mercoledì 27 agosto 2014

Prima Festa dell’Unità ad Oppeano

Molte sono le Feste dell’Unità che si sono realizzate e che si svolgeranno in Provincia di Verona. Questi eventi rappresentano la vitalità del Partito Democratico e l’entusiasmo di tante persone, giovani e meno giovani, che con il loro impegno al servizio del PD e dei cittadini rendono possibile la realizzazione di tali eventi politici e sociali. Le Feste dell’Unità rappresentano un luogo di incontro e confronto su temi attuali che interessano i cittadini.
Ne parliamo con Serena Capodicasa del circolo PD di Oppeano e organizzatrice della Festa.
Ci vuole tanto coraggio per organizzare una Festa Democratica in un ambiente non certamente favorevole?
“C'è chi dice che più che coraggio bisogna essere un po' matti! A parte gli scherzi, ci vuole coraggio e soprattutto tanta volontà e pazienza. Ci vuole una squadra e ci vuole, come nel nostro caso, un forte Partito alle spalle, che con i circoli vicini, in particolar modo quello di Bovolone e di Isola della Scala, e tutti coloro che ognuno del nostro circolo ha incontrato nella sua esperienza non solo politica ci stanno aiutando o ci aiuteranno nei prossimi giorni”.
Quali sono gli eventi politici più interessanti?
“Gli eventi politici in programma sono tre, tutti per noi molto interessanti.
Il 29 Agosto ci saranno Franco Bonfante e Giorgio Anselmi, dei Federalisti Europei, che dialogheranno su tematiche europee.
Il 30 Agosto  avremo invece un bell'incontro tra amministratori locali, con i sindaci Achille Variati, sindaco di Vicenza, Annamaria Bigon, sindaco di Povegliano, e Federico Vantini, sindaco di San Giovanni Lupatoto, insieme ai consiglieri comunali Serena Marchi e   Claudio Marafetti della Lista Oppeano Città Viva.
Il 31 Agosto  invece avremo con noi Angelo Rughetti, sottosegretario alla pubblica amministrazione e alla semplificazione, che insieme ai deputati Alessia RottaDiego Zardini e a Antonino Leone, della direzione provinciale del PD, parlerà della Riforma della Pubblica Amministrazione e delle sue implicazioni nella vita dei cittadini”.
La Festa rappresenta l'inizio di un percorso del circolo PD di Oppeano per mettersi in relazione con la comunità?
“Il motivo di questa Festa è proprio questo: si tratta di un passo di svolta, nel percorso del PD di Oppeano, che ci porti a diventare un concreto punto di riferimento: culturale, sociale, politico.
L'ambizione è che questa festa diventi un appuntamento fisso, da portare nelle varie frazioni di Oppeano, assieme ad altre iniziative ed eventi soprattutto culturali da regalare al nostro paese”.
E’ importante partecipare alla Festa dell’Unità di Oppeano per due motivi principali: - Incoraggiare e sostenere il percorso di cambiamento del circolo PD; - Partecipare agli incontri su argomenti molto importanti ed interessanti.

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lunedì 18 agosto 2014

Affrontare l’emergenza in Europa


Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 15 agosto 2014
L’Italia non è il solo Paese che sta attraversando una fase di contrazione: la crescita del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre è risultata negativa anche in Francia e in Germania; il Pil dell’area dell’euro nel suo insieme - con una crescita dello 0,05 rispetto ai tre mesi precedenti - è praticamente piatto e stride con lo 0,97 degli Stati Uniti e lo 0,8 del Regno Unito. La doccia fredda di questo secondo trimestre era annunciata: è da marzo che i numeri della produzione industriale, le indagini sui sentimenti dei produttori e dei consumatori, i dati di import ed export danno segnali negativi. Dalla grande crisi, l’eurozona è uscita con una ripresa nel 2009-2010 per poi ripiombare in una seconda recessione nel terzo trimestre del 2011. Nonostante qualche segnale positivo nel 2013, da questa seconda recessione non ci siamo veramente mai ripresi: il Pil continua a oscillare intorno allo zero e l’occupazione è stagnante. Nonostante la recessione del 2008 abbia avuto caratteristiche simili a quella degli Stati Uniti - per tempi, durata, profondità - dal 2011 l’andamento ciclico dell’area euro è stato molto diverso. Questo scollamento è un fatto unico dal Dopoguerra. Ed è questo che deve farci riflettere, non solo il dato sul Pil del secondo trimestre.
La mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il Paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali. La fondamentale differenza tra noi e gli Stati Uniti sta nelle politiche monetarie, fiscali e finanziarie messe in atto dal 2008 in poi. Le caratteristiche di quelle Usa sono state tre: tempestiva e massiccia espansione fiscale; tempestiva e massiccia politica di acquisto di titoli finanziari e pubblici da parte della Banca centrale (quantitative easing ); tempestiva azione di ricapitalizzazione delle banche. Al contrario, nella zona euro la risposta fiscale è stata nel suo insieme restrittiva: si è enfatizzato il problema del consolidamento del debito invece che concentrarsi sullo stimolo alla domanda. La politica monetaria, inizialmente tempestiva ed efficace per affrontare la crisi di liquidità delle banche, ha poi rallentato lo stimolo: da due anni il bilancio delle Banche centrali dell’euro-sistema è in contrazione e si esita a usare lo strumento del quantitative easing nonostante l’inflazione - il cui dato più recente è un tasso annuale dello 0,4% - sia in ribasso dal 2011. Il terzo elemento è il ritardo, sei anni dalla crisi per la precisione, con cui abbiamo affrontato il problema della ricapitalizzazione delle banche.
Il risultato è stato non solo la debolezza persistente dell’economia reale, ma, paradossalmente, un aumento del rapporto tra debito totale (privato e pubblico) e Pil invece della sua auspicata diminuzione. Ci sono molte ragioni che spiegano questa inerzia. Per la politica fiscale, il problema è la differenza del livello del debito pubblico tra diversi Paesi dell’Unione, differenza che preoccupa i Paesi creditori perché non vogliono esserne gli impliciti garanti. Una simile preoccupazione spiega anche l’avversione della Bce a politiche monetarie che possano suggerire un implicito finanziamento al debito pubblico di alcuni Paesi. Per l’azione di ricapitalizzazione delle banche, l’inerzia è spiegata da risorse nazionali limitate in una zona economica integrata in cui i bilanci delle banche sono tipicamente molto grandi rispetto a quelli dei Paesi in cui risiedono legalmente.
I problemi sono complessi e le preoccupazioni motivate. Ma è arrivato il momento per i governi dei Paesi dell’Unione e per le nostre istituzioni federali di dirsi che questa complessità non può più frenare un’azione coraggiosa e rapida che faccia ripartire l’economia. Il problema da affrontare non è quello della convivenza tra una Germania forte e una «periferia» europea debole, ma la debolezza dell’Unione nel suo insieme. Va dichiarata l’emergenza e va disegnato un piano di azione che coordini politiche monetarie e fiscali. Il percorso è difficile perché comporta il coordinamento tra un’autorità federale indipendente, la Bce, e diverse autorità nazionali di bilancio, i governi. Tutto questo in un contesto in cui il Trattato stabilisce regole per garantire la stabilità, ma non ne prevede per l’emergenza e per un’azione atipica di rilancio dell’economia. C’è dunque un vuoto che va colmato, con prudenza, ma anche coraggio.

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venerdì 15 agosto 2014

Riforma del lavoro urgente

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 13 agosto 2014
Per la politica italiana, agosto è sempre stato il mese delle dichiarazioni a effetto e dei ballons d’essai sui temi più controversi. Non stupiscono dunque né la recente proposta di Angelino Alfano sull’abolizione dell’articolo 18 «entro la fine d’agosto”, né la lapidaria risposta di Marianna Madia, secondo cui l'art. 18 «non è un problema».
Matteo Renzi sta gettando acqua sul fuoco. Anche per il presidente del Consiglio non è il caso di aprire una simile discussione. Ma le regole vanno senz’altro cambiate, con un intervento di più ampia portata che magari porti a «riscrivere l’intero Statuto dei lavoratori».
Tra le righe di questi diverbi estivi, apparentemente innocui, si nasconde un problema serio: il governo sta incontrando grandi difficoltà nel delineare un quadro di riferimento chiaro e dettagliato sulla riforma del lavoro, compresa l’inevitabile questione dei rapporti contrattuali e della flessibilità in uscita. Senza un tale quadro, a settembre si rischiano pericolose tensioni politiche.
Non tutti lo ricordano, ma l’articolo 18 ha già subito dei ritocchi con la riforma Fornero del 2012. In caso di controversie sul licenziamento, il datore di lavoro e il dipendente possono ora avviare una procedura di «conciliazione» e accordarsi su una indennità monetaria, che varia in base all’anzianità di servizio. Il ricorso al giudice resta comunque possibile. La riforma ha modificato il «rito» giudiziale, cercando di renderlo più leggero e veloce.
Quale è stato l’effetto di questi ritocchi? Non lo sappiamo. Nel rapporto di monitoraggio dello scorso gennaio, la «valutazione» del nuovo articolo 18 è contenuta in una paginetta (su più di 50), da cui si evince che il numero di conciliazioni avviate è di circa 20 mila. Poche? Tante? In che tipo di imprese? Con quali risultati? Nessun dato, nessuna risposta.
Come si fa a parlare di articolo 18 (nel bene e nel male) senza una base empirica di riferimento? In una recente intervista il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (cui spetterebbe il compito di raccogliere informazioni e valutare) ha detto che quell’articolo non è un totem e che, come tutte le norme umane, può essere modificato (una posizione fatta propria nelle ultime ore dallo stesso Renzi).
Senza argomenti e proposte serie, l’immagine del totem però si rinforza, i contrasti si polarizzano in base a principi inconciliabili. Così si va dritti verso quello scenario che si vorrebbe scongiurare.
In attesa di valutazioni circostanziate della riforma Fornero, il governo può naturalmente fare molte altre cose in tema di relazioni contrattuali. Le più ragionevoli sono la semplificazione del codice del lavoro e la sperimentazione di nuove forme di assunzione a tempo indeterminato, ispirate alle pratiche virtuose di altri Paesi e rispettose delle norme protettive previste dalla Ue.
Il disegno di legge delega sul lavoro (il cosiddetto Jobs Act) sembrava andare proprio in questa direzione. Sul contratto «a tutele crescenti» (proposto da Pietro Ichino) si è tuttavia aperta una accesa controversia all’interno della maggioranza, che ha bloccato tutto. Cosa intende fare il governo alla riapertura del Parlamento?
La domanda è cruciale non solo sul piano dei contenuti, ma anche dei tempi. La previsione è quella di far approvare la legge delega entro dicembre. Poi il governo dovrà predisporre i decreti delegati, superando il vaglio di conformità del Parlamento. Infine ci vorranno i famigerati provvedimenti attuativi.
Con questa scaletta saremo fortunati se la riforma entrerà in vigore fra un anno e mezzo. Solo a quel punto avremo il nuovo codice e potranno avviarsi le sperimentazioni. In tutti i Paesi le riforme contemplano provvedimenti di attuazione. Solo in Italia questo processo richiede tempi biblici (e non è unicamente colpa del bicameralismo).
Le regole non «creano» lavoro, siamo d’accordo. Ma alcune facilitano, altre ostacolano le assunzioni (quelle «buone», a tempo indeterminato) da parte delle imprese. Da noi prevalgono le seconde e le conseguenze sono pagate soprattutto dai giovani. Perciò non possiamo aspettare la fine del 2015 per avere la riforma.
Francesco Giavazzi e Alberto Alesina hanno proposto di accelerare drasticamente i tempi, in modo da presentare a Bruxelles i decreti delegati insieme alla legge di stabilità per il 2015 (Corriere, 8 agosto). Credo che sarebbe già un bel risultato approvare entro ottobre la legge delega, magari con una sintesi di ciascun decreto delegato che il governo intende poi varare e un cronoprogramma.
A torto o a ragione, gli investitori internazionali si aspettano il superamento del «totem». Se non li convinceremo in tempi rapidi che con il Jobs Act il governo italiano intende cambiare nel profondo tutto il nostro mercato del lavoro (circoscrivendo così anche la portata e la rilevanza dell’articolo 18), dovremo rassegnarci alla recessione. E sarà solo colpa nostra.

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giovedì 14 agosto 2014

Esistono ancora gli esodati?

Lettera di Pietro Ichino pubblicata sul Corriere della Sera 12 agosto 2014
Caro Direttore, a quasi tre anni dalla riforma delle pensioni del 2011, tra coloro che si qualificano come “esodati” non ce n’è più uno che possa essere indicato come tale secondo il significato originario del termine. I provvedimenti di “salvaguardia” adottati nel 2011 e 2012 hanno infatti esentato dall’applicazione dei nuovi requisiti per il pensionamento tutti coloro che avevano perso il lavoro prima della riforma per effetto di un accordo individuale o collettivo di incentivazione all’esodo, stipulato in considerazione di un prossimo pensionamento secondo la vecchia disciplina. Sono stati poi “salvaguardati” anche tutti i lavoratori licenziati negli anni 2007-2011, i quali fossero destinati a maturare i requisiti per la pensione secondo le vecchie regole entro tre anni dalla riforma, cioè entro il 2014.
Qual è, dunque, la situazione delle persone che frequentano le trasmissioni telefoniche e radiofoniche presentandosi come “esodate” e rivendicando un diritto a essere prepensionate? In gran parte, quando non si tratta di persone che per poche settimane o mesi di differenza sono state costrette a rimanere al lavoro più a lungo di quanto desideravano, sono ultracinquantenni che hanno perso la loro ultima occupazione, per i motivi più vari, uno, cinque, dieci o quindici anni fa. Così stando le cose, dobbiamo metterci d’accordo: se riteniamo che, perso il lavoro, gli ultracinquantenni non possano ritrovarlo e debbano quindi essere in qualche modo accompagnati alla pensione, come si faceva normalmente fino al novembre 2011, allora diciamo apertamente che intendiamo abrogare la riforma. Però, allora, diciamo anche che consideriamo giusto continuare ad accollare la pensione di questi cinquantenni e sessantenni alle nuove generazioni, che in pensione andranno a 70 anni o poco prima: perché, con una attesa di vita di oltre 80 anni, l’anzianità contributiva normale di 30-40 anni con cui si andava in quiescenza nei decenni passati non basta per il finanziamento di un trattamento decente destinato a durare 20 o 25 anni. E diciamo chiaramente che rinunciamo ad allineare il tasso di occupazione degli italiani tra i 50 e i 65 anni di età (oggi circa uno su tre) alla media europea (uno su due).
Se invece consideriamo giusti gli obiettivi della riforma del 2011, riteniamo cioè necessario aumentare il tasso di occupazione degli anziani e darci un sistema previdenziale capace di camminare sulle sue gambe; se consideriamo – sulla base dei dati forniti dal ministero del Lavoro – che nell’ultimo anno 1,6 milioni di contratti regolari in Italia sono stati stipulati con persone ultracinquantenni e circa un quarto di questi con ultrasessantenni; se infine siamo convinti che il sistema ante 2011 di prepensionare tutti i cinquantenni o sessantenni che perdevano il posto sia, oltre che sbagliato, anche improponibile sul piano politico in Europa oggi; se di tutto questo siamo convinti, allora dobbiamo affrontare il problema di questi disoccupati nei termini appropriati: cioè come un problema, appunto, di disoccupazione, reso più difficile dall’età degli interessati. Se disponiamo di risorse da destinare alla sua soluzione, istituiamo per queste persone una indennità non finalizzata alla loro espulsione definitiva dal mercato del lavoro, ma, al contrario, condizionata al loro rimanere in esso attive e disponibili; consentiamo a chi le assume di beneficiare di un contributo correlato alla parte non goduta dell’indennità; istituiamo la possibilità di pensionamento parziale combinabile con il part-time o altre forme di flessibilità dell’età di pensionamento. Ma sempre con l’obiettivo di promuovere e incentivare l’invecchiamento attivo, evitando tutto ciò che invece lo disincentiva.
L’errore peggiore, comunque, è quello del rimanere in mezzo al guado, del fare e disfare, come accadde nel 2007, quando il ministro Damiano disfece la riforma del suo predecessore Maroni. Se non vogliamo tornare indietro, dobbiamo orientare tutti gli interventi a un mutamento profondo della nostra cultura diffusa, che è alla base dei comportamenti e delle vecchie strategie di vita dalle quali è nato il problema degli “esodati” vecchi e nuovi. Mi riferisco alla cultura della job property, che rende vischiosissimo il nostro mercato del lavoro; quella per cui la progressione retributiva è affidata non alla possibilità effettiva di spostarsi dove il proprio lavoro è meglio valorizzato, ma agli scatti di anzianità, che frenano pesantemente la mobilità dei più anziani; quella per cui se il “diritto fondamentale” al posto di lavoro viene “leso” con il licenziamento, l’unico risarcimento possibile è la cassa integrazione per anni e poi il prepensionamento.
Tutto si tiene. Dobbiamo passare da un vecchio equilibrio di sistema a uno nuovo. E, come sempre, spostarsi da un equilibrio a un altro è tutt’altro che facile. Ma non abbiamo alternative: di vie facili d’uscita dalla nostra arretratezza non ce ne sono.
Scheda tecnica pubblicata su http://www.pietroichino.it/?p=32174

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giovedì 7 agosto 2014

Federico Testa è il commissario di Enea

Articolo pubblicato dal sito  http://www.pianetauniversitario.com/
Federico Testa, direttore del dipartimento di Economia aziendale e ordinario di Economia e Gestione delle imprese è stato nominato Commissario dell'Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, ente di ricerca pubblico che si occupa di tematiche energetiche e ambientali. La nomina è arrivata nella mattinata di oggi, mercoledì 6 agosto, con Decreto del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. La carica di Commissario assomma in sé sia il ruolo del Presidente che dell'Amministratore delegato.
"Anche se la denominazione ufficiale dell’ente è diversa da alcuni anni - spiega Testa - la “e” e la “a” di Enea stanno a richiamare l'energia e l'ambiente. Due risorse fondamentali in cui investire per l'uscita dalla crisi del nostro Paese. Si tratta di sviluppare ulteriormente la ricerca nel settore e di renderla disponibile alle imprese italiane così da aumentarne la competitività sui mercati internazionali. Anche per quello che riguarda le famiglie un uso più “intelligente" e consapevole dell'energia può portare a risparmi significativi e a un miglioramento della qualità della vita".
Federico Testa, veronese, classe '54, si è laureato nel 1978 con il massimo dei voti e la lode in Economia e Commercio all'Università di Padova. Negli anni successivi, collabora alla ricerca sui bilanci energetici regionali promossa dallo Iefe, Istituto di Economia delle Fonti di Energia dell'università Bocconi di Milano. Contemporaneamente ha iniziato a collaborare con la Cgil di Verona, prima come coordinatore dell'Ufficio studi quindi come responsabile dell'Agro-Industria. Nel 1986 è stato chiamato a far parte del Comitato Consultivo per la Zootecnia della Comunità Economica Europea. Ha partecipato ai lavori della Commissione Produttività di Federelettrica, la Federazione italiana delle Imprese elettriche municipalizzate. Dall'ottobre 1994 è stato ricercatore in Tecnica Industriale e Commerciale all'Istituto di Studi industriali, bancari e del terziario dell'università degli Studi di Verona. Nello stesso anno viene nominato dal sindaco di Verona nel Consiglio di Amministrazione dell’Azienda generale servizi municipalizzati (Agsm). Negli anni successivi ha partecipato a ricerche del Murst, ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica e del Cnr. Nel settembre '95 ha rappresentato l'Università di Verona nel gruppo di lavoro per il Parco Scientifico e Tecnologico di Verona. Nel 1998 è diventato professore associato, dal 1999 ha ricoperto l’insegnamento di Tecnica industriale e commerciale alla Facoltà di Economia dell’Università di Verona.
Nell’ottobre 2002, risultato idoneo al concorso per professore ordinario è chiamato dalla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Verona sulla Cattedra di Economia e Gestione delle Imprese. Nel novembre 2002 è stato nominato vice-presidente di Agsm spa. Nel giugno 2005 è stato nominato membro del Comitato Esecutivo dell’Aeroporto Valerio Catullo spa. Nella primavera del 2006 è stato eletto alla Camera dei Deputati ed è entrato a far parte della Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo. Viene rieletto nelle elezioni del 2008 e ha assunto l’incarico di responsabile nazionale per l’energia ed i servizi pubblici del Partito Democratico. Nel 2013 è stato chiamato a presiedere il Comitato Scientifico dello Smart Energy Expo, la prima manifestazione internazionale dedicata all’efficienza energetica. Nel 2014 è stato nominato dall’Enea nel gruppo di esperti di elevata e comprovata esperienza per la valutazione delle proposte nell’ambito del progetto “Idee per lo sviluppo sostenibile”. Dottore Commercialista e revisore contabile, ha svolto attività di revisione presso Amministrazioni Locali e importanti società private, anche multinazionali. Ha altresì collaborato con associazioni imprenditoriali ed imprese singole nello sviluppo di programmi rivolti alla crescita imprenditoriale, competitiva e di marketing delle piccole e medie imprese, facendo altresì parte del panel di esperti di energia dell’Aspen Institute. Fa parte del Cda di numerose Fondazioni di ricerca e di sostegno al mondo del volontariato.

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