sabato 28 marzo 2015

Europa, crescita e lavoro

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 27 marzo 2015
È da qualche settimana che si parla con insistenza di ripresa in Europa e, finalmente, anche in Italia. I dati di tutti i settori e i sondaggi sulle aspettative di imprese e consumatori segnalano che il tasso di crescita del Prodotto interno lordo (Pil) del primo trimestre del 2015, che sarà pubblicato a maggio, confermerà il dato positivo di fine anno. È molto probabile che la ripresa sia cominciata nella seconda metà del 2014.
Meno certa è la traiettoria della ripresa nei prossimi anni, ma, stando alle previsioni di molti ed in particolare a quelle della Banca centrale europea (Bce) - pubblicate una decina di giorni fa - l’economia dell’eurozona tornerà gradualmente al suo indice di crescita storico del 2% (il cosiddetto potenziale) nel 2017.
Ma se si guarda all’ultima riga della tabella pubblicata dalla Bce, c’è un numero che getta un’ombra nera su questa ripresa. Nel 2017 il tasso di disoccupazione sarà del 9,9%, neanche due punti più basso di quello di oggi. Poiché questo corrisponde alla crescita potenziale, la previsione implica che, nell’eurozona, il cosiddetto tasso «naturale» di disoccupazione, cioè quello che si realizzerà quando tutti gli occupabili avranno trovato lavoro, è quasi del 10%. Questo 10% non scomparirà con la ripresa e per quanto definito naturale nel linguaggio tecnico, di naturale ha ben poco. Se a questo 10% si aggiungono le persone che non cercano un impiego attivamente in quanto scoraggiate, e si considera che questo numero è composto in gran parte di disoccupati da lungo tempo, stiamo quindi dicendo che la zona euro - una delle più ricche economie del pianeta - dovrà imparare a convivere con un esercito di esclusi dal mercato del lavoro. Questi sono i numeri di tutta l’eurozona: Nord e Sud. L’Italia è messa ben peggio. Nonostante oggi il nostro tasso di disoccupazione sia appena superiore a quello della zona euro, la sua composizione è terrificante: 40% di disoccupati tra i giovani, con una concentrazione molto alta nel Mezzogiorno e tra i senza lavoro di lunga durata. La crisi per noi è stata molto costosa: dal 2007 il numero dei disoccupati è praticamente raddoppiato, passando da 1,76 milioni a 3,4 milioni. Fa piacere registrare che i contratti a tempo indeterminato siano stati nei primi due mesi del 2015 il 35% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. È una buona notizia ma sono solo 79 mila contratti.
Estrapolando dalla previsione aggregata della Bce non si può quindi non dedurre che, in Italia, per una larga parte di quegli oltre 3 milioni di disoccupati non ci sia speranza di trovare un impiego nei prossimi anni. Questi numeri non possono essere trattati da semplice corollario delle previsioni economiche. Al contrario, ci dicono che nei prossimi anni il problema principale per l’Europa dell’euro, e per l’Italia in particolare, sarà il lavoro.
È un problema che va messo al centro delle politiche europee, che va capito ed affrontato. Va capito, perché non è chiaro se una grossa fetta della forza lavoro non abbia un impiego per via di una perdita di competenze causata dalla crisi prolungata o da fattori preesistenti alla crisi, conseguenza di un cambiamento della struttura della domanda di lavoro in Europa, dei processi tecnologici e della competizione globale. Ma soprattutto il problema va affrontato perché non è possibile pensare che il successo del progetto europeo e la credibilità dei singoli governi dell’Unione non sia legata alla capacità di proporre politiche strutturali che prevedano il rilancio e la riqualificazione dell’occupazione.
È dalla ripresa del 2009 che gli Stati Uniti discutono, non solo nelle università ma anche nella politica, sul come affrontare la cosiddetta jobless recovery, cioè una ripresa non accompagnata da un aumento dell’occupazione. Nonostante la crescita degli ultimi anni negli Usa, nessuno ha potuto dichiarare la crisi finita fino a quando il mercato del lavoro non ha cominciato a rafforzarsi. Perché questa minore sensibilità al problema nel Vecchio Continente? Abbiamo speso gli ultimi sette anni a rispondere alla instabilità finanziaria, a cercare di governare le tensioni interne all’Unione, a costruire istituzioni per irrobustirla, ne abbiamo - almeno per ora - assicurato la sopravvivenza. Ma il progetto europeo, nonostante la ripresa e la maggiore stabilità raggiunta, non ha legittimità se non si affronta il problema del lavoro.

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martedì 17 marzo 2015

Lavoro, effetti delle nuove leggi sul lavoro

Nel 2014, dopo due anni di calo, l’occupazione cresce (+0,4%, pari a 88.000 unità in confronto all’anno precedente), a sintesi di un aumento nel Nord (+0,4%) e nel Centro (+1,8%) e di un nuovo calo nel Mezzogiorno (-0,8%, pari a -45.000 unità).
Il tasso di occupazione si attesta al 55,7%, +0,2 punti percentuali rispetto al 2013.
Questi sono alcuni degli effetti prodotti nel periodo precedente alla legge di stabilità ed al Jobs Act.
L’esonero contributivo per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato ai sensi della legge 23 dicembre 2014, n. 190 sta producendo effetti positivi sul livello di occupazione del paese. Infatti, il presidente dell’Inps Tito Boeri ha comunicato che sono 76mila le richieste arrivate dalle imprese  per accedere alla decontribuzione previdenziale in relazione alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza nel corso del 2015.
Nella Provincia di Verona le richieste effettuate dalle imprese sono 1491.
La misura dell’esonero è pari all’ammontare dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi INAIL, nel limite massimo di un importo pari a euro 8.060,00 su base annua.
Sono esclusi dai benefici i contratti di apprendistato ed i contratti di lavoro domestico.
I lavoratori coinvolti dalle assunzioni potrebbero essere molti di più rispetto alle imprese che hanno presentato la richiesta di esonero contributivo.
La Fondazione dei consulenti del lavoro ha calcolato che nei primi due mesi del 2015 i lavoratori assunti a tempo indeterminato sono 275mila con l’esonero dei contributi previdenziali previsti dalla legge di stabilità (legge 23 dicembre 2014, n. 190).
Fin qui i primi effetti positivi sull’occupazione prodotti dalla legge di stabilità. Adesso occorre aspettare la completa attuazione del Jobs Act, specificatamente del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, per monitorare gli effetti sul livello dell’occupazione dei nuovi provvedimenti sul lavoro.
Intanto, si legge che gli imprenditori sono pronti ad attivare nuove assunzioni a tempo indeterminato per i benefici previsti dal Jobs Act.

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mercoledì 4 marzo 2015

Licenziamenti economici, tanta confusione e poca coerenza


Occorre ricordare che il disegno di legge delega “Jobs Act” non prevedeva specificatamente la disciplina dei licenziamenti economici e disciplinava il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. In sede di esame della proposta di legge delega numerosi sono stati le modifiche concordate e mediate dal Presidente della commissione lavoro Cesare Damiano, il quale è riuscito a condurre ad unità il gruppo PD per poi determinare, a cose fatte, il parere sullo schema di decreto legislativo per capovolgere i contenuti della legge delega in materia di licenziamenti economici.
Tra gli emendamenti approvati dalla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati vi è il seguente che tratta i licenziamenti per motivi economici: "Al comma 7, lettera c), aggiungere, in fine, le parole: escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento;1. 538. Sottoscritto da Gnecchi, Cinzia Maria Fontana, Giorgio Piccolo, Boccuzzi, Giacobbe, Casellato, Incerti, Maestri, Albanella, Simoni, Miccoli, Baruffi, Malisani, Gribaudo, Paris, Martelli, Tullo, Rotta.
L’emendamento Gnecchi ed altri è stato approvato dalle camere ed è contenuto nella lettera c) del comma 7 dell’articolo 1 della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
Fino a questo punto dell’iter legislativo non ci sono stati problemi per il Jobs Act. Nel momento in cui lo schema del decreto delegato veniva sottoposto al parere delle Commissioni Lavoro della Camera e del Senato sono sorte polemiche, scontri e strumentalizzazioni finalizzate a escludere dalla disciplina dei licenziamenti economici i licenziamenti collettivi che si identificano con i primi. Il parere della Commissione Lavoro della Camera è stato tassativo e quello del Senato possibilista riguardo ai licenziamenti collettivi.
La prima cosa da chiarire è che i licenziamenti collettivi rientrano a pieno titolo nei licenziamenti economici e che, pertanto, sono disciplinati dalla lettera c) del comma 7 dell’articolo 1 della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
L’emendamento Gnecchi mirava soprattutto al “diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento” ed ha sottovaluto la esclusione “per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio”.
Per risolvere il problema del mancato reintegro per i licenziamenti economici si è pensato di intervenire in Commissione Lavoro della Camera, la quale ha espresso il parere non vincolante sullo schema del decreto attuativo ed ha richiesto in modo obbligatorio l’esclusione dei licenziamenti collettivi dal decreto. Non a caso i proponenti dell’emendamento ed i sostenitori dello stesso hanno parlato di licenziamenti collettivi e non economici per rendere credibile invano il loro intervento.
Il Governo in sede di approvazione definitiva del decreto attuativo della delega in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti non ha considerato il parere non vincolante delle Commissioni Lavoro perché in contrasto con la letterac) del comma 7 dell’articolo 1 della legge 10 dicembre 2014, n. 183, la quale ha escluso chiaramente l’applicazione della reintegrazione dei licenziamenti economici, compresivi dei licenziamenti collettivi. Se il Governo avesse accolto il parere la norma sarebbe stata incostituzionale. Pertanto, l’accusa al Governo di aver ignorato il parere delle Commissioni è infondata.
Se la minoranza del PD fosse stata più attenta avrebbe potuto presentare, a suo tempo, un emendamento esplicito sul reintegro dei licenziamenti collettivi e non farsi promotore dell’emendamento sui licenziamenti economici, primo firmatario Gnecchi, che esclude la reintegrazione. Inoltre, avrebbe evitato di esprimere un parere contrario non vincolante contrario alla legge delega ed aprire un confronto strumentale e non risolvibile.
Stefano Ceccanti, costituzionalista, in risposta al collega Gustavo Zagrebelsky ha dichiarato: “ Il prof. Zagrebelsky sostiene oggi sul Fatto quotidiano che in materia di licenziamenti il decreto del Governo è andato oltre la delega. Evidentemente non ha letto la lettera c) del comma 7 dell’articolo 1 della delega, che riproduco qui sotto (*). È esattamente vero il contrario: la delega è così precisa nell’escludere il reintegro per i licenziamenti economici, che era invece il parere della Commissione Camera, scorporando i licenziamenti collettivi, a violare la delega. Il Governo, col decreto, ha rispettato la delega. Chi era contrario avrebbe dovuto emendare la delega, non cercare di aggirarla dopo.

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