venerdì 29 maggio 2015

Diego Zardini e Orietta Salemi sulla trasparenza

La falsità e l’opacità hanno causato nel tempo effetti devastanti nel mondo (l’invasione dell’Iraq), in Italia (Parmalat, Cirio, Mafia Capitale) e nel Veneto (Mose, finanziamento dei servizi sociali, il caso Giacino).
La trasparenza è un fattore di grande cambiamento per realizzare la democrazia e la partecipazione nella gestione delle istituzioni e delle organizzazioni private e pubbliche.
La gestione Zaia è stata caratterizzata da opacità, chiusura e isolamento. Caratteristiche queste che hanno fatto precipitare il Veneto nella scala della competitività. Vi è il pericolo concreto che il Veneto perda ulteriori posizioni di competitività nei diversi settori (es. la Sanità veneta è precipitata al 5° posto).
Esiste un rapporto inversamente proporzionale tra la trasparenza e la corruzione: più alta è la trasparenza, più bassa è la corruzione e più alto è il controllo sociale e la partecipazione.
Zaia ha realizzato l’opacità e non ha introdotto gli strumenti manageriali necessari per realizzare una gestione trasparente del Veneto. Zaia parla della trasparenza come se fosse uno slogan senza contenuti e, quindi, la usa in modo sconveniente senza effetti concreti.
Il malaffare e la malversazione che hanno interessato il Veneto sono state scoperte dalle forze dell’ordine e non dal sistema di potere regionale (Presidente e Giunta Regionale) in quanto è assente la trasparenza totale ed un sistema di controllo dell’efficacia di ciascun comparto della Regione.
Per realizzare la trasparenza totale nella Regione Veneto è necessario introdurre i seguenti fattori:
- Sistema di controllo dell’efficacia e dell’efficienza di ciascun comparto della Regione supportata da una infrastruttura informatica adeguata;
- Indicatori di performance efficienti che devono riguardare tutti i settori della Regione: dall’uso del territorio alla sanità, dai servizi sociali;
- Organismo indipendente di valutazione della performance composto da membri esterni e di comprovata competenza e capacità. In questo caso Zaia ha nominato un dirigente interno della Regione, vanificando l’indipendenza, l’autonomia e l’imparzialità di tale organo;
- Obiettivi specifici, quantificabili, misurabili e rapportati alle risorse e non indipendenti da esse per conseguire i premi di risultato.
Tali fattori devono essere trasparenti affinché i veneti, gli utenti ed i ricercatori possano prenderne consapevolezza, esprimere valutazioni, formulare proposte e contestare eventuali scelte improduttive che abbassano la qualità dei servizi e creano sprechi e corruzione.
L’impegno che la Giunta Zaia mette per rendere opache le attività regionali è vano perché prima o dopo la trasparenza, grazie alle nuove tecnologie ed alle forze dell’ordine, si afferma e chiede il conto.
In assenza di informazioni significative e controllabili, trasparenza, le affermazioni di Zaia rappresentano soltanto mera propaganda fuorviante al fine di eludere il controllo sociale.
Diego Zardini
Orietta Salemi

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martedì 26 maggio 2015

Io scelgo Alessandra Moretti e Orietta Salemi



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domenica 10 maggio 2015

Camusso: la sinistra che si fa male

Intervista di Massimo Rebotti a Alessandra Moretti pubblicata sul Corriere della Sera il 9 maggio 2015
«Classico esempio di quella sinistra tafazzista, che si fa male da sola». Alessandra Moretti, candidata del centrosinistra a governatore del Veneto, dice di «non essere stupita» dall’ affondo, due giorni fa a Mestre, della leader cgil Susanna Camusso che a una platea di delegati sindacali ha detto: «Capisco l’imbarazzo e le difficoltà che tanti di voi hanno di fronte alle Regionali. Piuttosto che non votare però, meglio annullare la scheda».
E' stato fuoco amico?
«Una cosa dev’essere chiara. Chi invita a votare scheda bianca in Veneto è come se dicesse di votare per Luca Zaia, il governatore leghista che ha abbandonato al loro destino i lavoratori e le imprese della regione.
Chi dice queste cose è la stessa sinistra che ha fatto cadere il governo Prodi e ha consentito a Berlusconi di governare per vent’anni».
Susanna Camusso però e la leader del più grande sindacato italiano. Non è preoccupata per la sua campagna?
«No. Questo è un vecchio modo di fare politica, di chi vuol farsi sempre male. È quella sinistra allergica a governare. E pensare che noi, in Veneto, abbiamo costruito un centrosinistra ampio, c’ è Sel, ci sono i Verdi, anche un pezzo di Rifondazione comunista. E poi tra i candidati nelle liste in mio sostegno c’ è l’ ex segretario della Cgil di Padova. Penso che i più amareggiati per l’uscita di Camusso siano proprio gli iscritti veneti al suo sindacato».
La Cgil è molto dura con il governo. A Mestre il segretario ha detto che Renzi favorisce solo le imprese. Lei è finita in mezzo a questo scontro?
«Sa quanti posti di lavoro ha creato il Jobs act del governo Renzi nel primo trimestre del 2015 in Veneto? Quasi 35 mila. Che Camusso chiedesse a un giovane che prima aveva un contratto a progetto e ora ha un contratto a tempo indeterminato, se pensa anche lui che il governo favorisce le imprese. Se diventerò presidente farò un altro Jobs act, per il Veneto, che rafforzi ulteriormente le indicazioni dell’esecutivo».
Forse è anche per questo che la Cgil non la sostiene.
«C’è una parte del sindacato che si rende conto che un rinnovamento è necessario. Non i vertici».
Sta pensando che questo intervento di Camusso, alla fine, le farà guadagnare voti?
«La verità è che le battaglie si vincono tutte insieme, oltre gli steccati ideologici. E le critiche che ho ricevuto sono ideologiche, i veneti capiranno».
Sul sito di Alessandra Moretti campeggia il numero dei comuni visitati finora durante la campagna elettorale: ieri era a quota 519: «Qualche mese fa questa sfida sembrava impossibile, ora è apertissima».
Per la verità qualche giorno fa Renzi ha detto: «Alle Regionali finisce 6 a 1» e l’ipotesi di sconfitta era proprio in Veneto.
«Conosco Matteo Renzi, non lascia niente a nessuno. E io con lui. Ho abbandonato l’europarlamento per giocarmi questa partita. E i miei avversari ora hanno paura».
In suo sostegno oggi arriva il ministro Boschi.
È una donna che stimo, la sento molto vicina. Il messaggio che voglio lanciare è che con me alla guida della Regione la relazione con il governo sarà molto forte, per rispondere alle esigenze del Veneto. Qui il centrosinistra ha un’occasione storica: strappare una regione considerata “impossibile”. E poi, alla guida della coalizione c’è una donna».
Anche Camusso è donna.
«Infatti, spiace che abbia perso l’occasione di sostenere una donna. In altre circostanze aveva dimostrato una diversa sensibilità».

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mercoledì 6 maggio 2015

Il lavoro flessibile

Articolo di Klaus F. Zimmermann, direttore dell’Institute for the Study of Labor, pubblicato sul Corriere della Sera 4 maggio 2015
Molti sognano da tempo di essere meno incatenati al lavoro, e conciliare la propria attività con il tempo libero. Altri sognano di non dover più svolgere compiti monotoni, ripetitivi. Quel mondo non è mai stato così vicino ad avverarsi. Eppure oggi le domande sono: perderemo il lavoro? Oppure, ci sarà un lavoro per me in futuro? Queste preoccupazioni sono condivise da quasi tutti i Paesi, sviluppati ed emergenti. Attualmente, d’altronde, persino nell’industria manifatturiera cinese il focus è sull’impiego massiccio di robot industriali, anche a causa della massima dimensione raggiunta della forza lavoro cinese, a lungo oggetto delle preoccupazioni occidentali per il trasferimento delle mansioni di assemblaggio.
In tutto il mondo, i laureati - sia dei Paesi sviluppati sia in quelli emergenti - scoprono che il loro titolo accademico non basta a garantire un posto. I cosiddetti robot di servizio e l’informatizzazione inoltre si ripercuoteranno su una serie di professioni - dai piloti aeronautici e camionisti ai chirurghi e cuochi. I dati finora raccolti indicano una ricaduta occupazionale negativa per i lavoratori poco qualificati e per alcuni con qualifiche medie. Tuttavia, i ricercatori dell’università di Oxford prevedono che, entro 20 anni, tale impatto negativo potrebbe interessare metà delle professioni, incluse quelle considerate più qualificate. Per orientare le politiche, dovremo seguire questi sviluppi con attenzione.
Il cambiamento è sempre fastidioso e, per quanto la visione del futuro sia incerta, ne conosciamo le linee chiave. L’impiego a vita in azienda e persino i contratti formali di lavoro saranno più rari. Una maggiore «informalità» negli accordi di lavoro - a lungo considerata un fenomeno prevalente nei Paesi emergenti - sta prendendo piede anche nei Paesi avanzati, come fattore di omologazione globale. Per quanto riguarda i Paesi sviluppati, alcune società sono più preparate di altre a contare su se stesse - ad una realtà di assunzione del rischio da parte del singolo. In particolare, il modello sociale degli Stati Uniti ha sempre responsabilizzato il singolo per i rischi economici e finanziari legati alla sua esistenza. Questo significa che il cambiamento dello schema mentale sarà più difficile per gli europei, abituati a un modello in cui certi rischi vengono assunti dalla società più che dall’individuo. Ed è qui la chiave del dilemma: per molti aspetti, la «nuova economia» offre ciò che la gente ha chiesto: meno gerarchie, più flessibilità e maggiore orientamento ai risultati. Ma questo guadagno di flessibilità ha un prezzo. Il punto è fare in modo che questo «mondo nuovo» non conduca a un drastico trasferimento del rischio dalle aziende (e dal capitale) alla persona. In questo contesto, la migliore previsione che gli economisti del lavoro possono fare non è che ci sarà meno occupazione, bensì che il lavoro avrà forme diverse. Sono necessarie innovazioni importanti: elaborare nuove modalità di assicurazione e tutele per proteggere i trattamenti di fine rapporto dalle oscillazioni dei mercati finanziari.
Mentre emerge questo nuovo mondo del lavoro, possiamo osservarne l’intrinseca dialettica. Da una parte, gli smartphone ci aiutano a superare la separazione formale tra lavoro e «gioco», dall’altra, ci portiamo il lavoro a casa, quasi letteralmente, in tasca. Di conseguenza, il classico lavoro dalle 9 alle 5 sta velocemente scomparendo. Questo spostamento verso modelli di lavoro più flessibili implica anche nuove sfide. Il lavoro flessibile può essere troppo imprevedibile per programmare altri impegni, come gli appuntamenti medici difficili da ottenere, o per ritagliare qualche ora per svolgere altrove qualche altro lavoro.
Inoltre, questa flessibilità significa effettivamente che la linea di confine tra lavoro e tempo libero è sempre più labile, causando potenzialmente uno stress notevole. I lati positivi e negativi della trasformazione dei lavoratori e dei luoghi di lavoro dovrà essere quindi soppesata con attenzione e intelligenza. Dopo tutto, in passato, le economie mondiali hanno affrontato cambiamenti ben più grandi. Basta guardare al passato per ritrovare la grande agitazione collettiva - dalla letteratura alla filosofia, alla politica - sulle implicazioni sociali dell’avvento di una diffusa industrializzazione, meccanizzazione e elettrificazione. Le trasformazioni delle ere passate, come lo spostamento di milioni di persone dai campi alle città, furono sconvolgenti, ma ciò portò a un miglioramento delle condizioni di vita. I prossimi cambiamenti offriranno opportunità inimmaginabili. Per arrivare a quel punto, le economie emergenti dovranno continuare le loro trasformazioni, mentre le economie europee e nordamericane dovranno adattarsi a realtà diverse. La novità è che ora saremo coinvolti tutti insieme in questo riallineamento, indipendentemente da dove viviamo.

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lunedì 4 maggio 2015

La leadership armonizza democrazia e capacità di decisione

Articolo di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della Sera il 1° maggio 2015
Questa fase della vita politica italiana — il «tutti contro Renzi» sul tema della legge elettorale - sembra la meno adatta a riflessioni pacate sulle radici lontane della crisi che stiamo vivendo.
Per semplificare il tentativo, non mi soffermo sul perché siano contro Renzi movimenti o partiti populisti e antieuropei: esclusi dal gioco, ogni pretesto è buono per aggredire il governo. E lascio anche da parte quel partito, Forza Italia, che ai tempi del patto del Nazareno Renzi pensava di coinvolgere nel gioco, come rappresentante di un elettorato con il quale poteva instaurarsi una dialettica democratica simile a quella che si svolge in altri grandi Paesi europei, centrodestra contro centrosinistra. A Berlusconi non è riuscito il tentativo (ma c’è mai stato?) di «trasformare il carisma in istituzione», di stabilizzare e dare una consistenza organizzativa al suo partito e un indirizzo politico al suo popolo: compito certo difficilissimo in Italia, ma che ad altri leader carismatici è pur riuscito altrove. Perché non sia riuscito a lui per ora nessuno l’ha spiegato meglio di Giovanni Orsina ( Il berlusconismo nella storia d’Italia , Marsilio) e devo lasciare il lettore in sua compagnia.
Vengo allora al Pd. Nessuno, credo, si lascia ingannare dalla maggior correttezza della polemica - i toni di Salvini non si adattano a una polemica interna, e poi tradizione e cultura ancora un poco contano - ma l’ostilità e l’insofferenza della minoranza per il segretario sono ancor più intense di quelle manifestate dai partiti di opposizione, cosa che spesso avviene nei conflitti in famiglia. E nessuno, credo, è convinto dall’idea che queste difficoltà siano dovute a incomponibili conflitti sul merito delle riforme istituzionali proposte da Renzi, come invece la minoranza vorrebbe far credere.
Tanti commentatori ci hanno già ricordato, con nomi e date, che una concezione di democrazia maggioritaria come quella adottata dall’attuale proposta di legge elettorale era già discussa e largamente accettata all’interno dei partiti dell’Ulivo, e che l’idea di un Senato senza potere fiduciario e invece con una funzione di rappresentanza delle autonomie era un obiettivo sul quale esisteva un ampio accordo. Anche sul rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, pur temperato da istituzioni di garanzia che il progetto Renzi lascia inalterate nei loro poteri, il consenso nei partiti dell’Ulivo, poi confluiti nel Partito democratico, era molto ampio. E lascio da parte l’incredibile polemica sulle preferenze: contro le preferenze era schierato l’intero Pds-Ds, e una parte non piccola di Margherita.
Facciamo allora un piccolo esperimento intellettuale e poniamoci la seguente domanda ipotetica: se le riforme che ora vuol fare Renzi le avesse proposte Bersani con l’avallo del vecchio gruppo dirigente ex comunista ed ex sinistra dc — alla luce della storia che ho brevemente ricordato non è un’ipotesi inverosimile, le premesse c’erano tutte — ci sarebbe forse stato uno scatenamento polemico di questa intensità? Che arriva a riesumare il vecchio slogan di «minaccia alla democrazia» già usato ai tempi di Berlusconi? Quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Non può trattarsi solo della comprensibile resistenza di un ceto dirigente sconfitto: in un partito sano la sconfitta si archivia e ci si prepara a una rivincita in futuro, confidando che i fatti e la propria azione politica dimostrino l’erroneità della linea adottata dal leader. In gioco c’è qualcosa di più grosso, il passaggio da una concezione di partito a un’altra. Da un partito di notabili in servizio permanente effettivo, in cui la strategia del partito emerge da accomodamenti e mediazioni continue, a un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito e l’ulteriore dilazione nella decisione contrasterebbe con l’efficacia della decisione stessa. Un partito che non guarda prevalentemente al proprio interno, ma guarda alla sua azione di governo e al consenso che questa può riscuotere nel Paese. Se si aggiunge che — mirando al successo esterno e non alla conservazione delle oligarchie e dei santuari ideologici cui prestano osservanza — il leader può essere indotto a forti modifiche delle strategie adottate in passato, si vedono bene i tabù che Renzi ha abbattuto e si capisce la violenza della reazione: l’opposizione è stata sbalzata in un mondo radicalmente estraneo a quello cui si era assuefatta.
È il nuovo mondo che Mauro Calise spiega assai bene nel suo saggio sull’ultimo numero de «il Mulino» ( La democrazia del leader ) e di cui consiglio una lettura attenta, ai dissidenti del Pd e non solo. Il governo del leader non è una minaccia per la democrazia — non siamo a Weimar — ma un tentativo di conciliare democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere.

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