stato di povertà di una fascia di popolazione estremamente fragile e sprovvista di reddito". Tale disposizione è ingiusta in quanto l'assegno sociale non è rapportato all'attività lavorativa ma rappresenta una misura di contrasto alla povertà di un'area di persone sprovviste di reddito.
La proposta prevede di consentire all'Inps di utilizzare la Banca dati dei conto correnti al fine di verificare le autocertificazioni ed erogare le prestazioni assistenziali nella misura giusta e solo alle persone che si trovano in condizioni di indigenza. Questa operazione è necessaria per valutare i redditi con ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (interessi postali e bancari, interessi su titoli). Inoltre, è prevista la soppressione dei compensi per l’attività di docenza in aula espletata dai dipendenti pubblici durante l’orario di lavoro ordinario e straordinario. Tale posizione tiene conto che le ore di docenza effettuate dai dipendenti pubblici sono già retribuite con lo stipendio e che l’attività di formazione delle imprese innovative si svolge in massima parte ormai in modo continuo e complementare già nei processi di produzione (formazione on the job).

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martedì 15 aprile 2014

L’Inps assume con ritardo i disabili

Finalmente l’Inps ha avviato la fase finale del processo di assunzione dei disabili che avevano sostenuto la selezione nel 2012 ed erano risultati idonei alle prove di selezione. Questa decisione arriva in ritardo rispetto all’entrata in vigore del d.l. n. 101/del 2013, il quale ha sbloccato le assunzioni dei soggetti disabili nelle pubbliche amministrazioni che presentavano una soprannumerarietà ed eccedenza del personale. L’Inps ha richiesto per la seconda volta la documentazione necessaria alle persone interessate all’assunzione in condizioni normative diverse rispetto al 2012 che consentono la conclusione positiva del processo di reclutamento.
Grande soddisfazione ha espresso Diego Zardini, deputato veronese del PD, il quale con determinazione e pazienza è intervenuto in diverse occasioni per velocizzare la copertura delle quote riservati ai soggetti disabili nelle pubbliche amministrazioni ed in particolare nell’Inps.
Diego Zardini ha dimostrato molta sensibilità rispetto a tale problematica con interventi puntuali:
- una prima interrogazione del 26 luglio 2013 indirizzata a superare il blocco delle assunzioni delle categorie protette nelle pubbliche amministrazioni che presentano una soprannumerarietà ed eccedenza del personale;
- un ordine del giorno del 24 ottobre 2013, presentato in Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ed accolto dal Governo tramite il ministro della Pubblica Amministrazione dell’epoca, che sottolineava l’opportunità di assumere iniziative finalizzate a rendere reale il diritto del disabile ad accedere nel mondo del lavoro, eliminando gli ostacoli che si frappongono alla loro assunzione;
- una seconda interrogazione presentata il 28 novembre 2013, dopo l’approvazione del d.l. n. 101/2013, finalizzata a rendere trasparenti i dati relativi alle quote d’obbligo scoperte a favore delle categorie protette, a porre attenzione ai tempi di attuazione degli adempimenti previsti dal decreto affinché le aspettative delle categorie protette non vengano disattese da comportamenti dilatori e burocratici e ad accelerare il completamento del processo di assunzione dei soggetti disabili risultati idonei nella selezione da parte dell’Inps.
Il piano programmatico dell’Inps finalizzato all’assunzione dei disabili prevede il reclutamento di 250 persone in tutta Italia, di cui 18 nel Veneto e 5 a Verona. Occorre tenere presente che le scoperture dei disabili all’Inps, calcolate nel 2011, sono 495.
“Dopo la conclusione positiva, anche se con ritardo, del processo di reclutamento da parte dell’Inps – dichiara Diego Zardini – occorre porre attenzione alle assunzioni dei disabili nelle altre pubbliche amministrazioni affinché non venga disattesa con comportamenti omissivi e dilatori la posizione assunta dal Governo in merito all’ordine del giorno presentato dal sottoscritto ed accolto dal Ministro della pubblica amministrazione”.
Si ricorda che Diego Zardini ha presentato una proposta di legge che si pone i seguenti obiettivi:
- “rendere sempre più reale e stabile il diritto del disabile ad accedere al mondo del lavoro eliminando quegli ostacoli che si frappongono alle assunzioni dei disabili nel caso in cui il datore di lavoro pubblico presenti una pianta organica con personale in eccedenza e soprannumerario;
- obbligare i datori di lavoro pubblici a pubblicare sul proprio sito istituzionale i dati relativi alle quote d’obbligo scoperte a favore delle categorie protette”.
La trasparenza delle informazioni permette ai cittadini di conoscere i comportamenti delle pubbliche amministrazioni rispetto allo stato di assunzione delle categorie protette e gli organi di controllo di intervenire nel caso in cui i datori di lavoro pubblici non rispettino le disposizioni di legge in materia di assunzione delle categorie protette.
Diego Zardini anticipa che in questi giorni presenterà una nuova interrogazione affinché i datori di lavoro pubblico ed il dipartimento della funzione pubblica pubblichino nel proprio sito istituzionale i dati relativi alle quote d’obbligo scoperte a favore delle categorie protette e pongano attenzione ai tempi di attuazione degli adempimenti al fine di velocizzare il processo di reclutamento dei disabili.

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domenica 13 aprile 2014

Oltre il conservatorismo per sbloccare il paese

Articolo di Luca Ricolfi pubblicato sulla Stampa il 5 aprile 2014
C’è qualcosa di liberatorio, nel nuovo corso renziano. Fino a ieri l’Italia era attraversata da un incredibile numero di dogmi, pregiudizi, miti, feticci, totem e tabù. C’erano cose che, specie negli ambienti progressisti, non si potevano dire (e spesso non si osavano neppure pensare), pena l’immediata squalifica. Quante volte mi sono sentito dire: ma questo è quel che pensa Berlusconi, se scrivi questo fai il gioco della destra. Oggi non più. Renzi e i suoi stanno demolendo uno dopo l’altro i feticci della cultura di sinistra, e ci riescono benissimo per almeno due ragioni. La prima è che erano dei bambini, o addirittura non erano ancora nati, quando quei feticci furono eretti a baluardo del mondo progressista, e dunque non sentono alcun timore reverenziale per i maestri o presunti tali, di cui spesso nulla sembrano aver letto o studiato. La seconda ragione è che sono gli italiani stessi che, di certi feticcie di certi personaggi,non ne possono più, perché li vedono come concause o coartefici del presente disastro.
Renzi è un rabdomante, e ha fiutato il clima del paese. Ha capito che oggi si possono dire e fare cose impensabili fino a pochi anni fa (in questo aiutato dall’istinto conformistico dei media, che si sono immediatamente allineati al novello principe). Si possono criticare i sindacati, si possono stigmatizzare i disoccupati che cumulano sussidio e lavoro nero, si può tagliare la spesa pubblica per ridurre le tasse, si può parlare di flessibilità sul mercato del lavoro, si può criticare la magistratura (vedi la ferma difesa dei politici “solo” indagati), si può dare dei “professoroni” ai vati della cultura progressista. E infine, eresia massima: si può essere d’accordo con Berlusconi su alcune cose, e comunicare in modo ancora più berlusconiano di lui.
Il verbo renziano ammalia il popolo di sinistra, stanco della vecchia guardia e da sempre addestrato ad adeguarsi, e non lascia indifferente il popolo di destra, deluso da Berlusconi e compiaciuto che molti dei propri sogni siano entrati nell’agenda del nuovo premier.Si potrebbe pensare che, alla base del successo di Renzi, vi sia prima di tutto la sfiducia nella casta che ha retto il paese fin qui. Ma questo è vero solo fino a un certo punto. Chi non ne può più del Palazzo e della classe dirigente, più che a Renzi tende a guardare a Grillo. Il consenso di cui gode Renzi ha una base più profonda, anche se forse non del tutto consapevole. Quel che con Renzi viene finalmente al pettine è il nodo del conservatorismo italiano, una sindrome che affligge il paese da almeno trent’anni e che ha caratterizzato, ormai possiamo dirlo, non solo la destra (da cui forse ce l’aspettiamo di più) ma anche la sinistra. Un conservatorismo che ha bloccato il paese sia sul terreno delle regole sia su quello delle grandi riforme economico-sociali. Mentre grandi paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Germania, sia pure con metodi e tempi diversi, attuavano le riforme radicali di cui avevano bisogno, e anche per questa via modernizzavano la sinistra (si pensi a Clinton, Blair e Schroeder), l’Italia si baloccava tra una rivoluzione tradita (quella liberale di Berlusconi) e un riformismo mai veramente decollato (quello dell’Ulivo di Prodi). E’ innanzitutto per questo, perché siamo indietro di un quarto di secolo, e non per ignoranza o giovanile spensieratezza che il ministro Maria Elena Boschi può oggi permettersi di polemizzare con i venerati maestri alla Rodotà, fino a spingersi a dire che in questi trent’anni “le continue prese di posizione dei professori”hanno “bloccato un processo di riforma che oggi invece non è più rinviabile per il nostro Paese”.
Naturalmente non è così, il ministro sopravvaluta ampiamente il potere dei professori. E tuttavia c’è anche del vero, nell’incauta e semplicistica affermazione del ministro delle Riforme. E’ vero, ad esempio, che l’incapacità della sinistra di rinnovarsi e di uscire dalla trappola dell’antiberlusconismo, un’incapacità di cui il primo responsabile è il ceto politico, è stata spesso, molto spesso, alimentata e ingigantita non già dai professori in quanto tali, ma da una élite di intellettuali in senso lato. Una élite progressista fatta di professori, scrittori, magistrati, registi, artisti, comici, attori, giornalisti, intimamente convinti della propria superiorità morale e civile, e irresistibilmente attratti dall’idea che il proprio compito, anzi la propria missione, non sia semplicemente di far bene il proprio mestiere, bensì di insegnare al paese come vivere e che cosa pensare. Un magistero, quello dei venerati maestri (così li chiamava il compianto Edmondo Berselli), che effettivamente ha finito per inchiodare la sinistra ai suoi miti e ai suoi riti, con un danno incalcolabile per il paese non meno che per la sinistra stessa. Già, perché una cosa bisognerà pur dirla una buona volta: se oggi l’Italia è un paese profondamente diseguale, con una frattura abissale fra garantiti e non garantiti, con i giovani e le donne sistematicamente tenuti ai margini del mercato del lavoro, con uno Stato sociale dispensatore di privilegi e avaro di servizi, è anche perché per decenni ci siamo tenuti questa sinistra, miope e conservatrice.
Da questo punto di vista Renzi e i suoi hanno ragioni da vendere. Dove invece, a mio parere, stanno prendendo un abbaglio è quando, parlando genericamente di professori, non colgono la differenza fra l’élite degli intellettuali, che parlano il linguaggio della certezza e della superiorità morale, e la massa degli studiosi, che parlano il linguaggio del dubbio e della ricerca, e non amano arringare le folle. Fra questi ultimi, siano essi economisti, politologi, sociologi o giuristi, da almeno vent’anni le posizioni che dominano la scena parlano di modernizzazione, di cambiamento, di riforme radicali, non certo di conservazione del patrimonio e delle conquiste irrinunciabili della sinistra. Dalla commissione Onofri (1997) alla commissione Muraro (2007), per citare solo due esperienze significative, il mondo degli studiosi è più che mai schierato dalla parte del cambiamento, e immune da ogni rimpianto per la sinistra che fu.
Ecco perché il nodo dei “professori” è delicato. Ci sono professori di tipo-vate (gli intellettuali, o venerati maestri), e professori di tipo-Archimede (gli studiosi, gli esperti). Entrambi non hanno un rapporto del tutto armonico con Renzi. La differenza cruciale, però, è che i primi temono che Renzi abbia successo, i secondi che fallisca. I primi diffidano delle idee di Renzi, i secondi dubitano della sua capacità di metterle in atto.
Quel che accomuna profondamente i due tipi è il desiderio di essere ascoltati dal principe. I professori-guru non si capacitano che la politica abbia smesso di riconoscere il loro ruolo di guida morale e spirituale. I professori-esperto si stupiscono che la politica paia non aver bisogno del loro supporto tecnico e di conoscenza. Gli uni vorrebbero indicare al principe i fini dell’azione politica, gli altri mettergli a disposizione i mezzi per realizzarli.
La mia sensazione è che entrambi si illudano. La politica è per sua natura autoreferenziale, Renzi o non Renzi. Può fingere di ascoltare i venerati maestri (come faceva in passato), ma alla fine tira dritto per la sua strada. Può avere bisogno degli esperti, ma solo quando è con l’acqua alla gola, e comunque sempre e solo dei “suoi” esperti. In questo, le cose non sono molto cambiate, semmai sono diventate più chiare. Gli intellettuali e i tecnici, i maestri e gli specialisti, la politica li ha sempre usati, ma non li ha mai ascoltati davvero (e qualche volta è stato un bene). Solo un grande narcisismo, e una certa dose di ingenuità, possono far credere ai professori che il loro ruolo possa cambiare.

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domenica 6 aprile 2014

Occupazione femminile bassa

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 5 aprile 2014
Il governo Renzi non ama i rimproveri dell’Europa e delle istituzioni internazionali. Ieri però ne è arrivato uno che non si può ignorare. In una intervista al Corriere, Christine Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, ha ricordato che l’Italia è fra i Paesi che «incoraggiano meno» (un cortese eufemismo) l’occupazione femminile: un cambiamento di rotta darebbe un contributo di primo piano alla ripresa economica. Proprio come nel caso di deficit e debito pubblico, non è certo la prima volta che ci viene chiesto di «fare i compiti a casa» per promuovere il lavoro delle donne. Siamo davvero la maglia nera su questo versante? E, soprattutto, perché i nostri governi fanno così poco per colmare il divario che ci separa dagli altri Paesi?
L’indicatore che meglio riassume il ritardo italiano è il tasso di occupazione femminile. Da noi lavora solo il 47% delle donne in età compresa fra i 16 e i 64 anni, più di dieci punti sotto la media dell’eurozona. Le donne inattive sono molto più numerose al Sud che al Nord. Ma anche in regioni relativamente ricche e sviluppate come l’Emilia Romagna o la Lombardia il tasso di occupazione femminile resta più basso rispetto alle aree con cui queste regioni dovrebbero confrontarsi: il Baden Württemberg tedesco, ad esempio, o il Rodano-Alpi francese, dove il tasso supera il 70%. Un altro elemento preoccupante è che, invece di diminuire, il divario italiano sta aumentando. Nel 2002 la distanza dalla Germania era di 16 punti percentuali, ora è di 20. Persino la Spagna è riuscita a fare meglio di noi nell’ultimo decennio e ci supera di ben tre punti, nonostante i posti di lavoro perduti durante la crisi.
Come ha osservato Christine Lagarde, il basso livello di occupazione femminile è uno dei più ingombranti ostacoli alla crescita. Se ci allineassimo agli standard europei, le dimensioni del nostro Prodotto interno lordo aumenterebbero di circa sei o sette punti percentuali. L’esperienza dei Paesi che hanno già seguito questa strada dimostra che il lavoro delle donne costituisce un vero e proprio volano di sviluppo. E guardando al settore dell’imprenditoria femminile possiamo già trovare numerose conferme di questa sindrome anche per l’Italia: nell’ultimo decennio le piccole e medie aziende guidate da donne sono andate meglio di quelle guidate da uomini, a dispetto dei maggiori ostacoli incontrati nell’accedere al credito bancario.
Dove stanno i blocchi al lavoro femminile? Sicuramente non nelle preferenze o nella mentalità delle donne italiane. I sondaggi dicono che il quaranta per cento delle donne inattive vorrebbe un’occupazione. Le donne in età fertile dichiarano però in larga maggioranza che desidererebbero avere almeno due figli. Il nodo principale sta qui. Il nostro modello economico-sociale ostacola la realizzazione del progetto di vita a cui aspirano le donne italiane (come quelle di tutti i Paesi sviluppati): avere un lavoro e fare figli. Tutte e due le cose, non solo una.
La scarsa disponibilità di servizi per l’infanzia e per gli anziani rende molto difficile conciliare responsabilità lavorative e familiari. Ma giocano contro anche la cultura e i comportamenti di molte imprese. Le aziende italiane sono ancora in buona misura organizzate in base a una prospettiva maschile: la quota di donne che devono abbandonare il lavoro quando sono incinte o quando nasce un figlio resta elevata, il ricorso ai congedi parentali è scoraggiato, soprattutto per gli uomini - i quali peraltro collaborano ancora troppo poco al lavoro domestico e di cura. L’altro grande ostacolo è il costo economico dei figli, non adeguatamente controbilanciato, come avviene in altri Paesi, da sgravi fiscali, trasferimenti e servizi pubblici.
La creazione di un welfare e di un mercato del lavoro più amichevole per le donne deve imporsi come una delle priorità più urgenti. Vi sono molte misure di sostegno che costerebbero poco o nulla: pensiamo a nuove regole sull’organizzazione del lavoro o sui periodi e orari di apertura degli uffici pubblici, degli asili, delle scuole. Certo, un pacchetto incisivo dovrebbe includere anche misure onerose per la finanza pubblica (fiscalità premiale, asili, congedi parentali e così via). La legge delega sul lavoro appena presentata in Parlamento prevede numerosi interventi che vanno nella giusta direzione, ma «senza oneri per la finanza pubblica». Saprà il governo ristrutturare la spesa in modo da liberare risorse a favore delle donne?
La questione non è tecnica, ma politica. Negli altri Paesi il motore dell’occupazione femminile si è acceso quando si sono formate «coalizioni pro donne» in seno alla classe dirigente (imprenditori, leader sindacali, intellettuali) e all’élite di governo. Purtroppo, nonostante i meritevoli sforzi di alcune singole personalità e organizzazioni, nel nostro Paese una simile coalizione ancora non c’è, in parte anche a causa (va detto) della bassa capacità di pressione dell’associazionismo femminile. Le cose possono però cambiare oggi. Sul piano della rappresentanza, le elezioni del febbraio 2013 hanno segnato un punto di svolta: le donne parlamentari sono il 30,8% del totale (erano il 20,2% nella passata legislatura). Nel nuovo governo, metà dei ministri sono donne. L’adozione delle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate è stato un altro passo importante, così come la nascita, negli ultimi anni, di nuovi soggetti e di nuove iniziative mediatiche di aggregazione (come il blog 27esimaora.corriere.it ).
Fra pochi giorni sarà reso noto non solo il Documento di economia e finanza (Def), ma anche il Programma nazionale di riforma (Pnr), che conterrà gli obiettivi strategici del governo per il prossimo anno. Ci sarà un’agenda donne, riconoscibile e adeguata? Non possiamo che augurarcelo. Puntare sull’occupazione femminile è uno dei pochi atout di cui disponiamo per tornare a crescere. Approfittiamone.

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mercoledì 2 aprile 2014

Riforme o deriva autoritaria?

Articolo di Pierluigi Battista pubblicato sul Corriere della Sera l’1 aprile 2014
Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa «deriva autoritaria». O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali.
Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell’«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l’impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile.
I nostri padri costituenti avevano ragione ad avere paura. Venivano da vent’anni di dittatura. Disegnarono un sistema in cui nessuno potesse vincere mortificando le minoranze, come era accaduto con il fascismo. Avevano il «complesso del tiranno», come dicono i costituzionalisti, e crearono un edificio istituzionale dominato dalla mediazione, dal bilanciamento estremo, dall’equilibrio perfetto, dalla lunghezza dei tempi di riflessione. Ma con il passare del tempo, e mentre questo sistema di equilibri perfetti diventava l’alibi di ogni immobilismo, l’incancrenirsi del «complesso del tiranno» ha impedito la modifica, anche la più lieve, in senso «decisionista». Da notare che gli stessi costituenti avevano previsto, regolando ogni modifica del testo costituzionale con apposite procedure di garanzia, che si potesse mutare la legge fondamentale della nostra Repubblica, almeno nella sua seconda parte, «istituzionale», pur lasciando intatta la prima, quella dei principi. Ma con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale («la Costituzione più bella del mondo»), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni.
«Deriva autoritaria» è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato «stravolgere la Costituzione». Ogni riforma «un attentato alla democrazia». Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso «autoritarismo». Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza.

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Povegliano sostiene Al lavoro in bicicletta

Povegliano Veronese è il primo comune d’Italia che ha approvato una mozione di sostegno e condivisione della proposta di legge del deputato veronese del PD Diego Zardini, sottoscritta da altri 30 deputati del Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e Scelta Civica, in materia di infortunio in itinere finalizzata a tutelare in modo completo coloro che si recano al lavoro in bicicletta ed eliminare i condizionamenti normativi che attualmente rendono quasi impossibile il riconoscimento dell’infortunio e la corresponsione della relativa indennità.
“La proposta di legge dell’on. Diego Zardini, dichiara Anna Maria Bigon sindaco di Povegliano, che riconosce l’infortunio in itinere a chi va al lavoro in bicicletta ci ha visti subito d’accordo, perché non è ammissibile che esista una discriminazione a danno di chi usa questo mezzo per andare al lavoro anziché l’automobile. Non sempre sono disponibili mezzi pubblici per i tragitti casa lavoro e penalizzare chi usa la bicicletta è ingiusto, anche tenendo conto che non dappertutto esistono reti di piste ciclabili”.
“A Povegliano Veronese, conclude Anna Maria Bigon, il centro del paese è collegato alle due zone produttive con una pista ciclabile perché l’amministrazione comunale intende favorire l’uso di tale mezzo di locomozione sano ed ecologico perché non inquina. La nostra attenzione alla mobilità dolce è dimostrata anche dal progetto di rete di piste ciclabili che abbiamo tracciato sugli strumenti urbanistici e che sarà realizzata per stralci. E’ importante che i comuni sostengano questa iniziativa che vede fra i promotori la Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta), proprio per dare concretezza all’idea di democrazia partecipativa che parte dal basso e che vede protagonisti i cittadini ed i suoi rappresentanti, a sostegno di modifiche normative che vanno incontro ad esigenze che per alcuni non sembrano importanti e che invece contribuiscono a migliorare la qualità della vita. Proprio come cerchiamo di fare noi con l’azione della nostra amministrazione”.
La delibera è stata approvata con il voto favorevole dei consiglieri di maggioranza che sostengono l’amministrazione Bigon ed il voto contrario della Lega. La Lega è sempre pronta a votare no a qualunque proposta o mozione della maggioranza cosi come è avvenuto per i temi strategici della povertà, dell’ambiente e del lavoro.
Fabrizio Sambugar, capo gruppo dei consiglieri di maggioranza, che ha presentato la mozione ha sottolineato che “la legislazione vigente consente il riconoscimento dell’infortunio in itinere e di conseguenza la corresponsione dell’indennizzo solo nei seguenti casi: assenza o insufficienza dei mezzi pubblici di trasporto; - non percorribilità a piedi del tragitto casa e lavoro e viceversa; - incidente avvenuto solo all’interno di piste ciclabili o di zone interdette al traffico. Tali condizioni restrittive, conseguenti all’uso necessitato della bicicletta, non incentivano l’uso della bicicletta e rendono impossibile la corresponsione da parte dell’Inail dell’indennità per i lavoratori che utilizzano la bicicletta per recarsi al lavoro. Ad aggravare ulteriormente la situazione è il grave ritardo nella realizzazione di interventi per favorire la mobilità ciclistica e di reti di percorsi ciclabili integrati”.
La mozione approvata ribadisce che “la proposta di legge in materia di infortuni in itinere nel caso dell’uso della bicicletta risponde alle esigenze sociali ed economiche di uno Stato moderno perché pone attenzione : - all’impatto ambientale (inquinamento acustico, atmosferico ed emissione del gas serra); - ai costi legati alla mobilità urbana (benzina, ticket parcheggio); alla tutela della salute dei cittadini (aspettativa di vita più lunga, riduzione dello stress); alla riduzione del traffico sulle strade (decongestione del traffico, riduzione degli incidenti in itinere); alla dipendenza dall’estero in materia energetica del paese (riduzione del consumo e risparmio energetico)”.
“Le comunità locali dall’approvazione della proposta di legge Zardini, afferma la mozione, trarranno sicuramente dei benefici dagli effetti conseguenti alla riduzione dell’uso individuale della macchina e dell’emissione di gas con effetto serra in termini di qualità della vita dei cittadini cosi come è avvenuto in Europa e nelle principali città europee”.
Il Consiglio Comunale ha espresso la volontà: - di condividere e sostenere la proposta di legge che promuove l’uso della bicicletta per i benefici che essa produrrà sui cittadini, sulle città e di conseguenza negli stati e nel pianeta; - di trasmettere la deliberazione alla Fiab (Federazione Italiana Amici della Bicicletta Onlus), agli organi di stampa affinché venga data la massima divulgazione ed ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati affinché si adoperino a velocizzare il processo di approvazione della proposta di legge.
La proposta di legge Zardini, modifica ed integra la normativa vigente, al fine di eliminare l’uso necessitato della bicicletta e garantire la piena tutela nel caso di infortunio in itinere a coloro che usano la bicicletta per recarsi al lavoro.

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